street art – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Mon, 27 Jun 2016 08:32:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Uomini e topi della «street art» Banksy va in mostra (e lui non c’è) https://www.micciacorta.it/2016/05/uomini-topi-della-street-art-banksy-va-mostra-non-ce/ https://www.micciacorta.it/2016/05/uomini-topi-della-street-art-banksy-va-mostra-non-ce/#respond Fri, 06 May 2016 10:25:30 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21793 «L’artista noto come Banksy non è associato nè coinvolto in questa esposizione museale, tutte le opere presenti provengono da collezionisti privati internazionali e nessuna opera è stata sottratta alla strada» recita una nota a margine della mostra romana

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street art

Come lui nessuno mai: con Banksy la street art , quella per lungo tempo bollata come «imbrattamuri» o poco più, si è finalmente meritata un posto in Paradiso. O, meglio, nei musei (il Moco Museum di Amsterdam ha scelto di inaugurarsi in aprile con la mostra Banksy Laugh now), nelle aste (nel 2014 i suoi poliziotti che si baciano di Kissing Corps sono stati venduti al Fair di Miami per 420 mila euro), nelle segrete stanze dei collezionisti (tra i suoi massimi estimatori-compratori c’è la coppia Angelina Jolie-Brad Pitt). La celebrazione definitiva arriva ora, forse in qualche modo anche a sorpresa, dall’Italia, da Roma. Dove il 24 maggio si inaugurerà Guerra, Capitalismo & Libertà, la più grande mostra mai dedicata all’artista britannico, nativo di Bristol, identificato secondo una ricerca della Queen Mary University con Robin Cunningham. classe 1973, mentre per qualcun altro si tratterebbe di un altro anonimo (sempre di Bristol), ma nato nel 1974. Mostra in programma a Palazzo Cipolla, ideata e promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro — Italia e Mediterraneo presieduta da Emmanuele F. M. Emanuele, curata da Stefano Antonelli, Francesca Mezzano e Acoris Andipa. Saranno 150 le opere (comprese una cinquantina di copertine di dischi) esposte fino al 4 settembre: un piccolo grande universo costantemente attraversato da tensioni politiche, questioni sociali, dubbi esistenziali che però non dimenticano (quasi mai) il fascino della poesia. Ecco dunque i suoi maxi-topi (uno dei simboli più conosciuti dell’arte di Banksy): innamorati con tanto di pennello e cuore dipinto; very glamour con i loro occhiali da star di Hollywood; militarizzati e muniti di radar; in versione pacifista; imprigionati dentro un’ampolla da laboratorio. E ancora: ragazze che abbracciano pericolosissime bombe pronte a esplodere; aborigeni a caccia di carrelli da supermarket; paesaggi romantici deturpati con la vernice spray; strani elicotteri da guerra con fiocco rosa; scimmioni dall’aria assai ingrugnata che dichiarano: «Ridete adesso che un giorno saremmo noi a comandare». Sempre discusso, esaltato o ferocemente criticato a seconda delle occasioni: questo è il destino di Banksy. Che, lo scorso gennaio, aveva realizzato un graffito sul retro dell’Ambasciata francese di Londra raffigurante una giovane donna in lacrime (probabilmente ispirata alla Cosetta dei Miserabili di Victor Hugo) con ai piedi una latta di gas lacrimogeno e alle spalle la bandiera francese (un modo per criticare la politica di accoglienza verso i migranti): graffito immediatamente coperto. Banksy è, insomma, il prototipo dell’artista metropolitano che, spiegano i curatori, «vuole dare voce alle masse e a chi, altrimenti, non sarebbe ascoltato da nessuno». E che per farlo utilizza, in pratica, ogni tipo di supporto tecnico: la pittura su tela, lo spray sui muri, lo stencil, la stampa su carta, l’installazione, il cortometraggio (il suo Exit through the gift shop nel 2010 è stato candidato all’Oscar). Anche se la strada rimane il suo palcoscenico per eccellenza, quasi a voler ribadire quella personale scelta di indipendenza che nel 2013 lo aveva spinto, ad esempio, a realizzare a New York un progetto denominato Better out than it nel cui ambito aveva venduto le sue tele su una bancarella per 60 dollari. «L’artista noto come Banksy non è associato nè coinvolto in questa esposizione museale, tutte le opere presenti provengono da collezionisti privati internazionali e nessuna opera è stata sottratta alla strada» recita una nota a margine della mostra romana. Realizzata, comunque, «con un corpus di lavori certificati dall’organismo denominato Pest Control destinato a autenticare le opere dell’artista». Nelle stanze di Palazzo Cipolla si parlerà (per immagini) dei temi più amati di Banksy: la guerra, il capitalismo, la libertà. Proseguendo un percorso che, spiega il presidente della Fondazione Terzo Pilastro Emmanuele F.M. Emanuele, «darà voce a quella street art che vuole portare l’arte fuori dai musei, rendendola parte del nostro vivere quotidiano». Una mostra non-profit con una forte componente didattica, tipica dei lavori di Banksy, destinata stavolta in particolare alle scuole e agli studenti. E che probabilmente riuscirà a esaurire quella curiosità che da sempre circonda l’artista che nel 2015 aveva dato vita a(tra l’altro) Dismaland, l’esatto contrario del parco di divertimento «con i visitatori accolti da uno staff depresso e poco collaborativo». Un ultimo dato: la personale di Banksy del 2007 organizzata a Londra sempre da Acoris Andipa aveva raccolto 36 mila visitatori in «sole» tre settimane. Roma è pronta per battere il record.

