sorveglianza digitale – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Fri, 08 May 2020 07:42:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Il virus in carcere. Aprire le gabbie, cambiare il sistema https://www.micciacorta.it/2020/05/in-virus-in-carcere-aprire-le-gabbie-cambiare-il-sistema/ https://www.micciacorta.it/2020/05/in-virus-in-carcere-aprire-le-gabbie-cambiare-il-sistema/#respond Fri, 08 May 2020 07:37:43 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26112 L'editoriale del nuovo numero del magazine internazionale Global Rights, interamente dedicato al carcere e ai diritti dei reclusi nel mondo nel tempo della pandemia da coronavirus

L'articolo Il virus in carcere. Aprire le gabbie, cambiare il sistema sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Una grande sperimentazione di semi-detenzione autogestita di massa: è questo uno degli effetti più appariscenti e inediti del lockdown conseguente alla pandemia da Coronavirus che ha ferito il mondo, cambiandone in profondità le abitudini, incrinandone le sicurezze e sconvolgendone le economie. Il tutto con una rapidità stupefacente, sino al giorno prima inimmaginabile. Al 28 aprile 2020 sono oltre tre milioni e 100mila le infezioni coronavirus confermate, 928mila i ricoverati e 218mila le vittime [già saliti, al 7 maggio, rispettivamente a 3 milioni 847mila, 1 milione e 250mila, 269mila, ndr]. Il numero dei confinati in casa ha raggiunto circa quattro miliardi di persone, quasi la metà della popolazione globale. Numeri che in ogni caso sono riduttivi, almeno per quanto riguarda contagi e decessi, essendo molta altra parte sommersa, non censita o addirittura nascosta dalle statistiche ufficiali. Miliardi di persone hanno dunque provato, e stanno ancora vivendo, una condizione di privazione di libertà, per quanto assai attenuata rispetto a quella della carcerazione effettiva. Quest’ultima, sempre a livello mondiale, risulta in crescita e riguarda oltre 11 milioni di persone, di cui la metà è ristretta in soli cinque paesi: Stati Uniti (2,1 milioni), Cina (1,65 milioni), Brasile (690mila), Russia (583mila), India (420mila). Sorvegliare e curare Miliardi di persone rinchiuse costituiscono uno scenario distopico che nessuno scrittore di fantascienza o sceneggiatore era mai arrivato a immaginare. Da un giorno all’altro ci si è trovati a vivere in una società rigidamente disciplinata e altamente controllata. La task force contro le fake news da ultimo introdotta dal governo italiano per controllare le informazioni diffuse sulla pandemia pare, in effetti, ispirata alla fantasia di George Orwell. Ma persino quella dimensione dispotica e allucinata raccontata in 1984 risulta ora surclassata dall’utilizzo massiccio e pervasivo delle più avanzate tecnologie di sorveglianza digitale, anch’esse introdotte di punto in bianco senza resistenza o remora alcuna. In molti paesi europei si è presto affermato un modello cinese. Si è aperta la caccia con droni e geolocalizzazione ai trasgressori delle misure di auto-reclusione e di distanziamento sociale, si stanno introducendo sistemi di sorveglianza di massa attraverso app di tracking o di contact tracing, mentre i parlamenti sono chiusi e resi superflui dalle decretazioni d’urgenza e dai dispositivi dello Stato d’eccezione. Nell’intero Occidente gli istituti e le procedure democratiche, già minati dall’interno da decenni di predominio della grande finanza e delle corporation transnazionali, sono stati ulteriormente svuotati; con un colpo di mano, come nell’Ungheria di Orbán o in maniera più subdola e inavvertita, come nel Belgio, dove la prima ministra Sophie Wilmès dispone ora di poteri speciali senza nemmeno aver dovuto passare per il rito dell’approvazione parlamentare come Orbán. Il primo ministro della Slovenia, Janez Janša, ha immediatamente imitato quello ungherese, forzando i limiti costituzionali e ampliando, oltre ai propri, i poteri delle polizie nel controllare i cittadini e reprimendo la stampa. Nuovi e ampi poteri ha ottenuto anche Emmanuel Macron in Francia, i cui cittadini avevano già dovuto abituarsi a leggi di emergenza, prima come reazione al terrorismo jihadista, poi con il contrasto e la repressione dei movimenti sociali di protesta. Leggi che, more solito, progressivamente si sono invece stabilizzate. Da Erdoğan a Orbán, la debolezza complice dell’Europa Di fronte al golpe bianco di Orbán le istituzioni comunitarie tacciono, forse imbarazzate ma di sicuro distratte o complici. Obiettivamente conniventi, come già con Erdoğan, al quale tutto viene consentito: dalle complicità con Daesh, alla strage di diritti e di oppositori in Turchia, all’aggressione perenne e genocida contro i kurdi, all’invasione del Nord-Est siriano, alla presenza militare nel Mediterraneo e all’ingerenza in Libia, al ricatto permanente, nonostante i miliardi di euro elargitigli per bloccare fuori dalle mura della Fortezza Europa il fiume dolente di profughi siriani. Forse a Bruxelles, nonostante tutto, considerano il premier magiaro un membro presentabile, se pur a vocazione autoritaria: in fondo, una sua proposta di legge promette solo cinque anni di carcere alla stampa non allineata. Può persino essere presentato come moderato, ma solo se paragonato al presidente delle filippine, già tristemente noto per la sua war on drugs, in realtà una guerra contro chi le droghe consuma, la cui polizia ha sterminato in pochi anni migliaia di tossicodipendenti e spacciatori attraverso esecuzioni extragiudiziali. Alle stesse forze dell’ordine, Rodrigo Duterte ha ora ordinato di sparare contro chi violi le misure introdotte per contrastare l’epidemia di coronavirus. Detenzione autogestita, anche in quel caso, ma a rischio della vita. L’eterogenesi del virus La realtà dunque supera spesso la capacità di fantasia e d’invenzione. La sorpassa perlopiù in peggio. Eppure, anche in quest’occasione, dietro e a fianco del dramma e delle tragedie, si sono sviluppate e diffuse in modo altrettanto virale insospettate reazioni solidali, pratiche di mutuo aiuto e di spontaneo supporto ai più deboli e bisognosi. Vale a dire a quella parte di società di sovente abbandonata e trascurata dalle istituzioni o sacrificata nelle logiche dell’emergenza e dei grandi numeri. Effetti indiretti positivi, attuali o potenziali, sono riscontrabili anche sul piano generale e su scala più ampia. La dottrina dell’austerity, amministrata dal suo sommo sacerdote, la cosiddetta Troika, contro la quale in Europa hanno sinora vanamente lottato vasti movimenti e per la quale hanno sofferto interi popoli, come quello greco, ha finalmente collassato. Certo, va osservato che gli scenari determinatisi rischiano di mettere in forse la sopravvivenza dell’intero progetto europeo, peraltro reso costitutivamente fragile dalla centralità della moneta a discapito di un’Europa sociale e dei diritti dei popoli. Passare dal rigorismo a guida ordoliberista al trionfo degli egoismi, delle belligeranze nazionali e delle pulsioni sovraniste, ben rappresentati dal Gruppo di Visegrád o dall’italiano Salvini, equivarrebbe al passare dalla padella alla brace. La guerra è la peggior pestilenza Pochi risultati ha purtroppo prodotto il meritevole appello del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che il 23 marzo ha chiesto un cessate il fuoco ai tanti paesi in armi: «Porre fine alla malattia della guerra e combattere la malattia che sta devastando il nostro mondo: si comincia fermando i combattimenti ovunque. Ora». Pochi e irrilevanti quelli che hanno accolto l’invito, come la guerriglia colombiana dell’Esercito di liberazione