Spinoza – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 17 May 2018 08:48:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory. Se la responsabilità del filosofo si fa politica https://www.micciacorta.it/2018/05/la-responsabilita-del-filosofo-si-politica-allinterno-della-stessa-vita/ https://www.micciacorta.it/2018/05/la-responsabilita-del-filosofo-si-politica-allinterno-della-stessa-vita/#respond Thu, 17 May 2018 08:42:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24492 «Da Dentro» di Sandro Chignola. Una raccolta di saggi che cercano di dare risposta ai problemi che procedono dal modo in cui l’accumulazione capitalista estrae valore ovunque dall’esistenza

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Che cosa significa Da Dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory (Sandro Chignola, Deriveapprodi, pp.190, euro 17)? Questo titolo, ci dice Chignola, «rivendica una doppia internità. Quella a un mondo che un ‘fuori’ non lo ha più, e quella a una linea di pensiero, inseparabilmente teorica politica assieme, che è stata chiamata post-operaista, il motore della quale è sempre stata l’assoluta consapevolezza che è nel campo di immanenza del reale, e non nella rarefatta atmosfera della chiacchiera più o meno filosofica, che ci si muove – assumendosi la piena responsabilità di ciò che si scrive e di ciò che si fa». QUANDO I DISPOSITIVI dell’accumulazione capitalista si sono estesi sull’intera superficie del globo, estraendo valore dalla vita, e i processi di unificazione del mondo, diretti alla sua mercificazione, hanno ormai ibridato culture e tradizioni di pensiero, è «da dentro» che la critica deve svolgersi, recuperando un sguardo di immanenza e disponendolo alla nascita della critica e della resistenza. È su questa soglia che, di conseguenza, Chignola pone il punto di trasformazione della filosofia politica: il farsi politico della responsabilità del filosofo. I nove saggi che contiene questo volumetto vogliono così dare una risposta politica a una serie di problemi, che procedono dalle nuove condizioni (totalità dell’investimento capitalistico del mondo, responsabilità etica e soggettivazione politica). E, da principio, Chignola sottolinea che le problematiche qui toccate (talora raggruppate sotto l’etichetta Italian Theory) hanno una dimensione che va ben oltre ogni limite nazionale o locale. Non è un caso se, appunto, l’importanza di questo libro sta nel fatto che esso rende conto dello spostamento del dibattito filosofico politico a cavallo del XX e XXI secolo: uno spostamento che è divenuto una radicale differenza, segnalata da tre passaggi. Chi abbia vissuto l’ultimo mezzo secolo della discussione sulla natura dello Stato e sulla crisi della democrazia, non potrà che confermare questa osservazione. IL PRIMO PUNTO sul quale questo spostamento è visibile anche allo spettatore più disattento, è la fine del riferimento, nell’analisi e nella narrazione della natura dello Stato, a posizioni quali quelle rappresentate da Carl Schmitt. Contro ogni trascendenza della sovranità si levano infatti, nella contemporaneità, i dispositivi dell’immanenza: la natura del potere è strappata a ogni possibile fondamento teologico-politico e concepita nella pluralità dei rapporti di forza sociali. La linea che va da Deleuze a Spinoza è qui assunta nella polemica contro il concetto schmittiano del politico. Con Foucault, questa riduzione del sistema dei saperi-poteri dello Stato sul terreno della biopolitica definisce un processo del potere che «investendo integralmente la vita, mostra la vita stessa come potere». Meglio detto, dall’altro lato, «la vita non viene mai integrata in modo esaustivo nelle tecniche che la dominano e la gestiscono da parte del potere». Con le parole esatte di Foucault, «essa sfugge loro senza posa». Il secondo punto, riguarda l’analisi weberiana della razionalità moderna, nella fattispecie, amministrativa e statuale. Anche questa è prospettiva ormai caduca: l’introduzione delle tematiche della «governamentalità» ha distrutto la bella immagine di una legalità includente o comunque accordata alla legittimità. Su questo terreno, gli studi costituzionali e politici italiani sono stati per un buon secolo costretti dal pensiero dominante, fra Croce e Bobbio. LE ANALISI di Deleuze e Foucault hanno disarticolato queste antiche forme della normazione e della vicenda amministrativa dello «Stato di diritto». In un saggio esemplare della raccolta (In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo), questo mutamento dell’orizzonte teorico e questa condizionalità nell’analisi dello «Stato di diritto», vengono messi radicalmente in discussione. E nei saggi – riprende altrove Chignola – le immagini della «talpa» e del «serpente» con tanto vigore segnalano una transizione