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Una mano di Blu contro la Tav https://www.micciacorta.it/2016/05/21772/ https://www.micciacorta.it/2016/05/21772/#respond Tue, 03 May 2016 07:56:46 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21772 Dopo le polemiche bolognesi, i murales del celebre street artist irrompono in val Susa a fianco del movimento che si oppone all’«alta voracità» e a difesa della casa di Ines, minacciata dalle ruspe

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SUSA Un eurocrate carponi, la cui testa invisibile entra dentro la zona rossa del cantiere dell’alta velocità, defeca denaro. Dietro di lui un sindaco, con fascia tricolore, nella stessa posizione raccoglie una manciata delle feci sonanti e se ne ciba. E poi un costruttore, un giudice con parrucca e toga e una serie di poliziotti: chi armato di codice penale, chi di fucile e chi di manganello. Tutti carponi, tutti coprofagi di denaro, quello prodotto dal cantiere di Chiomonte, in val Susa. È la prima delle due opere dipinte la scorsa settimana da Blu, l’artista anonimo definito dal Guardian «uno dei dieci migliori street artist in circolazione».

«Alta voracità», questo il titolo dell’imponente murales, dà il benvenuto all’interno del cantiere fortezza di Chiomonte. Arrivato giovedì scorso, inaspettato dai più, l’artista ha preso possesso della massicciata oggetto di infinte scritte No Tav negli ultimi anni. Sotto lo sguardo incredulo dei poliziotti – è stato necessario spiegare che si trattava di un artista di fama mondiale – Blu ha iniziato il suo lavoro di pulitura del muro. Dopodiché ha costruito la scena che ricorda il celebre film horror The human centipide, incentrato su un folle medico che vuole unire chirurgicamente tre persone, bocca con ano, allo scopo di creare un «centopiedi umano».

Tutti i personaggi hanno figura vagamente porcina, occhi privi di pupille, sguardo stravolto e perso nel vuoto, e utilizzano la mano sinistra per raccogliere il denaro e divorarlo.

Stagliati a metà dell’opera, lunga circa cinquanta metri e alta dieci, si evidenziano le figure del costruttore e del giudice, punto centrale della catena alimentare che mette in relazione il grande burocrate con i soldati posti a difesa del cantiere più contrastato d’Europa.

L’opera è in sé un grande treno umano, che si ciba delle proprie deiezioni per sopravvivere. Ma i personaggi finali di «Alta Voracità», sempre più indistinti, divengono deformi e piccoli, fino ad essere solo dei mostri dalle forme disumane. La disumanizzazione del capitalismo assume così forme disgustose, estreme, che giungono perfino a violare un principio biologico atto a preservare la vita. Ma l’alienazione che parte dal burocrate e si sviluppa per i passaggi successivi rende ciechi coloro che detengono le leve del potere, ignari che stanno distruggendo anche se stessi.

Blu, nella sua opera, getta fiumi di sarcasmo, perché gli unici che possono entrare dentro quel cantiere, che possono oltrepassare quella porta inviolabile ai cittadini della valle, sono i personaggi coprofagi della sua opera: dal burocrateal costruttore, fino alle varie polizie che ogni giorno, che gli piaccia o no, sono poste a difesa di un sistema malato e distruttivo.

