Togliatti – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 18 Aug 2019 07:15:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Memorie del Novecento. Storia dei «monfalconesi», comunisti delusi traghettati a Est https://www.micciacorta.it/2019/08/memorie-del-novecento-storia-dei-monfalconesi-comunisti-delusi-traghettati-a-est/ https://www.micciacorta.it/2019/08/memorie-del-novecento-storia-dei-monfalconesi-comunisti-delusi-traghettati-a-est/#respond Sun, 18 Aug 2019 07:15:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25611 Finirono in manette o deportati nell’isola prigione di Goli Otok perché sospettati di essere quinte colonne sovietiche, poi rimpatriati in Italia o espatriati in Cecoslovacchia. In rotta con il Pci di Togliatti dopo la svolta di Salerno e poi cacciati da Tito come stalinisti

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POLA. Quella dei cantieri navali dell’attuale Croazia è una storia che ci riguarda. Con il termine «monfalconesi» si fa genericamente riferimento ai circa 2.500 lavoratori italiani che tra il 1946 e il 1948 si trasferirono nella neonata Repubblica federale jugoslava a margine della sistemazione del confine orientale tra Italia e Jugoslavia, che avverrà definitivamente solo nel 1975, dopo un precedente memorandum temporaneo che risaliva al 1954. Quasi tutti questi «monfalconesi» erano lavoratori della Cantieri Riuniti dell’Adriatico (attuale Fincantieri), specializzati in cantieristica navale e provenienti dalle zone vicine al posto di lavoro, quindi non necessariamente dalla vicina Monfalcone, ma anche da altre zone. Il nome per identificarli però, nella vulgata popolare, restò quello per sempre. Molti di loro portarono con sé la famiglia, quasi tutti erano convintamente comunisti, delusi dalla svolta istituzionale del Pci di Palmiro Togliatti. Considerata la specializzazione della loro formazione, quasi tutti andarono a lavorare nei cantieri navali di Fiume (oggi Rijeka) e Pola (oggi Pula), allora ancora devastati dal conflitto bellico e tuttavia strategici nell’edificazione della Jugoslavia. Eppure l’idillio non durò a lungo: nel 1948 il maresciallo Tito rompe con Stalin e molti «cominformisti», come venivano chiamati gli ortodossi stalinisti, finiscono in manette o deportati nell’isola prigione di Goli Otok (in totale circa 40) in quanto sospettati di essere quinte colonne sovietiche. In alcuni casi in effetti intervennero pubblicamente in tal senso, come in quelli degli operai, tra cui spiccavano le personalità politiche del lombardo Alfredo Bonelli, del sardo Andrea Scano e del friulano Giovanni Pellizzari, tutti reduci dalle prigioni fasciste o dal confino, o anche dalle Brigate internazionali che avevano combattuto in Spagna – , che nell’aprile del 1949 distribuirono manifesti pro sovietici a Fiume. Alcuni vennero inviati a lavorare nelle miniere di Tuzla e Zenica, nell’attuale Bosnia-Erzegovina, altri ancora riuscirono a cavarsela, finendo poi per lo più rimpatriati in l’Italia o estradati verso la Cecoslovacchia. Ma nel sentire popolare è sempre rimasta e rimane tutt’ora l’eco di un’epopea che racconta di operai sopravvissuti al fascismo, con le cellule clandestine nei cantieri, che cantavano l’Internazionale mentre venivano tradotti a forza in miniera. **** Leggi anche:

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Croazia mon amour. A Pola, sulla costa istriana della Croazia, gli storici cantieri navali Uljanik si stagliano al tramonto come lo scheletro di un cetaceo spiaggiato. Dopo tante promesse e tentativi di salvataggio più o meno credibili, a ottobre saranno definitivamente chiusi. La rabbia degli operai, costretti a emigrare o a trasformarsi in camerieri.