nazionale, i guerriglieri marxisti-leninisti del Bagong Hukbong Bayan nelle Filippine, la milizia separatista del Camerun meridionale o, in modo più significativo pur temporaneo, le Forze Democratiche Siriane e la coalizione araba a guida saudita impegnata nella guerra in Yemen. Gli Stati e le potenze interessati hanno invece fatto orecchie da mercanti, in questo caso di armi. Un mercato sempre più florido, come documenta il SIPRI: nel 2019 il volume delle spese militari globali ha raggiunto 1917 miliardi di dollari, una crescita del 3,6% sull’anno precedente. Per la pandemia della guerra non esiste alcun vaccino; l’unica terapia sarebbe quella di fermare la macchina feroce del business bellico e del warfare, quel “complesso militar-industriale-finanziario” che governa il mondo. In un mondo confinato in casa, in molte sue parti, ad esempio l’Italia, continuano a doverne uscire tutte le mattine i lavoratori anche del settore bellico, compresi gli addetti alla produzione dei cacciabombardieri nucleari F35, senza vergogna considerata “essenziale” dai governanti. Se il piano economico e politico è assai sdrucciolevole e incerto, più agevole è cogliere qualche riflesso positivo in materia ambientale e di diritti. Si è, infatti, registrato un crollo dei valori dell’inquinamento e un recupero di terreno e di possibilità di sopravvivenza da parte della fauna, quanto meno in Occidente: si sono così potuti vedere animali selvatici camminare tranquillamente nei sobborghi di qualche città, oppure delfini giocare davanti alle rive, in acque sino a poche settimane fa avvelenate da scarichi o affollate di grandi navi e rumorosi motoscafi. Diritti animali e diritti umani Come a Chernobyl, quando l’uomo si ritira o è costretto a ridurre la distruttività ambientale che lo caratterizza, gli animali si riprendono e la natura torna a sorridere. La stessa OMS, oltre un quindicennio fa, indicava negli allevamenti industriali, vere e proprie catene di montaggio dell’orrore, una causa delle malattie zoonotiche, qual è anche l’attuale Coronavirus. Non a caso la Cina è il maggior produttore al mondo – di allevamenti e di virus. In 30 anni ha triplicato il numero di animali costretti in condizioni inenarrabili, attraverso il landless systems, vale a dire senza terra e con il massimo di sfruttamento. Se all’uomo in questi decenni è stato sottratto il pensiero critico, una cultura dell’alternativa e del conflitto che lo ha progressivamente – e si spera non irrimediabilmente – reso passivo di fronte agli effetti devastanti del “Capitalocene”, la martoriata natura, invece, prima o poi si ribella. Anche riguardo al carcere, all’invasività che esso ha raggiunto nell’organizzazione sociale, bisognerà decidersi a pensare che il problema comincia da quello della prigione feroce e nascosta in cui vengono da sempre costretti gli animali. Bisognerà decidersi a capire che agire per i diritti umani in modo incisivo e duraturo, modificando le culture e le politiche al riguardo, è impossibile senza mettere in campo e intrecciare anche quelli degli altri animali. Se tra i piccoli segnali positivi emersi nel tempo della pandemia si può registrare il fatto che il Portogallo ha deciso di regolarizzare i richiedenti asilo, in modo da garantire loro l’indispensabile assistenza sanitaria, o che alcuni degli Stati Uniti hanno sospeso le esecuzioni capitali programmate, a partire dal Texas dove storicamente la cultura della forca (in quel caso dell’iniezione letale) è più radicata e praticata, allo stesso modo va considerato il blocco delle corride in numerose città spagnole, che ha consentito la salvezza a centinaia di tori o il fatto che – finalmente – la Cina abbia imposto limitazioni nel commercio di animali vivi e abbia escluso dall’elenco di quelli commestibili i cani (si stima che 10 milioni siano uccisi lì ogni anno per la loro carne) e i gatti. Non si possono enfatizzare, poiché si tratta di provvedimenti contingenti e temporanei, ma si possono considerare pur sempre spunto e premessa di possibili cambiamenti, anzitutto culturali, e di politiche future più attente a quel sistema fragile, vulnerato e interdipendente costituito dai diritti globali. Per il momento, terribili e prevalenti sono naturalmente gli effetti negativi, a partire dalle vittime non tanto e non solo del virus ma di una sanità pubblica scientemente e colpevolmente indebolita a favore di quella privata votata al massimo profitto, da un impoverimento di massa, dalla recessione globale incipiente o dalla massiccia perdita del lavoro; negli Stati Uniti, ad esempio, a metà aprile, oltre 26 milioni di lavoratori hanno chiesto sussidi di disoccupazione. Eppure e perciò, proprio da qui, dopo questa esperienza, si può e si deve rilanciare una riflessione e una proposta per un reddito di base universale e incondizionato per sostenere i cittadini nel dopo-pandemia. La Spagna, tra i paesi più colpiti dal virus, ha annunciato di volerlo fare con le dichiarazioni di Nadia Calviño, ministra dell’Economia e vicepremier. Un buon esempio, che si spera diventi rapidamente contagioso. Il virus in prigione Se il mondo intero pare divenuto una prigione, per quella propriamente tale si sono introdotte misure tese a ridurre il sovraffollamento delle celle, che produce normalmente un quotidiano disagio, ma che con l’epidemia diventa una vera e propria bomba a orologeria. Si è così consentita la scarcerazione di un certo numero di reclusi, attraverso la riduzione o la sospensione delle pene oppure con modalità di detenzione domiciliare. La preoccupazione per il Covid-19 e i rischi di trasmissione moltiplicati nelle celle, assieme alle misure ulteriormente restrittive imposte dalle amministrazioni penitenziarie, nel mese di marzo hanno innescato proteste e rivolte in Italia e in Colombia. Numerosi detenuti sono morti (rispettivamente, 13 e 23, oltre a numerosi feriti), in alcuni casi per cause ufficialmente ancora non definite, in altri sicuramente per una repressione violenta da parte dell’istituzione. Ma rivolte e proteste si sono poi diffuse in numerose carceri di diversi continenti: dall’Europa all’America Latina, dall’Africa all’Asia, dagli Stati Uniti all’Oceania. In alcuni altri casi anche con morti: 12 in Venezuela, cinque in Argentina, tre in Perù, due nello Sri Lanka. Anche per il timore di un’esplosione generalizzata, del virus e delle proteste, numerosi governi hanno pertanto disposto la liberazione anticipata di un certo numero di reclusi. È avvenuto in diversi Paesi Europei e in alcuni degli Stati Uniti. Paradossalmente, quelli che ne hanno scarcerati in misura maggiore sono regimi ben poco sensibili ai diritti umani come in Iran e Turchia: il primo dichiara di averne liberati circa 100mila, mentre il secondo dovrebbe arrivare a 90mila; a fronte, rispettivamente, di una popolazione detenuta complessiva di 230mila e 233mila. Proprio in quest’ultima nazione, le esclusioni dalle misure dei prigionieri politici hanno provocato una rivolta nella città a maggioranza curda di Batman il 4 aprile. Appare dappertutto chiaro che la logica, insomma, è quella di liberare il carcere dai detenuti, non viceversa. Come non è mai il momento della pace, così non è mai tempo di diritti e di libertà. L’una e gli altri non sono mai calati dall’alto come benevolenza del principe, ma conquistati dal basso, quasi sempre a caro prezzo. È una lezione che ci viene dalla Storia. L’epoca della pandemia non fa eccezione. * Editoriale di Sergio Segio nel nuovo numero del magazine internazionale Global Rights. Il magazine è scaricabile gratuitamente in .pdf dal sito Global Rights  