Intorno a Blu intento a dipingere si è radunata la solita folla di militanti No Tav, che non aspettavano il suo arrivo. Molto conosciuto in valle, Blu ha solidarizzato con la lotta che vede un momento di calma apparente. Il cantiere di fatto è esiliato in una stretta e lontana valle laterale, e il tunnel di base procede a ritmo blando, senza fretta. La val Susa in sé è intatta, molto meno le casse dello Stato sottoposte all’emorragia Tav.

Dopo aver concluso l’opera, apparentemente apprezzata anche dai militari posti al check point adiacente che hanno guardato con curiosità e fotografato, Blu si è spostato nella frazione di san Giuliano, dove dovrebbe sorgere la grande stazione internazionale di Susa.

Prima di passare al secondo capolavoro di Blu è necessario scendere negli abissi dell’irrazionalità. Susa è una bella cittadina incastrata in un fondo valle, famosa per la sua focaccia e l’arco romano in perfette condizioni. Non è poco, ma altro non c’é. Conta ben 6mila abitanti, e nella frazione di San Giuliano, poche case e un forno, si vorrebbe costruire una stazione ferroviaria degna di una metropoli di medie dimensioni.

Qui abita la signora Ines, e la sua bella cascina verrebbe abbattuta qualora si procedesse con la costruzione della Stazione Internazionale di Susa. Blu le ha chiesto se poteva «dare un tinteggiata» alla parete esposta a est. Nulla di meglio per la battagliera signora che espone orgogliosa una bandiera col treno crociato sul balcone.

Blu ha disegnato una megamacchina arancione, dotata di benne, manganelli, punte, picconi, mani che impugnano denaro e bandiere. Lanciata contro l’albero della vita così diverso da quello Expo che si spiega su una distesa di cemento. La macchina fuoriesce dalla montagna lasciando alle sue spalle una distesa grigia, fatta di nulla.

Di fronte un albero possente si erge a difesa della bellezza, che non vale niente perché non serve a nessuno. È un’epopea quella dipinta da Blu, in cui sono rappresentati tutti i valori della lotta No Tav. L’albero, protetto da barricate fatte di copertoni, ha rami che si trasformano in braccia che si difendono, che fanno resistenza attiva. Macchine fotografiche, la storica bandiera del movimento, fionde, tronchesine, molotov ricolme di foglie tutto è impugnato: ma soprattutto ci sono braccia che si stringono forte, che serrano i ranghi. E nella parte superiore, dove la quercia si biforca in due possenti rami, le catene si spezzano e l’albero è finalmente libero di crescere.

Quelle di Blu in val Susa sono le prime opere dopo la volontaria cancellazione di alcuni suoi murales a Bologna. Scelta dovuta alla pretesa che le sue opere fossero di fatto privatizzate e mercificate. In val Susa, soprattutto per quanto riguarda il murales dipinto sulla casa della signora Ines, il problema sarebbe diverso: verrebbe perso per sempre, abbattuto. E data la presenza di tre opere di Blu in questo territorio, il movimento No Tav ipotizza una valorizzazione culturale che coinvolga anche le istituzioni. Un percorso nell’arte gratuita, quella che “serve”” ad elevare il cittadino, unica valorizzazione prevista dalla Costituzione.

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L’arte dell’anonimato https://www.micciacorta.it/2016/03/21538/ https://www.micciacorta.it/2016/03/21538/#respond Sun, 20 Mar 2016 16:12:03 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21538 Da Banksy a Elena Ferrante. Scegliere di non firmare le proprie opere o di usare uno pseudonimo corrisponde a un programma etico e politico. E ha un’origine nobile che risale al Medioevo