* Fonte: Christian Elia, IL MANIFESTO

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Il Pci e la Primavera di Praga, tra incertezza e viltà https://www.micciacorta.it/2018/08/il-pci-e-la-primavera-di-praga-tra-incertezza-e-vilta/ https://www.micciacorta.it/2018/08/il-pci-e-la-primavera-di-praga-tra-incertezza-e-vilta/#respond Sun, 19 Aug 2018 10:29:31 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24778 La stagione infranta. Non fu una pagina gloriosa per i comunisti italiani quella del «nuovo corso» socialista in Cecoslovacchia

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I più avvertiti della crisi a Est erano stati Togliatti e Longo. Poi, caduto il Muro di Berlino, senza «elaborare il lutto», fu buttato a mare anche l’Ottobre Non fu una pagina gloriosa per il Pci quella della Cecoslovacchia. Il «nuovo corso» era l’estremo tentativo di uscita dalla rigidità del sistema condotto da un partito comunista ancora forte, sostenuto da una intellighentia impegnata e da una fiducia popolare esente dalle spinte anticomuniste che si erano infiammate nel 1956 nella rivolta ungherese. Il Pci lo capì e lo sostenne fino all’invasione: allora parlò di «tragico errore», ma non decise quello «stacco» che avrebbe compiuto a freddo molto più tardi. Né appoggiò l’opposizione a Gustav Husak; anzi gli esiti di Praga parvero suggerirgli somma prudenza sui fatti polacchi, dove nello stesso inverno del 1968 gli studenti avevano occupato le università – fu il solo grande movimento studentesco all’Est – e furono duramente repressi, cacciati i docenti più illustri, i Kolakovs ki, i Baczko, i Brus, e arrestati i giovani di Kuron, Modzelevski, Michnik con i primi gruppi di difesa operaia. Non capì, l’anno seguente, la prima rivolta dei cantieri che fece cadere Gomulka e avrebbe dato il segno di lotte operaie per tutto un decennio, non destinate in partenza a finire in braccio alla Chiesa. Ancora nel 1978, quando il manifesto convocò una discussione di due giorni degli esponenti di sinistra del dissenso, il Pci interdisse ai suoi quadri di partecipare al convegno, affidando un unico intervento, prudente, allo storico Rosario Villari. Lo strappo di Berlinguer sarebbe intervenuto dopo gli anni settanta, in presenza di dirigenze ormai irrecuperabili e opposizioni di segno politico opposto. A distanza i più lucidi sull’evoluzione dell’Est sembrano essere stati Togliatti e Longo, i soli due vecchi dell’Internazionale che ebbero nel Pci un ruolo determinante. Quattro anni prima, nel 1964, Togliatti aveva steso a Yalta, in attesa di incontrare Krusciov, un memoriale nel quale indicava l’aggravarsi dello stato di quelle società. Il documento – interessante anche per alcune correzioni visibili portate alla prima stesura – pareva scritto per argomentare l’opposizione del Pci alla conferenza internazionale di tutti i partiti comunisti che il Pcus voleva indire per condannare la Cina, e alla quale già Togliatti aveva esposto il parere negativo dei comunisti italiani. Il sugo del memoriale era: piaccia o non piaccia la linea cinese, ogni partito sceglie la sua «via al socialismo», non si può che discuterne l’uno con l’altro in modo ravvicinato e senza scomunica, e non sarebbe più urgente che vedeste i guasti nel campo dell’Est in Europa? Togliatti morì d’improvviso prima di incontrare Krusciov e Luigi Longo decise di pubblicare il memoriale. In Francia uscì su Le Monde. Il Pcus e il Pcf ne furono grandemente irritati, mentre chi all’Est scalpitava e ne ebbe conoscenza, vide con speranza quel passo degli italiani. Nel febbraio del 1965 ero a Praga (negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti bombardavano Hanoi e la Tass preferiva non darne notizia) e si percepiva l’insofferenza verso la leadership di Antonin Novotny. A gennaio del 1968 egli veniva sostituito senza furia né sangue, e la segreteria passava a un oscuro dirigente slovacco, Aleksander Dubcek. Cominciava il nuovo corso, e il Pci lo intese. Ma lo intesero anche Breznev, Gomulka e Ulbricht e ne temettero il dilagare. Solo due mesi dopo, a marzo, convocavano a Dresda un vertice del Patto di Varsavia, apparentemente su un diverso odg, che in realtà chiedeva a Dubcek di rendere conto della linea Pcc. Dubcek si difese e pensò di averli persuasi. Luigi Longo non si ingannava e ad aprile andò a Praga per una pubblica testimonianza di amicizia, gesto insolito, un avviso al Pcus. Il quale il 4 maggio riconvocava a Mosca Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Romania (che non venne), per affrontare esplicitamente la