L'articolo Il virus in carcere. Aprire le gabbie, cambiare il sistema sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2020/05/in-virus-in-carcere-aprire-le-gabbie-cambiare-il-sistema/feed/ 0
A Genova non avevamo gli smartphone https://www.micciacorta.it/2015/12/a-genova-non-avevamo-gli-smartphone/ https://www.micciacorta.it/2015/12/a-genova-non-avevamo-gli-smartphone/#respond Tue, 01 Dec 2015 07:52:00 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20929 Genova 2001. L’evento più fotografato e ripreso della storia. O almeno, potremmo dire della storia prima che le tecnologie digitali diventassero tutt’uno con la nostra pelle

L'articolo A Genova non avevamo gli smartphone sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Genova 2001. L’evento più fotografato e ripreso della storia. O almeno, potremmo dire della storia prima che le tecnologie digitali diventassero tutt’uno con la nostra pelle. L’idea di un altro mondo possibile si diffondeva come un virus: passava di bocca in bocca, correva di cavo in cavo, attraversando il pianeta da un angolo all’altro del globo. Internet era finalmente alla portata di tutti, macchine fotografiche e telecamere portatili erano diventate accessibili: tantissimi erano quelli che sperimentavano forme di comunicazione indipendenti e “Become your media” era un invito che era parte stessa di quell’altro mondo possibile per cui si lottava. Cosi Genova 2001 è stato l’evento più fotografato e ripreso della storia, anche se non c’era YouTube, né Flickr, nemmeno Instagram, Pinterest, Twitter… nulla di nulla, men che meno Facebook. Negli USA si, qualche tentativo c’era stato, ma bisognerà aspettare il 2003 per vedere MySpace diffondersi e imporsi come piattaforma di blogging. Potremmo dire che il network di Indymedia rappresentava una sperimentazione più che all’avanguardia nel campo delle comunicazioni partecipate e interattive.

Poi dal punto di vista tecnico le possibilità offerte dalle tecnologie digitali si sono moltiplicate e oggi abbiamo YouTube, Flickr, Instagram, Pinterest, Twitter, Facebook… come ben sappiamo, l’elenco non si limita a questa manciata di social network: app, smartphone, tablet, occhiali di realtà virtuale, persino lo spazzolino che si connette a internet e dice al tuo dentista come ti lavi i denti.. per ogni azione abbiamo una app apposita, persino per avere un appuntamento con un* ragazz*. Internet ha preso forma intorno a noi, costruendo l’ambiente in cui viviamo, penetrando dentro i nostri corpi e i nostri pensieri. Anche internet, come ogni ambiente, ha i suoi architetti, che progettano il modo in cui gli abitanti abitano l’ambiente: anche internet, come ogni ambiente, condiziona il tuo modo di vivere, di abitare gli spazi, di relazionarti con il mondo intorno.