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I writers somigliano ai tanti pittori vissuti prima del Rinascimento e di cui conosciamo la produzione ma non i nomi In qualche modo chi dipinge su un muro rifiuta l’eredità del moderno e predilige una tradizione fatta di comunità e non di singoli Chi è Banksy? Chi è Elena Ferrante? Siamo disposti ad arrampicarci sulle più improbabili congetture pur di riuscire a dare un volto, una biografia, una foto senza trucco ai pochi artisti o scrittori che hanno scelto di negare al circo mediatico la propria persona. Non tolleriamo che qualcuno «si nasconda » dietro uno pseudonimo: e basterebbe la scelta del verbo «nascondersi» per rivelare lo spirito vagamente inquisitoriale col quale guardiamo a chi vuole parlare solo con le proprie opere. Molti che non hanno mai visto un Banksy, né letto una riga della Ferrante si sono, negli ultimi giorni, appassionati all’abilissima cronaca della caccia alla loro identità anagrafica: poterli mettere a sedere tra gli ospiti in un programma del primo pomeriggio (quando «non c’è due senza trash», come canta Fedez) sarebbe il sogno di qualunque venditore di immagine.
Intendiamoci, il culto della personalità degli artisti è un culto antico. Se è vero che esso conta tra i molti tratti che si sono esasperati e radicalizzati nel passaggio dalla «società dello spettacolo» (Guy Débord) alla totalitaria «civiltà dello spettacolo» (Mario Vargas Llosa), è anche vero che la storia dell’arte come la intendiamo oggi rinasce — dopo l’anonimato del millennio medioevale — con un’autobiografia d’artista: quella di Lorenzo Ghiberti, alla metà del Quattrocento. Leggendo Plinio e altre fonti antiche, gli uomini del Rinascimento scoprivano una legione di artisti: ne conoscevano i nomi e i successi, le conquiste figurative e le avventure personali. I testi erano stati davvero più duraturi del bronzo (come aveva predetto Orazio), e se le opere avevano fatto naufragio, le biografie si erano in qualche modo salvate.
È su queste basi che Giorgio Vasari edifica un monumento storiografico che tuttora ci condiziona: le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550 e 1568) culminano nell’apoteosi di un Michelangelo divino, contro cui Roberto Longhi mostrava, nel 1950, tutta la sua insofferenza («e s’è già troppo sofferto del mito di artisti divini e divinissimi, invece che semplicemente umani»). Parliamo ancora con le parole di Vasari quando chiamiamo «divi» e «dive» gli attori o le cantanti che ci sembrano più grandi, e la medaglia ha il suo rovescio: quello dell’artista sporco, sociopatico e assassino. Caravaggio, dunque: caso in cui l’arte ci sembra indissolubile dalla biografia, lo stile del pennello da quello della spada.
Ma è proprio con Caravaggio che diventa evidente il prezzo enorme di questa affermazione di una forte individualità eterodossa: quando le sue pale d’altare vengono rifiutate dalle chiese ed entrano subito nelle grandi collezioni private, inizia a rompersi il nesso opera-funzione. Inizia il lungo processo verso l’arte di oggi: che «non fa perdere all’arte la sua qualità di arte, ma le fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte diventa una splendida superfluità» (Edgar Wind).
Consapevolmente o no, è contro tutto questo che lotta il writer Blu quando cancella le opere che aveva fatto sui muri di Bologna perché non vengano staccate ed esposte nell’ennesima mostra di cassetta sulla Street Art. È in questo senso che l’anonimato di Banksy non sembra solo un vezzo personale, o la conseguenza del carattere illegale dello scrivere sui muri, ma un programma artistico, etico, politico.