questione cecoslovacca. Si allarmò anche il Pcf, allora diretto da Waldeck Rochet, che corse a Mosca con Pajetta per sconsigliare qualsiasi intervento. Furono appena ascoltati. Il 14-15 luglio Urss, Polonia, Bulgaria, Rdt, Ungheria stendevano una requisitoria contro il Pcc in forma di lettera che rendevano pubblica: consegnate il paese alla controrivoluzione. E con il pretesto di normali manovre nel campo, truppe russe si mossero in Cecoslovacchia. Quindici giorni dopo, il 29 luglio, i dirigenti cecoslovacchi erano riconvocati a un incontro su un treno, alla frontiera, a Cierna Nad Tisu: era un ultimatum. Ma a Cierna Dubcek non cedette. Si sentiva, o credeva, appoggiato sul serio da diversi partiti comunisti, la Romania era reticente, l’Ungheria non entusiasta. Luigi Longo scrisse una lettera personale alla segreteria del Pcus, anch’essa insolita, non c’era tempo di convocare la direzione ma faceva sapere che, quale che fosse il parere degli altri, lui, Luigi Longo avrebbe condannato pubblicamente ogni atto militare. Forse gli archivi del Pci testimoniano di chi non era d’accordo con lui: ovviamente i filosovietici, di altri non so. Ma Amendola ebbe a dirmi, con l’abituale rudezza, che l’Urss era per il Pci quel che gli Stati Uniti erano per la Democrazia Cristiana, una carta importante nei rapporti di forza. Sta di fatto che l’Urss sembrò fermarsi. Il 3 agosto i cinque tornarono a riunirsi con Dubcek a Bratislava rinunciando alle minacce. Il giorno dopo le truppe russe lasciavano la Cecoslovacchia. Fu su una Praga tranquilla e stupefatta, che non sparò un colpo di fucile, che la notte tra il 20 e il 21 agosto piombarono i tanks sovietici. Il gruppo dirigente del nuovo corso veniva arrestato e portato a Mosca con il presidente Svoboda, Dubcek in manette. Del Pci, che aveva accolto Bratislava con sollievo, quella notte in segreteria a Roma era presente soltanto Alfredo Reichlin, che dovette tenere botta. Luigi Longo in vacanza di salute nell’Urss, lo seppe il mattino dopo da un comunicato che gli fu portato assieme alla colazione e al Pcus non lo perdonò mai. E che avrebbero detto Vietnam e Cuba, che parevano allora un terzo polo? La notte del 21 attendemmo con Karol fino alle tre la notizia dall’ambasciata cubana, che sperava in una condanna dell’intervento. La mattina dopo Reichlin mi chiamava alle sette: «Il tuo Fidel ha approvato con la formula: avanti non solo a Praga, ma anche ad Hanoi». Più di un compagno nient’affatto burocrate – ricordo Luigi Nono – si sentì rappresentato da quella che considerava una posizione di sinistra. Il nuovo corso aveva, sì, i consigli operai ma anche ideologi come Ota Sikh e Radovan Richta, aveva sì ottime intenzioni ma accennava a interloquire con Willy Brandt, e chissà come sarebbe andata a finire. La maggioranza della base del Pci, come il Psiup di Vecchietti, Valori, Foa, pensò che il socialismo era quello del campo sovietico, brutto ma meglio che niente, e che qualsiasi contestazione al Pcus avrebbe indebolito le forze al movimento operaio e comunista in Occidente. Lo stesso quel tanto del movimento studentesco – era l’estate nel 1968 – che se ne accorse. Nel Pci il modo con il quale era stato liquidato il 1956 e il silenzio che seguì al passo di Togliatti nel 1964, sempre nella speranza che l’Urss evolvesse in un più di democrazia senza troppi scossoni, giocò anche contro quella parte della dirigenza che di dubbi sulla natura del sistema sovietico non ne aveva più da un pezzo. A fine agosto il Comitato centrale condannava il «tragico errore». Non un tragico errore, intervenne Luigi Pintor, ma una coerente conseguenza della politica sovietica. Era la prima uscita secca di quello che sarebbe diventato il gruppo del manifesto. Non ricordo se si votasse, non mi pare, certo Pintor fu bacchettato. Fuori dalla porta Pajetta chiedeva uno per uno a coloro che entravano: ma Dubcek e Svoboda non hanno fatto bene ad affermare il compromesso? Che cosa pensi? Un anno dopo, nel settembre 1969, il manifesto mensile usciva con l’editoriale «Praga è sola» e cominciava il processo che avrebbe portato alla nostra radiazione a novembre. Berlinguer aveva cercato di evitarla, ma dopo quell’articolo ci si disse – il Pcus gli aveva chiesto di «onorare la cambiale». Non so quale; al XII Congresso, pochi mesi prima, mentre parlavo dell’invasione di Praga, la delegazione sovietica, diretta da Boris Ponomariov, s’era alzata ed uscita. Ma tre del manifesto, Pintor, Natoli ed io, fummo riammessi nel Comitato centrale: forse Berlinguer garantì a qualcuno che non