Siamo sommersi di immagini, video, informazioni di qualsiasi tipo; circondati da surrogati di amici, avatar di familiari; bombardati da impulsi cosi rapidi che facciamo fatica a dare importanza all’una o all’altra avvenimento, godere o soffrire di una emozione.. Un contatto non è più un contatto, una notizia non è più una notizia… Ogni volta che ci connettiamo stiamo semplicemente percorrendo un’autostrada, chiusi dentro una bolla che inibisce la capacità critica e la capacità affettiva: scorriamo su e giu da un post all’altro, in una fitta giungla di opinioni, dove le fonti valgono poco o niente. Crediamo di conoscere il mondo ma non riusciamo nemmeno a vedere al di là del recinto. Siamo incapaci di uscirne: quanti, in mezzo agli amici, al bar, per strada, a scuola, al lavoro, tirano fuori il telefono per ritornare in quel recinto?

Siamo tutti compenetrati dalla tecnologia e ne vogliamo sempre di più, perché le tecnologie digitali aumentano e intensificano le nostre opportunità conoscitive, relazionali e sensoriali. Grazie al fascino che questa esercita su di noi, siamo diventati tutti volontariamente parte di un enorme processo di valorizzazione economica. Una forza lavoro frammentata e fisicamente divisa, ma sempre connessa; una forza lavoro che non vede distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro, tra luoghi di lavoro e luoghi di svago, tra vita pubblica e vita privata… L’attenzione è una risorsa scarsa, e quindi preziosa. Non a caso i servizi più comodi sono gratuiti. Ma che prezzo siamo disposti a pagare per la gratuità? Quando un servizio è gratis, solitamente, la merce sei tu: siamo il tessuto connettivo grazie a cui si costituisce il ‘capitale sociale’ delle società postfordiste.

I giganti delle tecnologie digitali sono in grado di ricavare le nostre abitudini, i nostri comportamenti, persino le nostre espressioni facciali. Non è per questioni di sicurezza nazionale, prevenzione del crimine e del terrorismo, garanzia dei cittadini che ci spiano 7 giorni su 7, 24 ore su 24: quello dei (meta)dati è un businnes enorme, una preziosa miniera di informazioni che permette a chi ne è in possesso di fare vere e proprie previsioni di tendenza. Sanno cosa ci piace, ipotizzano cosa vogliamo, producono ciò che consumeremo. I nostri dati pongono chi li possiede (e ha gli strumenti tecnologici per analizzarli) in una posizione strategica di vantaggio: collezionano le informazioni dei singoli utenti, elaborano analisi di massa e infine confezionano per tutti noi i prodotti più adatti per perseguire i loro interessi, politici o commerciali che siano. Cosi possono metterci davanti infinite possibilità tra cui scegliere quella più adatta ai nostri gusti, infinite ciotole da cui servirci: ognuno di noi ha il suo prodotto personalizzato, fatto apposta in base ai propri gusti, alle abitudini, ai luoghi che frequenta. Con un ventaglio cosi largo di offerta, il tempo per immaginare la tua opzione non è previsto, non è previsto che ci resti il tempo di pensare se quello che vedi è davvero quello che vuoi. Obiettivo? Impedirti di immaginare tu stesso cosa ti piacerebbe. Il capitale globale approfitta delle possibilità delle tecnologie per mantenerci in una posizione di precarietà, di instabilità, di subordinazione.

Mondi virtuali, mondi possibili

Era il 1994 quando ci fu il cosiddetto Levantamiento Zapatista. L’EZLN fu il primo esperimento di utilizzo di internet per diffondere un messaggio politico di liberazione, per spargere sul globo una chiamata che ha raccolto adesioni da ogni angolo del pianeta, approdando a Seattle in quello che presto sarebbe diventato il movimento dei movimenti. Milioni di persone si unirono in quegli anni dietro all’idea che un altro mondo fosse possibile. La capacità di dubitare che l’unico punto di vista, la sola strada da percorrere fosse quella del sistema di potenti al governo del mondo si diffondeva come un virus.

Ci hanno educati alla competizione, all’individualismo. La precarietà ci ha fatto naufragare in una quotidianita frammentata, solitaria, triste. La deliberata e sistematica distruzione dell’istruzione pubblica ci ha reso ignoranti, togliendo a generazioni intere gli strumenti per leggere il mondo ci ha resi incapaci di comprendere cosa ci accade intorno e quindi di reagire. Le tecnologie digitali ci hanno offerto una spiaggia su cui approdare. O meglio. Infinite spiaggie su cui approdare. Ballard disse che il fatto principale del XX secolo era il concetto di possibilità illimitata.

Oggi è il sistema stesso, neoliberista, consumista e globalizzato, che ci offre ogni giorno infinite possibilità, anche grazie alla diffusione degli strumenti virtuali. La virtualità è sempre esistita, il linguaggio e la tecnica sono un esempio di strumenti virtuali che usiamo per rapportarci al mondo, ma con la diffusione delle tecnologie digitali gli strumenti virtuali si sono moltiplicati nella nostra esperienza quotidiana, e di conseguenza si sono moltiplicati i loro effetti sulla realtà. In particolare, le tecnologie che hanno a che fare con il linguaggio, agiscono sulla nostra capacità di organizzare i pensieri, obbligando la nostra mente ad adattarsi allo strumento che media il nostro rapporto con il mondo. E’ stato così per l’alfabeto, la stampa, la tv, i computer. Su scala globale, oggi, possiamo produrre e scambiare una quantità praticamente illimitata di informazioni in tempo reale ma qual è l’impatto sociale e culturale? A differenza del possibile (ovvero ciò che ancora non esiste e magari nemmeno esisterà mai), il virtuale produce i suoi effetti prima di essere realizzato: agisce sulla realtà, provocando effetti di realtà proprio come se fosse dotati della stessa esistenza degli oggetti che chiamiamo reali.

Ben lontano dal diventare reale, il sogno di un altro mondo possibile viene scordato, sommerso dal fascino irresistibile delle infinite realtà virtuali e , bombardate continuamente da informazioni, la nostra capacità critica e la nostra affettività restano sommerse.