Un’«arte senza nomi» che prova a riportare indietro le lancette della storia: a prima di Ghiberti. Ottimi studi sulle firme e i ritratti degli artisti (soprattutto italiani) del Medioevo hanno ormai messo in crisi «l’immagine romantica dell’artista che annulla la sua personalità nell’opera condotta insieme ad altri, a maggior gloria di Dio», ma è innegabile che «percorrendo a ritroso il Medioevo si direbbe che i tratti individuali degli artisti, i loro stessi nomi sfumino e si confondano insieme, unificati in una sorta di configurazione collettiva» (Enrico Castelnuovo). E proprio Peter C. Claussen (lo storico dell’arte che più di ogni altro ha saputo censire le tracce individuali degli artisti medioevali) ha sottolineato l’anonimato che cancella gli artisti dall’epicentro del gotico francese, tra il 1130 e il 1250: le grandi cattedrali dell’Île-de-France continuano ad apparirci come capolavori collettivi voluti e costruiti da comunità civili.
È in questo senso che la Street Art rifiuta l’eredità del moderno, cercando altrove. Per molti versi viviamo in un nuovo Medioevo: nelle nuove città torri sempre più alte separano la vita lussuosa dei nuovi signori feudali da quella della massa dei servi, non della gleba, ma di un mercato senza regole. A redimere la programmatica bruttezza dei non luoghi dove vive la maggior parte degli occidentali è nata un’arte che appare collettiva per natura, e generata quasi in opposizione simmetrica a quella mainstream.
Se quest’ultima è un’arte privata per definizione, un’arte da interno che nasce per gallerie e per case di lusso, o per musei, simili a lounges aeroportuali, nei quali si paga un biglietto, la Street Art è un’arte pubblica, un’arte da esterno che si vede gratis perché aderisce come una seconda pelle ai luoghi dove vive e lavora chi possiede quasi solo la propria pelle. La prima non puoi comprarla perché costa milioni, la seconda non puoi comprarla perché non è in vendita: e negare il nesso arte-mercato è un altro tratto che nega tutta la tradizione moderna, tornando al nesso medioevale arte- comunità. E anche per macchine tritatutto come il mercato dell’arte e l’industria delle mostre non è facile digerire la Street Art: perché quando la sradichi, ne uccidi anche il valore estetico.
In questo gioco di contrari, il divismo esasperato dei Jeff Koons, Damien Hirst o Maurizio Cattelan trova un corrispondente perfetto nell’anonimato di Banksy.
Dei writers — come di molti artisti medioevali — conosciamo solo le firme, e — proprio come accade per l’arte europea dell’alto Medioevo — non possiamo interpretarne l’arte alla luce delle biografie: non possiamo individualizzarla, e dunque siamo “costretti” a leggerla come un’arte davvero collettiva.
Equesta strategia funziona: difficilmente vedremmo i cittadini insorgere in difesa di un museo d’arte contemporanea, mentre in molte città d’Europa (e ora a Bologna) succede che la comunità si preoccupi della sorte di un’arte che sente “sua” anche grazie all’eclissi della personalità del creatore. Non di rado i writers italiani mettono in atto progetti di notevole valore civico, oltre che artistico: come il collettivo FX, che ricopre con il testo dell’articolo 9 della Costituzione i muri di cemento che l’hanno violato distruggendo il paesaggio. O come il Gridas (Gruppo Risveglio dal Sonno), che ha raccontato l’epopea collettiva dei cittadini di Scampia non «coprendo le brutture» del quartiere, ma «usandole in modo creativo» (lo raccontano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano in Graffiti. Arte e ordine pubblico, il Mulino 2016).
Se oggi in molti pensiamo che «le parole dei profeti /sono scritte sui muri della metropolitana / e negli androni dei palazzi» (come recitava, già nel 1964, la fine di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel) è anche perché i writers continuano a pensare che la loro arte valga più del loro egotismo. Un messaggio, questo sì, profetico.