fra diverse formazioni giuridiche che corrispondono alla profonda mutazione del capitalismo. Il terzo punto – ed è il più forte – riguarda le concezioni metafisiche che dematerializzano il potere allo scopo di svuotare, con esso, ogni potenza di resistenza e di rivoluzione. Da Heidegger ad Agamben si sono susseguiti questi tentativi. Qui la vita, quella vita che è stata riconquistata come potenza «dentro» la distruzione del teologico-politico, è invece pensata «come ostaggio del dispositivo di bando e come irretita dal dispositivo sovrano della Legge, e non come produttività, divenire, variazione». In questo modo, si pensa alla biopolitica come «cattura» e non come un processo di soggettivazione eccedente i biopoteri che la globalizzazione ha formato. Va a questo proposito sottolineata la rilevanza di un altro saggio qui contenuto: Sul dispositivo. Foucault, Agamben, Deleuze. È QUESTA, UNA LETTURA del concetto di «dispositivo» estremamente importante, perché mette in azione, sul limite dell’estendersi dei processi di cattura della vita e di messa a valore della cooperazione sociale, la soggettivazione: è nel dispositivo che si distende lo sguardo, dall’oppressione attuale alla resistenza futura, in un continuum di rottura – che rende appunto politica la critica. Speriamo di aver chiarito quanto sia «spietato» il procedere critico di Chignola. Non voglio qui fantasticare su cosa avrebbe detto un filosofo politico di prima del ’68 dinnanzi a questo ritratto d’epoca – e dello Stato – che Chignola ci propone. Dire che lo avrebbe indignato è poco. Avrebbe probabilmente aggiunto, in un’ipotetica dell’irrealtà, che se quanto affermato da Chignola fosse avvenuto, la «grande politica» sarebbe estinta… intendendo con ciò cosa impossibile. CIÒ È INVECE AVVENUTO: la fine dell’autonomia dello Stato e di tutti i concetti che lo facevano bello (popolo, nazione, sovranità ecc.). Eppure, di quelli antichi, un concetto è rimasto vivo (certo, assai modificato): quello di classe e di lotta di classe, perché è concetto di soggettivazione (di movimento) nel rapporto antagonistico aperto nel potere. Last but not least, la sconfinata letteratura che Chignola legge e interpreta sta a mostrare l’estrema utilità – oltre ovviamente al valore – di questo volume. FONTE: Toni Negri, IL MANIFESTO

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Il sintomo immaginario nel «difetto di politica» https://www.micciacorta.it/2016/05/sintomo-immaginario-nel-difetto-politica/ https://www.micciacorta.it/2016/05/sintomo-immaginario-nel-difetto-politica/#respond Sat, 28 May 2016 10:54:37 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21927 POLEMICHE. La risposta del filosofo alle critiche mosse al suo saggio. Il rischio di deriva vitalistica individuato da Toni Negri nella sua recensione al libro «Da fuori. Una filosofia per l’Europa» non è riscontrabile

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Su queste pagine martedì 17 maggio Toni Negri ha dedicato un articolo, importante e critico – importante perché critico – al mio recente libro Da fuori. Una filosofia per l’Europa (Einaudi). Il suo rilievo sta nel fatto che con esso Negri apre una discussione sul pensiero italiano contemporaneo, rompendo la tendenza «monastica» che connota questa fase della produzione intellettuale soprattutto nel nostro Paese. Tra i tanti cultori dell’a solo, un protagonista di primo piano della vita pubblica italiana interviene criticamente su un altro testo, mettendo in luce con chiarezza concordanze e divergenze da esso. Naturalmente mi soffermo soprattutto sulle seconde, enfatizzate nel titolo e nel sottotitolo che i redattori del Manifesto hanno dato al suo intervento, calcando l’accento sulle «rassicuranti e impolitiche tonalità naturalistiche» di un libro – quello mio – che addirittura metterebbe «fuori gioco il nostro pensiero vitale». Se si considera che il libro in questione inizia con una frase di Hegel che esalta il conflitto e si chiude sulla necessità dello scontro tra i due popoli che si fronteggiano in Europa come, secondo Machiavelli e Vico, facevano i «popolari» e i «Grandi» nell’antica Roma, c’è da rimanere sorpresi. In verità Negri è troppo avvertito per scriverlo in un articolo molto più mosso e articolato. Anch’egli, però, vede il rischio, nel mio testo, di una deriva vitalistica e perfino naturalistica. E dunque di un possibile esito impolitico della «biopolitica affermativa» che da qualche anno sto provando a elaborare. Il paradosso che, secondo Negri, si delineerebbe nelle mie pagine è che «per dar contenuto alla forza vitale» finirei per «toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura». L’accusa si appoggia in realtà su non più di cinque pagine in cui richiamo la posizione di tre autori italiani – Adriano Tilgher, Giuseppe