Ti basta uno smartphone per aumentare la realtà; oppure, puoi metterti i caschetti della samsung e vedere a 360° un altro mondo, puoi scomparire dentro ai video game, puoi trasformare la realtà stessa in un gioco di ruolo, puoi vedere un video o un immagine senza sapere se si tratta di immagini sintetiche, prodotte con software di grafica e modellazione 3d o se invece sono una riproduzione reale… Finzione e realtà non sono distinguibili, il nostro ambiente è un ibrido: non esiste una distinzione tra naturale e artificiale. Le nuove tecnologie permettono una moltiplicazione di mondi senza fine, ed è proprio questo il punto: dominare l’immaginazione è fondamentale per imporre l’imperativo neoliberista “THERE IS NO ALTERNATIVE”. Somministrare mondi possibili già confezionati è centrale per controllare l’immaginario, la produzione di desiderio.

A Genova non avevamo gli smartphone

Se c’è una crisi che possiamo fermare, è la crisi dell’immaginazione, perché è proprio nell’immaginario che possiamo scatenare un cortocircuito. A Genova non avevamo gli smartphone ma sarebbe davvero stupido concludere che la soluzione è l’opzione luddista. Ci sono tante piccole cose che possiamo fare ma, a essere onesti, non siamo sicuri di qual è la soluzione, possiamo dirvi quella che abbiamo scelto noi: organizzarci nelle scuole, nei quartieri, negli spazi occupati, nelle manifestazioni; incontrandoci corpo a corpo ogni giorno, ragionando insieme e praticando il mutuo soccorso come tentativo di costruire dal basso un altro mondo possibile. Ostinatamente convinti che un mondo nuovo è probabile tanto quello vecchio.

L'articolo A Genova non avevamo gli smartphone sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/12/a-genova-non-avevamo-gli-smartphone/feed/ 0
«Il governo italiano controlli Hac­king Team» https://www.micciacorta.it/2015/08/il-governo-italiano-controlli-hac%c2%adking-team/ https://www.micciacorta.it/2015/08/il-governo-italiano-controlli-hac%c2%adking-team/#respond Sat, 15 Aug 2015 06:35:11 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20189 Spyware. Le accuse di Human Rights Watch per gli abusi sui diritti umani in Etiopia

L'articolo «Il governo italiano controlli Hac­king Team» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

«Il governo ita­liano inda­ghi sulle atti­vità di Hac­king Team in Etio­pia e altrove, in modo da rego­la­men­tare la ven­dita di tec­no­lo­gie di sor­ve­glianza che ven­gono uti­liz­zate per cal­pe­stare i diritti umani». Human Rights Watch ieri è tor­nata a pun­tare il dito sull’Italia, per­ché mal­grado le ras­si­cu­ra­zioni del pas­sato, poco o nulla è stato fatto per sgom­brare il campo dall’accusa, rivolta appunto a Hac­king Team, azienda ita­liana spe­cia­liz­zata in sofi­sti­cati sistemi infor­ma­tici di sor­ve­glianza a distanza, di col­la­bo­rare con­sa­pe­vol­mente con alcuni tra i regimi più liber­ti­cidi e repres­sivi del mondo. La recente pub­bli­ca­zione di un’enorme quan­tità di email e docu­menti alta­mente riser­vati, “inter­cet­tati” negli archivi dell’azienda di spy­ware, pro­ve­rebbe secondo Hrw che «la tec­no­lo­gia e l’assistenza for­nita da Hac­king Team al governo etiope ha diret­ta­mente con­tri­buito a vio­la­zioni dei diritti umani e nono­stante diversi richiami col­pi­sce la totale assenza di pre­oc­cu­pa­zione da parte di Hac­king Team per il modo in cui il suo busi­ness poteva recare danno a voci dis­si­denti o indipendenti». Con la scusa glo­ba­liz­zata della «sicu­rezza nazio­nale» e della «guerra al ter­ro­ri­smo», la coa­li­zione di governo, l’Ethiopian People’s Revo­lu­tio­nary Demo­cra­tic Front (EPRDF), che ha otte­nuto il 100% alle ultime ele­zioni, ha inten­si­fi­cato negli ultimi anni i suoi sforzi per silen­ziare qual­siasi dis­senso. Decine i gior­na­li­sti e blog­ger incar­ce­rati o per­se­gui­tati anche all’estero (par­ti­co­lar­mente col­pita la dia­spora negli Usa) e anche gra­zie ai ser­vizi di social engi­nee­ring e a sistemi che per­met­tono di moni­to­rare chat, deci­frare file crip­tati, ascol­tare con­ver­sa­zioni Skype, atti­vare a distanza micro­foni e video­ca­mere. L’Etiopia, ai primi posti nel mondo per aiuti uma­ni­tari e mili­tari rice­vuti, nel 2012 ha ver­sato nelle casse di Hac­king Team 1 milione di dollari. Nel marzo scorso l’azienda ha sospeso la col­la­bo­ra­zione, non tanto per motivi etici, quanto per­ché l’uso «incauto e impac­ciato» da parte delle auto­rità etiopi si stava rive­lando un boo­me­rang per il mar­chio ita­liano. Al momento della pub­bli­ca­zione dei file segreti era in discus­sione un nuovo con­tratto da 700 mila dol­lari. gina musso

L'articolo «Il governo italiano controlli Hac­king Team» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/08/il-governo-italiano-controlli-hac%c2%adking-team/feed/ 0
Claudio “vecna” Ago­sti, una gola profonda per Hacking Team https://www.micciacorta.it/2015/07/claudio-vecna-ago%c2%adsti-una-gola-profonda-per-hacking-team/ https://www.micciacorta.it/2015/07/claudio-vecna-ago%c2%adsti-una-gola-profonda-per-hacking-team/#respond Tue, 21 Jul 2015 07:42:02 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20046 Un’intervista con Claudio Ago­sti, fuoriuscito dall’impresa milanese Hacking Team e noto mediattivista a favore della privacy