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Blu rivolta https://www.micciacorta.it/2016/03/21481/ https://www.micciacorta.it/2016/03/21481/#respond Sun, 13 Mar 2016 15:35:10 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21481 Blu a Bologna. Cancellando le sue opere, Blu ha risposto che la città appartiene anche e soprattutto agli artisti e ai soggetti anonimi che modificano l’estetica urbana indipendentemente dal profitto, dal potere e dalle burocrazie urbane

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Blu

Dietro il conflitto sulle opere di Blu a Bologna c’è un problema enorme, che non riguarda soltanto il writing o la street art, ma l’estetica urbana come fatto politico e oggetto di scontro sociale. Anzi, il diritto di espressione, artistica e non, contrapposto alla cultura degli assessori e al gigantismo spesso trombonesco e manipolatorio degli eventi sponsorizzati. Da un anno circa sui muri delle città tedesche si può leggere la scritta: Wem gehört die Stadt? («A chi appartiene la città»?). Ai grandi interessi immobiliari? Alle amministrazioni elette magari da maggioranza di sinistra –e immediatamente impegnate a ripulire le città in nome del decoro urbano, come a Milano? Alle associazioni dei commercianti che cacciano gli ambulanti dai marciapiedi? Alle banche che deturpano le facciate di palazzi quattrocenteschi con insegne enormi? O magari ad associazioni di maggiorenti o critici che fiutano l’affare dei graffiti? Cancellando le sue opere, Blu ha risposto che la città appartiene anche e soprattutto agli artisti e ai soggetti anonimi che modificano l’estetica urbana indipendentemente dal profitto, dal potere e dalle burocrazie urbane. E poiché le ha realizzate lui, a suo rischio e pericolo, è suo pieno diritto impedire che finiscano nelle mani di qualche mercante che sa guardare al di là del proprio naso. L’aspetto inquietante – agli occhi dei poteri locali – dell’arte di strada (graffiti, murali, stencil ecc.) è che non è in vendita, che la sua grazia risiede nella gratuità, e persino nel gioco a rimpiattino dei writer con le autorità e la polizia, che inevitabilmente li scambiano per teppisti, trattandoli di conseguenza. Miseria delle categorie ingessate del controllo sociale che vede infrazioni, deturpamenti e violazioni dei codici in un gesto, il dono di un’opera alla città, che evade dalla cultura del profitto. Così Blu può essere denunciato per aver realizzato un graffito oppure per averlo cancellato. Un’altra writer di fama mondiale, ALICè, è condannata a 800 Euro di multa per un’opera murale che altrove sarebbe vanto di una città. E così via, in una sequela di schizofrenie giudiziarie,. corteggiamenti estetici, burocratismi comunali, strepitii di risibili associazioni anti-graffiti, che spediscono ragazzini innocenti a imbiancare i muri – salvo scoprire che magari quello che ricoprono potrebbe valere milioni, come è avvenuto al celebre Banksy. Che poi un writer come Blu esponga alla Tate, come ipocritamente gli ha rinfacciato qualcuno, non cambia la sostanza del problema. E non solo perché sono fatti suoi. Da che parte si sta? Da quella di chi deturpa per mesi la facciata di una cattedrale con una pubblicità di dieci metri per dieci? O da quella di chi dice la sua, con una bomboletta, sull’ordine che ci circonda? Ma forse è più onesto chi reprime i writer apertamente, alla luce del sole, di chi strappa un’opera al suo luogo naturale, l’aria aperta, per trascinarla nell’aria stantia di un museo.

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Street art S.p.a. https://www.micciacorta.it/2016/03/street-art-s-p/ https://www.micciacorta.it/2016/03/street-art-s-p/#respond Wed, 09 Mar 2016 15:45:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21466 Dalla protesta al business. Nati come espressione della controcultura, oggi i graffiti e gli interventi dei writer rilanciano interi quartieri facendo lievitare i prezzi delle case. Fino a diventare brand per le multinazionali