Rensi e Giorgio Colli – che contrappongono la vita alla forme in una maniera non mediabile dal concetto. Immaginare che la mia posizione coincida con la loro, in un libro di 243 pagine dedicato ai maggiori filosofi europei, è non solo fuorviante. È quel che, in linguaggio analitico, si direbbe un sintomo. Perché se c’è un autore che fa della vita, ricondotta alla sua potenza naturale, il perno della proprio proposta politica è proprio Negri. Fin nella prefazione a Comune (Rizzoli) egli scrive che l’avvento del comune presuppone la riunificazione dell’umanità e della natura con una tonalità che richiama Marcuse non meno di Deleuze: «La natura non fa salti come dicono gli evoluzionisti. Il cambiamento è tuttavia possibile a partire dagli strati più profondi del mondo e di noi stessi. Abbiamo la possibilità di intervenire in questo processo per orientarlo lungo le linee del nostro desiderio, verso la felicità». Negri ha pagine di grande efficacia, e anche di suggestione letteraria, in cui la categoria di produzione si articola con forza con quella di soggettività, convocando insieme desiderio, felicità, amore. La vita costituisce l’orizzonte ontologico in cui la moltitudine è destinata a travolgere gli ostacoli che ancora ne vincolano l’infinita potenza produttiva. Si direbbe che, pur nella gabbia dell’attuale globalizzazione, l’affermazione possa liberarsi del tutto dal negativo in un pieno appagamento degli istinti allo stesso tempo naturali e sociali. Qui Spinoza – uno Spinoza radicalmente antihobbesiano – incontra, oltre Marx, la grande tradizione utopistica della liberazione integrale, perdendo i contatti con il realismo che pure è al cuore del pensiero italiano, da Machiavelli al primo Tronti. In più occasioni ho apprezzato il tentativo di Negri di mettere in campo una linea di pensiero esterna al lessico teologico in cui è risucchiato invece il pensiero di altri autori italiani. Ma attribuire proprio a me un impulso vitalista e naturalista è quantomeno singolare. La mia impressione è che, contrariamente a quanto si può ritenere, in Negri ci sia un difetto e non un eccesso di politica. Almeno se per politica si intenda una chiara determinazione del fronte su cui ci si divide e delle forza cui ci si contrappone. La stessa categoria di moltitudine – come del resto quella di produzione – rischia di non oltrepassare la soglia della politica. Quanto più capace di inglobare le più varie forme di soggettività, tanto meno è in grado di esibire una precisa connotazione politica. Essa finisce per sottrarre l’orizzonte ontologico al lessico politico. Del resto è Negri stesso a ricordare quanto «l’ontologia sia più fondamentale del politico» (Kairós, Alma Venus, Multitudo, il Manifestolibri). Questa difficoltà ad incontrare la politica è il problema di tutte le grandi filosofie immanentistiche – da Bruno, a Spinoza a Deleuze. Una volta abolito il negativo, è difficile individuare il punto, o la linea, del contrasto. Anche il potere costituente, la cui teoria pure rappresenta forse il maggior contributo di Negri all’Italian Thought, rischia di «esser preso come una sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto». Sono le parole che l’autore rivolge in forma critica verso di me. Ma che ben si potrebbero indirizzare a lui. Naturalmente la storia politica di Negri ha avuto una tenuta indiscutibile sotto il profilo di un impegno mai venuto meno. La difficoltà sta piuttosto nella sua difficile articolazione con la filosofia. È come se filosofia e politica, nel suo caso, finissero, anziché per rafforzarsi a vicenda, per indebolirsi reciprocamente. Prendiamo la questione europea. Negri ha in più di un’occasione espresso la sua adesione a una prospettiva europeista – ovviamente diversa da quella della grande maggioranza dei dirigenti europei, segnata da diseguaglianze insostenibili e piegata agli interessi della finanza globale. Ma, ancora una volta, come desumerla dal paradigma di impero, che pure Negri ha avuto il merito di elaborare in anni recenti? Se l’impero, inteso come l’attuale ordine del mondo, non ammette un «fuori», dove situare e come connotare la specificità dell’Europa? Come è noto, le contraddizioni fanno spesso tutt’uno con l’interesse di un pensiero. Ne rivelano la radicalità e il coraggio, l’intelligenza e la passione. L’opera di Negri ne costituisce un’ulteriore riprova. Affrontare con franchezza, e anche con asprezza, il pensiero di altri, quando è tale, è sempre segno di forza e di generosità. Che merita una risposta altrettanto franca e decisa. Spero che questi interventi stimolino un dibattito su questioni, di filosofia e di politica, che ci uniscono in un orizzonte comune più ampio e profondo delle differenze che pure lo solcano.

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