L'articolo Claudio “vecna” Ago­sti, una gola profonda per Hacking Team sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Intervista. Ricco il «bottino», reso pubblico, di un attacco informatico alla Hacking Team, leader mondiale in sorveglianza digitale. Ne emerge un quadro di affari con governi che violano i diritti umani e vendita di software per spiare computer e telefoni di giornalisti e attivisti. Un’intervista con Claudio Ago­sti, fuoriuscito dall’impresa milanese e noto mediattivista a favore della privacy Fino a pochi giorni fa l’azienda mila­nese Hac­king Team (Ht) era con­si­de­rata uno dei lea­der mon­diali nel mer­cato del mal­ware. I suoi pro­dotti – quei par­ti­co­lari soft­ware usati per met­tere sotto stretta sor­ve­glianza com­pu­ter e smart­phone di atti­vi­sti, mili­tanti poli­tici e gior­na­li­sti – erano richie­stis­simi da poli­zie e ser­vizi segreti di tutto il mondo. Poi, la sera del 5 luglio, un attacco infor­ma­tico deva­stante ha col­pito i suoi sistemi. 400 Gb (giga byte) di dati ven­gono sot­tratti dai ser­ver della società capi­ta­nata da David Vin­cen­zetti e resi dispo­ni­bili in Rete. Tra il mate­riale pub­bli­cato ci sono i gio­ielli della corona, come il codice sor­gente di Rcs – acro­nimo di Remote Con­trol System –, pro­dotto di punta di Ht e frutto di 10 anni di lavoro e inve­sti­menti in ricerca e svi­luppo. Nell’elenco dei leak figu­rano altri file pre­zio­sis­simi, come i cosid­detti 0day: vul­ne­ra­bi­lità pre­senti nel codice di alcuni pro­grammi – in que­sto caso i popo­la­ris­simi Adobe Flash Player e Micro­soft Inter­net Explo­rer – che nelle mani giu­ste diven­tano vet­tori per con­durre attac­chi infor­ma­tici e pren­dere il con­trollo di un computer. Come la noti­zia si dif­fonde, la Rete va in fer­mento. Il mana­ge­ment dell’azienda afferma di aver perso il con­trollo del pro­prio soft­ware di spio­nag­gio e attra­verso un comu­ni­cato stampa paventa la pos­si­bi­lità che chiun­que possa farvi ricorso. I più grossi net­work glo­bali coprono la sto­ria dedi­can­dole ampio spa­zio e appro­fon­di­menti. E quando il 10 luglio Wiki­leaks rende con­sul­ta­bile attra­verso un motore di ricerca la cor­ri­spon­denza interna dell’azienda – più di un milione di mail – ven­gono alla luce vicende imba­raz­zanti. Come l’esportazione ille­gale dei soft­ware di «sicu­rezza offen­siva» verso il Sudan, Stato col­pito da un embargo sulle armi a causa della siste­ma­tica vio­la­zione dei diritti umani ope­rata dal suo ese­cu­tivo. Oppure i rap­porti com­mer­ciali intrat­te­nuti con società pri­vate, in barba alla policy azien­dale di Ht, secondo cui i pro­dotti della com­pa­gnia sareb­bero a esclu­siva dispo­si­zione di entità sta­tali. Infine, i legami con la Pre­si­denza del Con­si­glio e i ser­vizi segreti, il cui aiuto sarebbe stato fon­da­men­tale per aggi­rare i divieti sulle espor­ta­zioni del Mini­stero dello Svi­luppo Eco­no­mico e per­met­tere all’azienda mene­ghina di con­ti­nuare a fare affari indisturbata.

controllo2

Sco­per­chiato il vaso di Pan­dora, anche altre sto­rie ven­gono a galla. Come quella di Clau­dio Ago­sti. Per molti è una sor­presa vedere il suo nome in quell’archivio e sco­prire nel suo pas­sato un rap­porto lavo­ra­tivo con Ht. Per­ché «vecna» (que­sto il nic­k­name con cui tutti lo cono­scono in rete) è un atti­vi­sta pro-privacy, notis­simo in Ita­lia e all’estero. Hac­ker dall’altissimo pro­filo tec­nico, esperto in crit­to­gra­fia e vice-presidente di Her­mes (cen­tro studi impe­gnato nello svi­luppo di tec­no­lo­gie volte a tute­lare la pri­vacy e l’anonimato degli utenti in rete), Clau­dio ha deciso di rac­con­tare al «mani­fe­sto» alcuni aspetti della sua vicenda pro­fes­sio­nale in Ht, com­presi i motivi che l’hanno spinto a chiuderla. Quando hai comin­ciato a lavo­rare per Ht? Sono entrato in Ht nel 2005 per lavo­rare nella sicu­rezza infor­ma­tica. Facevo pene­tra­tion test. In pra­tica, i clienti ci chie­de­vano di con­durre un attacco con­tro le loro infra­strut­ture, così da indi­vi­duare le vul­ne­ra­bi­lità pre­senti nelle loro reti. Eri un atti­vi­sta pro-privacy. Non tro­vavi che il pro­filo dell’azienda per cui lavo­ravi fosse in con­tra­sto con la tua etica? Nel 2005 Ht ave­vano comin­ciato da un anno a com­mer­cia­liz­zare tro­jan e spy­ware per la poli­zia postale italiana…