avremmo fatto danni. Non approvò che uscisse la rivista ma non minacciò misure disciplinari; non nascose però il timore che qualsiasi presa di distanza da Mosca potesse dare spazio a una forte frazione filosovietica, come negli anni settanta fu quella di Lister in Spagna. Ma davanti a «Praga è sola» i Secchia, i Cossutta, e anche gli Amendola e i Terracini, trovarono che non eravamo tollerabili. Tanto più che il nostro tentativo di ripercorrere i sentieri del marxismo eretico – da Marx a Rosa Luxemburg a Korsch al primo Lukacs, che il 1968 non frequentò – si univa, spenta la prima ondata degli studenti, alla spinta che veniva dall’autunno caldo. Libertari e di sinistra, il Pci ci liquidò. Ma il danno maggiore lo faceva a se stesso. Non solo i vecchi ma gli allora quarantenni accettarono di partecipare alla conferenza internazionale alla quale avevano a lungo riluttato, Longo stava ormai male – e, ripetuta la critica al «tragico errore», nelle crescenti crisi dell’Est non misero più bocca. Le opposizioni di quei paesi non ebbero più nel Pci un riferimento. E il Pci stesso arrivava nel 1989 senza avere svincolato la propria storia da quella dell’Urss. Quando cadde il muro di Berlino, mancata ogni elaborazione del lutto, buttò a mare anche l’Ottobre e infilava una strada che neppure può dirsi socialdemocratica, lasciando aperti tutti gli interrogativi a una rifondazione, che neanch’essa s’è mai decisa ad affrontarli. * Dall’Archivio de il manifesto, inserto «Praga 68-98» del 21 agosto 1998 * Fonte: Rossana Rossanda, IL MANIFESTO photo: https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=798210

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La beata Leletta che sapeva usare il parabellum https://www.micciacorta.it/2015/03/la-beata-leletta-che-sapeva-usare-il-parabellum/ https://www.micciacorta.it/2015/03/la-beata-leletta-che-sapeva-usare-il-parabellum/#respond Tue, 24 Mar 2015 12:58:37 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19091 Giovanni De Luna ricostruisce una vicenda ambientata in un castello piemontese per ricordare cosa fu la lotta partigiana

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LA RESISTENZA arrivò nel castello insieme a “Barbato”, il comandante partigiano che aveva l’abitudine di tracciare per terra una linea. Pensaci bene prima di superarla, diceva ai più giovani, perché poi non si torna indietro. Il passo autorevole e i baffi imperiosi gli procurarono la stanza più bella del Palas, quella con il letto a baldacchino. I baroni Oreglia d’Isola — un’antica casata di fede cattolica — erano sideralmente lontani dal mondo comunista, ma non potevano negare l’accoglienza al più coraggioso dei resistenti, l’uomo che venti mesi più tardi avrebbe liberato Torino dalle brigate nere.
Un castello, dunque. Una grande tenuta di boschi, vigne e mulini a mezza strada tra Saluzzo e Pinerolo, a Villar, all’ombra del Montoso. E una sontuosa casa patrizia, ricca di libri antichi e di addobbi, pareti affrescate e ceramiche di pregio. Singolare cornice per l’epica resistenziale, quasi da sospettare che si tratti di una felice invenzione per celebrare il settantesimo della Liberazione. E invece è tutto vero. Sono vere la contessa Caterina e sua sorella Barbara che soccorrono i partigiani feriti nascondendoli nelle soffitte del maniero, e talvolta salgono su in montagna per recuperarne i corpi senza vita. Sono veri i combattenti delle brigate Garibaldi che alternano azioni di guerra con momenti di conversazione colta nei saloni del Palas. È vero il repubblichino Novena, con il suo carico di risentimento e inganno anche dentro le mura del castello. Ma soprattutto è vera la protagonista Leletta, la diciassettenne figlia della “Barona” e voce narrante della storia: è attraverso il suo sguardo che vediamo scorrere «la gloriosa epopea », venti mesi di guerra civile che significarono tragedia e sangue ma anche una «scuola di vita » per distinguere tra coraggio e viltà, amicizia e opportunismo, slancio ideale e grettezza.
L’antifascismo fu una reazione esistenziale prima ancora che una decisione politica matura. E il diario di Leletta restituisce con semplicità il significato di una scelta che accomunò aristocratici e comunisti, preti e mangiapreti, signori e contadini, monarchici e repubblicani. Anche per questo Giovanni De Luna ha voluto intitolare il suo bel libro La Resistenza perfetta: il Palas diventa simbolo di una storia che in tutti i modi si è cercato di delegittimare, ottenendo il risultato di sporcarne il senso comune soprattutto tra i più giovani.