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Dalla ribellione al business. Nata come arte sovversiva e di denuncia, la Street Art è ormai un fenomeno di massa. Come il rap, il grunge, la letteratura pulp, è passata dalla controcultura al mainstream. Celebrata da esposizioni nei più prestigiosi musei, ingaggiata dalle amministrazioni pubbliche per riqualificare le periferie. E, ora, corteggiata anche dai grossi brand, che hanno intercettato il nuovo gusto dei consumatori e hanno deciso di cavalcare l’onda. E così la Street Art, dopo essere entrata a pieno titolo nell’Olimpo delle arti, ha iniziato a farsi strada anche nel mondo del business. Accompagna convention aziendali, sfreccia sulle strade delle città su nuovi marchi, come la serie limitata della Smart Forfour. Tant’è che Inward, organizzazione non profit che mette in contatto pubblici, privati e street artist, ha lanciato in questi giorni #StreetArt-Factory per portare la Street Art dentro industrie, fabbriche, cantieri e aziende di tutta Italia. «Ormai nei consigli di amministrazione — dice Luca Borriello, presidente di Inward — quello che un tempo veniva visto come un fenomeno negativo inizia a essere accolto con interesse anche perché in tempi di crisi, dove di soldi ne girano pochi, ricorrere alla street art paga». Non è solo una questione di risparmio, ma di immagine. C’è chi lo fa per rilanciare un marchio, per rinnovare modelli vecchi, per raccontarsi, per integrare e armonizzare la propria presenza nel paesaggio urbano o per attirare clienti. Gli street artist vengono chiamati anche nell’organizzazione di eventi. Lo hanno fatto, tra i tanti, Eni e Enel. Per Vincenzo Boccia, presidente di Arti Grafiche e candidato alla presidenza di Confindustria, è una passione antica. La sua azienda è stata ridisegnata proprio con un progetto di Street Art. Chi attraversa il confine tra Campania e Calabria può vedere lungo il paesaggio nove gigantesche B dipinte da creativi urbani italiani. Sono lo sfondo del capannone dell’azienda tipografica. Quando venne lanciato il progetto, Boccia ne spiegò così la filosofia: «I murales sono diventati un “pezzo d’azienda”, lo rivendichiamo con orgoglio ». Di casi simili ce ne sono molti. A Milano, in via Resegone, svetta una ciminiera coloratissima. È dei Fratelli Branca Distillerie, storico marchio, che nel progetto di restyling ha trasformato un elemento architettonico imponente in un’opera d’arte firmata Orticanoodles. Anche Ceres a Torino (San Salvario) e a Pomigliano ha riqualificato muri di periferia. E, tra i grandi brand della moda, Vuitton ha scelto di collaborare con Ben Eine. E poi c’è il settore pubblico, in cui per ora sono coinvolti i Comuni, più di 200, che organizzano festival (in Italia sono 15), affittano muri, riqualificano quartieri. Nella capitale è accaduto, ad esempio, a Tor Marancia e a San Basilio, grazie anche al finanziamento della Fondazione Roma. Ma anche i costruttori sono interessati. Una via l’ha già data Claudio De Albertis, alla guida dell’Ance, l’associazione dei costruttori, che nella sua veste di presidente della Triennale ha sempre supportato iniziative di creatività urbana. Ma molti altri, più prosaicamente, stanno cominciando a valutare l’affare. Perché, ormai in tutto il mondo, ci si è accorti che la Street Art fa lievitare i prezzi degli immobili. Il Centro per lo Studio della Moda e della Produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano stima che la riqualificazione dei quartieri con opere di arte urbana faccia aumentare i prezzi almeno del 20 per cento. E su alcuni annunci immobiliari comincia a spuntare la scritta “Con vista Street Art”. Certo, dipende anche dagli artisti. Secondo Collier International Italia alcune proprietà a Bristol e a Londra firmate Banksy hanno aumentato il loro valore di decine di migliaia di sterline. Ma non tutti gli artisti reagiscono allo stesso modo, quando le loro opere nate per denunciare speculazioni in quartieri degradati, finiscono paradossalmente per diventare un fattore di gentrificazione. Celebre il caso di Blu che ha cancellato dai muri di Berlino Brothers e Chain, in polemica con il progetto di riqualificazione. Ma, nonostante il riconoscimento pubblico e istituzionale, molti street artist continuano a finire in tribunale. Dopo le accuse a Obey, con tanto di breve arresto l’estate scorsa, per atti vandalici negli Stati Uniti, l’ultimo caso è quello di AliCè, condannata poche settimane fa (in primo grado) per imbrattamento dal tribunale di Bologna. La stessa città in cui il 18 marzo si aprirà la grande mostra Street Art — Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, prodotta da Genius Bononiae (e voluta dal suo presidente, l’ex rettore Fabio Roversi Monaco) e da Arthemisia, che si presenta come la prima grande retrospettiva dedicata alla storia della Street Art. Con i murales “strappati” alla strada per finire nelle sale di Palazzo Pepoli, fra le polemiche e gli interrogativi di chi si chiede se così si possa ancora definire Street Art. Una domanda che, viste anche le ultime tendenze del mercato, non si può eludere. «Siamo a un punto in cui bisogna fare una riflessione sulla Street Art in sé perché — nata come arte illegale — ha oggi perso questa sua natura ed è come se, in un certo senso, avesse negato se stessa» osserva Sabina De Gregori, esperta dei linguaggi del contemporaneo e autrice di Shepard Fairey. In arte Obey e Banksy. Il terrorista dell’arte (Castelvecchi). «Sempre più istituzioni stanno investendo nella Street Art, che è ormai entrata nel sistema dell’arte contemporanea — aggiunge De Gregori — Sicuramente una fase è finita e bisogna vedere che forma prenderà ora questa corrente». Molti street artist, anche fra i più “puri”, vedono con favore, in realtà, l’apertura di musei e gallerie alle loro opere: «La collaborazione con i grossi brand mi sembra più una mercificazione dell’arte — afferma Lex — Ben venga, invece, il riconoscimento della Street Art nel circuito e nel mercato dell’arte contemporanea che è un modo più democratico di dare valore alle opere».

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