controllo3

È facile ora vedere la cosa con linea­rità, più dif­fi­cile quando ero den­tro. Io non avevo a che fare con quel pro­getto, non ero a cono­scenza dei clienti cui veniva ven­duto mal­ware e non ho mai lavo­rato nep­pure in seguito in que­sto set­tore. Sapevo che c’era quel pro­to­tipo in ricerca e svi­luppo, ma capire le impli­ca­zioni che avrebbe avuto ad anni di distanza era per me impos­si­bile. Inol­tre, allora ero molto più pre­oc­cu­pato dalla sor­ve­glianza mas­siva che da quella tar­get­tiz­zata, indi­riz­zata su un sin­golo «bersaglio». Nel 2005 la pos­si­bi­lità di otte­nere degli exploit era net­ta­mente supe­riore rispetto ad oggi: in que­gli anni chiun­que si dedi­casse alla sicu­rezza offen­siva era con­vinto che la vio­la­zione di uno spe­ci­fico tar­get sarebbe stata pos­si­bile con un po’ di lavoro. Il pro­dotto di Ht ha abbas­sato la bar­riera di ingresso degli attac­chi infor­ma­tici. È stata que­sta la sua vera por­tata inno­va­tiva. Si tratta di un tool che ha reso gli attac­chi, prima ese­gui­bili solo da per­sone tec­ni­ca­mente esperte, alla por­tata di agenti che ese­guono sem­plici pro­ce­dure. È un’analisi che oggi, con mag­giore espe­rienza, posso fare, ma che al tempo mi era del tutto impen­sa­bile. Anzi, ero con­vinto che l’efficacia di que­sta tec­no­lo­gia sarebbe comun­que stata sem­pre infe­riore rispetto alla capa­cità di un hac­ker esperto in grado di con­durre un attacco. Mi sba­gliavo. Tec­no­lo­gie simili sono entrate nella pira­mide orga­niz­za­tiva di com­pa­gnie che sono in grado di pagare per otte­nerle. E che danno loro un potere nuovo. Ma se eri a cono­scenza di que­ste cose per­ché non ne hai par­lato prima pubblicamente? La rispo­sta è sem­plice: per­ché non avevo niente da dire. Quello che avve­niva in Ht lo sco­privo dai report di Citi­zen Lab (isti­tuto di ricerca cana­dese impe­gnato da anni nel denun­ciare l’industria del mal­ware, n.d.a.) o da voci ripor­tate nell’ambiente della secu­rity informatica. Quando sei uscito da Ht e perché?

controllo4

Ci ero entrato spe­rando di fare atti­vità di ricerca e svi­luppo su tema­ti­che di sicu­rezza. Volevo esplo­rare campi che mi inte­res­sa­vano e spe­ravo di poterlo fare con un’azienda che mi pagasse per far quello che altri­menti avrei fatto nel tempo libero. Invece mi sono ritro­vato a svol­gere sem­plici atti­vità ope­ra­tive. L’investimento sul mal­ware stava aumen­tando e non era quello il tipo di ricerca che volevo intra­pren­dere. Nella pri­ma­vera del 2006 ho ini­ziato a cer­care un altro lavoro, fin­ché a giu­gno ho tro­vato un’opportunità interessante. Chi lavora nel mer­cato degli 0day e della secu­rity quanto è com­pro­messo? Quanto è vicino e dipen­dente dagli ambienti mili­tari, dei ser­vizi e di poli­zia? Quanto mar­gine ha per poter sce­gliere chi avvan­tag­giare con il suo lavoro? Non lo so. Ho cer­cato di capire quel mer­cato un paio di anni dopo, ma si trat­tava di cir­cuiti in cui potevi entrare solo a due con­di­zioni: o avendo tanti 0day da ven­dere, o avendo tanti soldi per acqui­starne. Io non avevo né gli uni né gli altri… Defi­ni­sci 0day… Si tratta di attac­chi che sfrut­tano delle falle nei soft­ware, le quali pos­sono essere facil­mente siste­mate se gli svi­lup­pa­tori ne sono a cono­scenza. Cono­scere que­ste falle, e scri­vere soft­ware che le pos­sano sfrut­tare per avere accesso alle appli­ca­zioni, è un valore: ed è per que­sto motivo che esi­stono gruppi di per­sone che si dedi­cano a cer­carle, tra­sfor­marle in attac­chi sta­bili, repli­ca­bili e ven­derle. C’è chi le chiama «armi digi­tali»: una defi­ni­zione cor­retta, con­si­de­rato il tipo di uti­lizzo che ne viene fatto e il valore che hanno acqui­sito negli ultimi 10 anni. Uno 0day è il cuore dell’attacco infor­ma­tico, una volta com­piuto il quale si ha accesso alla mac­china com­pro­messa. L’accesso viene sfrut­tato per fina­lità d’intelligence, di spio­nag­gio, d’attacco alle reti interne. Il nome 0day deriva dal fatto che si tratta di attac­chi cono­sciuti da 0 giorni, in grado di sfrut­tare falle di pro­gram­ma­zione non ancora note. Nel caso di HT, gli 0day erano acqui­stati e riven­duti in quanto vet­tori d’infezione: veni­vano cioè inte­grati nel pro­dotto, così che l’agente sul campo potesse farne uso senza disporre della cono­scenza tec­no­lo­gica altri­menti necessaria.