La Resistenza come un pranzo di gala, impreziosito dagli argenti di casa Oreglia? No di certo. Anche dal castello si assiste alle efferatezze nelle file partigiane, Lucia e Caterina derubate e poi ammazzate su ordine del “Moretta” solo per un vago sospetto di collaborazionismo. Ma i dialoghi annotati da Leletta, e i numerosi diari consultati da De Luna, registrano un rapporto con la violenza che è subìto più che golosamente ricercato. Il mestiere delle armi, quando esercitato con esuberanza, suscita sperdimento, non fierezza. Le gesta di “Zama”, io partigiano che fece in quelle valli la prima vittima fascista, sono accolte con “orrore reverenziale”. E “Gagno”, audace comandante gappista, resta “di stucco” quando lo vede uccidere la prima volta. Anche il compagno “Balestrieri” confessa di provare «una sensazione di pena per me stesso» mentre mira alla testa del maggiore tedesco: preme il grilletto ma ne è travolto.
Altro spirito aleggia nelle file avversarie, un surplus di ferocia che cresce insieme al sentimento di sconfitta, riuscendo a penetrare tra le mura del castello. È dentro il cortile del Palas che nel febbraio del 1945 viene selvaggiamente picchiato il garibaldino “Lampo” per mano del camerata Novena. «Oh signor Novena come sta?», era stata la disinvolta accoglienza di Leletta quasi all’alba. Erano arrivati per perquisire la villa, sospettata di complicità con la Resistenza. E con loro s’erano portati “Lampo”, appena catturato in montagna. Volevano indurlo a confessare le relazioni pericolose con il barone e la sua fam iglia. «Non sono mai venuto nel castello», si ostina a negare lui. Pochi giorni dopo viene ammazzato, colpito al volto con un pugno di ferro, gli occhi estratti dalle orbite. A Novena sono stati attribuiti 195 omicidi, chissà se li ha commessi tutti. Una volta si divertì ad armare la mano del figlio tredicenne, «vai, dilettati anche tu».
Nulla sfugge a Leletta, che riferisce meticolosamente sul suo diario. Nel 1944 ha la freschezza dei 18 anni, curiosa degli uomini più delle ideologie. È affascinata da “Barbato”, nome di battaglia di Pompeo Colajanni, ma più per l’impegno generoso profuso nella battaglia che per le teorie arruffate. Coglie la differenza tra il suo «quartetto» di cavalieri rossi e quegli «imboscatucci» degli amici aristocratici, che invece di combattere cercano riparo nella zona franca dell’Ordine di Malta. Impara a sparare anche lei, insie- me al fratello Aimaro, «incauti e contenti». Perché le armi sono una necessità, e non se ne può fare a meno, ricorda lo storico in polemica con quella sorta di «interdetto culturale» che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti (i partigiani ingiustamente assimilati ai terroristi)). Non diventa mai comunista Leletta, né può diventarlo. Però conserva la stella rossa del suo comandante perché intuisce l’energia vitale che scorre in quelle fila. «Ah, dottoressa Aurelia, se avessi vent’anni di meno », scherza il partigiano con galanteria. In realtà ha solo 38 anni, troppi per quell’epoca.
L’aristocratica e il comunista. Nel dopoguerra assisteranno al lento disfarsi di quella rete di affetti e solidarietà intessuta dentro il castello. Ciascuno riprende il suo posto in un mondo che non ha tagliato completamente i ponti con il passato. I fascisti tornano in libertà grazie a Togliatti, con motivazioni spesso raccapriccianti: giocare a calci con la testa del partigiano appeso viene considerato un “incidente”, non una sevizia efferata. Anche per Novena solo dieci anni di galera, poi una vita da benzinaio a Velletri. Colajanni assume importanti incarichi politici nelle file del Pci, come qualche altro suo compagno di brigata. E Leletta? Segue la sua vocazione religiosa. Nel 1947 entra in convento come suor Consolata, poi diventa terziaria domenicana. Per il resto della sua vita non farà che ascoltare gli altri, come in fondo aveva fatto dentro il Palas. Muore nel 1993, sei anni dopo “Barbato”. Nel 2012 si è aperta la causa per la sua beatificazione. La beata Leletta che sapeva usare il parabellum.
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IL LIBRO
La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna (Feltrinelli, pagg. 256 euro 18)

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