controllo5

Tor­nando alla tua domanda, credo però che chi lavori in que­sto mer­cato non abbia alcun mar­gine di azione. Certo, a meno che non si tratti di un dop­pio­gio­chi­sta che vende l’asset, pro­mette di man­te­nerlo segreto e poi lo bru­cia ren­den­dolo pub­blico e, quindi, inu­ti­liz­za­bile. Ma è un’evenienza che ten­de­rei a esclu­dere, per­ché, se guar­diamo al pano­rama delle aziende che ope­rano in que­sto set­tore, ci ren­diamo subito conto che si tratta di attori legati a dop­pio filo a orga­niz­za­zioni mili­tari e d’intelligence. I 400 Gb di dati sot­tratti dai ser­ver di HT ne hanno com­ple­ta­mente messo a nudo l’attività e la strut­tura azien­dale. In un post su Medium hai soste­nuto che que­sta forma di «tra­spa­renza radi­cale è essen­ziale in que­sta fase di cre­scita espo­nen­ziale del potere digi­tale. Fino a quando non miglio­re­remo le nostre leggi». Mi pare che que­sta tua affer­ma­zione pre­senti al tempo stesso un rischio e una con­trad­di­zione. Da una parte la tra­spa­renza radi­cale è il fon­da­mento filo­so­fico su cui si fonda anche il regime di accu­mu­la­zione delle grandi Inter­net Com­pa­nies. Da un’altra essa si basa pre­ci­sa­mente sull’assenza – o il pro­gres­sivo sman­tel­la­mento – di un qua­dro giu­ri­dico volto a tute­lare la pri­vacy indi­vi­duale e col­let­tiva. Non credi che ricor­rere a tali stra­te­gie possa aprire la strada a sce­nari poten­zial­mente più peri­co­losi rispetto a quelli paven­tati dalla vicenda di Ht? Con «tra­spa­renza radi­cale» non intendo lo stesso con­cetto pro­fes­sato dalle com­pa­gnie che gua­da­gnano dall’analisi del com­por­ta­mento degli utenti. Con que­sta espres­sione fac­cio invece rife­ri­mento ad una pub­bli­ca­zione mas­sic­cia, non revi­sio­nata e acri­tica dei dati. Un «leak mas­sivo», come è stato il cable­gate di Wiki­Leaks. E come ho spe­ci­fi­cato nel post che hai citato non la ritengo di per sé un’idea sacra e nep­pure giusta. Credo però che ci tro­viamo in una situa­zione in cui le leggi e la con­sa­pe­vo­lezza degli utenti, delle aziende e dei cit­ta­dini si tro­vano ad uno sta­dio estre­ma­mente arre­trato. Ed è per que­sto motivo che un leak come quello che ha col­pito Ht – un vero e pro­prio trauma se con­si­de­riamo le con­se­guenze che ha avuto – sia, a conti fatti, un bene per tutti. Da 5 anni sono attivo nello svi­luppo di Glo­ba­Leaks, una piat­ta­forma che serve per favo­rire la comu­ni­ca­zione riser­vata tra fonti – altresì detti whi­stle­blo­wers – e gior­na­li­sti che pos­sano mediare la dif­fu­sione dell’informazione. Quello che pro­muo­viamo è un mec­ca­ni­smo migliore della tra­spa­renza radi­cale. Ed è per que­sto motivo che il mio post su Medium ter­mina con que­sta frase: «se fai parte di un busi­ness ambi­guo e non rego­lato diventa un whi­stle­blo­wer, prima che qual­cuno ti esponga integralmente».

controllo1

È un invito a rive­lare quel che suc­cede in ambienti simili, nei quali cer­ta­mente molti hanno dei dubbi che ven­gono però spesso ane­ste­tiz­zati dalla ideo­lo­gia e dai soldi. Senza per­sone dispo­ste a pren­dersi que­sta respon­sa­bi­lità la società non ha cono­scenze né sti­moli ad aggior­narsi e miglio­rarsi. E in casi di que­sto genere, se non sarai tu, per­sona a cono­scenza di que­ste vicende, ad essere un whi­stle­blo­wer corri il rischio che qualcun’altro lo sia al posto tuo, magari ricor­rendo, appunto, alla tra­spa­renza radi­cale. E quando que­sto acca­drà, non ci sarà revi­sione, non ci sarà una visione d’insieme, ma solo un grande danno a coloro che sono stati espo­sti al pub­blico ludibrio. In con­clu­sione, la tra­spa­renza radi­cale per me rimane l’ultima spiag­gia, ma quando un mer­cato come quello di Ht viene espo­sto al pub­blico, allora sei legit­ti­mato a pen­sare che tutto som­mato sia meglio così. Il fatto che quella tec­no­lo­gia venisse usata per limi­tare dei diritti fon­da­men­tali non è mai stato un pro­blema per i ver­tici dell’azienda. L’unica cosa che potrebbe dele­git­ti­mare la tra­spa­renza radi­cale è un avan­za­mento nella cul­tura del whi­stle­blo­wing, una capa­cità gior­na­li­stica di rive­dere mate­riale com­plesso (anche se non facil­mente noti­zia­bile) e una mag­gior tutela legale per chi si espone, dif­fonde infor­ma­zioni segrete e prende la parola nel pub­blico interesse. Chi dovrebbe dun­que garan­tire que­sta tutela legale? Quello stesso Stato che, come emerge dai leaks, aiu­tava Ht ad aggi­rare i divieti di espor­ta­zione ema­nati dal mini­stero dello Svi­luppo economico? Non ho una rispo­sta. Stru­menti simili saranno sem­pre uti­liz­zati da mili­tari ed intel­li­gence, anche qua­lora ne venisse for­te­mente limi­tato l’utilizzo nelle inda­gini tra­di­zio­nali. Dai leaks però emerge la stre­nua difesa da parte di Ht della pro­pria ita­lia­nità: una carat­te­ri­stica che viene più volte pre­sen­tata alle isti­tu­zioni ita­liane come forma di garanzia. Garan­zia su cosa?

21clt1fotinapiccola

Garan­zia per lo Stato ad eser­ci­tare un mag­gior con­trollo sulla gestione delle loro tec­no­lo­gie e degli usi che potreb­bero esserne fatti. Que­sto mi sem­bra un ele­mento impor­tante su cui ragio­nare. Fino a che punto un’agenzia di spio­nag­gio o con­tro­spio­nag­gio può con­durre i suoi com­piti affi­dan­dosi ad una risorsa estera su cui non eser­cita il pieno con­trollo? Credo che ogni Stato si ponga il pro­blema e che tale dina­mica potrebbe por­tare a una nazio­na­liz­za­zione di que­ste tec­no­lo­gie. Que­sto ci fa capire due cose. Primo, che i con­flitti digi­tali sono solo all’inizio. Secondo, che uno Stato che voglia pro­teg­gere i pro­pri cit­ta­dini non dovrebbe mai sfrut­tare tec­no­lo­gie che lascino la popo­la­zione vul­ne­ra­bile ad attac­chi 0day. La dichia­ra­zione di Came­ron di qual­che mese fa, quella secondo cui era inam­mis­si­bile che le comu­ni­ca­zioni su Wha­tsapp risul­tas­sero illeg­gi­bili ai ser­vizi bri­tan­nici, andava in que­sta direzione.

L'articolo Claudio “vecna” Ago­sti, una gola profonda per Hacking Team sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/07/claudio-vecna-ago%c2%adsti-una-gola-profonda-per-hacking-team/feed/ 0