Zygmunt Bauman – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 10 Jan 2017 08:47:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Zygmunt Bauman. Il pensiero errante nel flusso sociale https://www.micciacorta.it/2017/01/22850/ https://www.micciacorta.it/2017/01/22850/#respond Tue, 10 Jan 2017 08:40:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22850 Addio. È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman

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Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento. Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda. OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra. E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute. Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera. FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli. È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito. Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi. TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni. CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008. SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato. È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo. BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno. SEGUI SUL MANIFESTO

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Bauman: “Io, sempre straniero l’unico giudice è la mia coscienza” https://www.micciacorta.it/2015/11/bauman-io-sempre-straniero-lunico-giudice-e-la-mia-coscienza/ https://www.micciacorta.it/2015/11/bauman-io-sempre-straniero-lunico-giudice-e-la-mia-coscienza/#respond Wed, 18 Nov 2015 11:45:43 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20868 Il grande sociologo della modernità liquida Bauman domani compie 90 anni. Racconta la sua storia e guarda il mondo “È un campo minato”

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Capita di rado, e quando succede è indice di una straordinaria lucidità del protagonista, che un testimone di un’epoca particolarmente difficile e con forti tratti di tragicità ne sia anche uno dei più perspicaci e critici interpreti. Ma è questo: capire e spiegare l’ultimo secolo della modernità, dalla tentazione di rendere il mondo solido, univoco, privo di ogni ambiguità (e si vedano i fascismi e il comunismo) fino all’approdo a un universo sociale liquido e frammentario, con il corollario del terrorismo; il ruolo che si è dato Zygmunt Bauman; lui stesso ebreo, vittima del nazismo, comunista e poi anticomunista espulso nel 1968 dal suo paese natio. Il sociologo polacco, oggi di casa in
Inghilterra, a Leeds, una modesta dimora da professore universitario – e dove lui si occupa delle faccende domestiche, cucina, stira, pulisce – domani compie i 90 anni. E, più che un’occasione per trarre il bilancio di una vita, questa conversazione serve a ribadire il duplice ruolo, del pensatore tra i più influenti nel mondo e nel contempo dell’oggetto del proprio studio. Dice Bauman: «Talvolta più che un ornitologo, mi sento un uccello». La conversazione non può che cominciare con l’attualità, Parigi e la guerra in casa: «È come se vivessimo in un campo minato, sappiamo che le esplosioni continueranno, ma non sappiamo dove e quando ci sarà la prossima. La quantità di armi in circolazione (anche grazie ai nostri governi) è tale che pochi kamikaze sono in grado di provocare una catena di azioni e reazioni di conseguenze incalcolabili. E poi, i problemi da affrontare sono globali, ma ne fanno fronte le autorità locali, incapaci di arrivare alle radici del male. Tentare di affrontare problemi globali con mezzi locali è infatti come cercare di rimettere il dentifricio nel tubetto. Finisce che soffre la democrazia, la gente matura la convinzione che occorra rinunciare alle libertà conquistate a caro prezzo, in nome della (presunta) sicurezza. Si crea un circolo vizioso che vede agire di concerto gli xenofobi locali e i terroristi globali».
Insomma, a 90 anni, tocca a Bauman assistere al disfarsi di un altro mondo ancora. È nato a Poznan, il 19 novembre 1925. La Polonia indipendente esisteva da appena sette anni, e non era un Paese dove le minoranze nazionali avevano una vita facile. Poznan poi, era la roccaforte della destra antisemita che esaltava una patria per i soli cattolici. Racconta Bauman: «A scuola, durante gli intervalli, non uscivo nel cortile. Era l’unico modo per evitare i calci e le botte degli altri. Amavo i libri. E andavo spesso in una libreria. Ma non avevo soldi».
L’impresa commerciale di suo padre fallì, causa crisi.
«Sì, fu una vicenda durissima. Un giorno in quel negozio vidi un cartello: “locale cristiano”. E accanto un altro: “compra dal polacco” (significa non comprare dagli ebrei, ndr). Frequentavo anche una biblioteca pubblica, finché vidi sullo scaffale la rivista Alla gogna. Non ci tornai più».
“Alla gogna” era una delle più volgari riviste antisemite mai esistite. Nel 1939 Hitler invade la Polonia. Lei, appena 14enne, scappa in Urss, diventa piccolo comunista e si arruola nell’esercito polacco che combatte a fianco dell’Armata rossa.
«Nel ginnasio sovietico posso finalmente correre sul campo dietro al pallone (e tuttora sono un tifoso: di squadre perdenti): nessuno mi dice che devo andarmene in Madagascar o in Palestina e, quando confesso il mio amore per le lettere polacche, nessuno mi ricorda che sono un ebreo e quindi non devo usurpare una cultura non mia. Il mio essere polacco è sempre risultato sospetto, come se l’appartenenza alla Polonia l’avessi rubata senza averne il diritto e così fino a oggi. Ma possiamo parlare anche delle mie idee e non solo della biografia?».
Nel 1968, in seguito alle manifestazioni degli studenti, lei, allora professore all’Università di Varsavia viene dichiarato il nemico pubblico numero uno, sia in quanto deviazionista, sia in quanto sionista (e cioè ebreo). Fino a metà degli anni Sessanta però lei è stato comunista ed è stata un’esperienza fondamentale. Cosa era il comunismo?
«Il comunismo non è nato per miracolo né è caduto dal cielo, non è un prodotto dell’inferno. Segna invece una continuità con la storia. È uno dei risultati della riflessione filosofica, manifestatasi dopo il terremoto di Lisbona del 1755, che ha come scopo abbandonare l’atteggiamento da “guardaboschi” nei confronti del mondo a favore invece di una posizione da “giardiniere”. Il giardiniere sistema il mondo; sceglie le piante giuste, estirpa quelle nocive. Il comunismo non è un’utopia romantica, ma è figlio del secolo dei Lumi, di Voltaire e Diderot. E ha qualcosa di messianico. Trotzky si considerava forse come un messia degli ebrei, forse come una specie di Cristo, forse pensava al secondo Avvento».
E poi?
«Infine, il comunismo è una tecnica di conquista del potere, tecnica golpista, tecnica che permette di ignorare i risultati delle elezioni, e che tende alla totale manipolazione delle coscienze e del linguaggio».
E con questa risposta ha spiegato anche perché a un certo punto smise di essere comunista. Ma l’adesione a cosa era dovuta?
«Camus disse che la particolarità del Novecento stava nel fatto di causare il Male in nome del Bene. C’era il fascino del nuovo inizio, che a sua volta si basava sulla repulsione per il vecchio mondo. Nell’adesione al comunismo c’è molto del socialdemocratico Bernstein e di Walter Benjamin con il suo Angelo della storia. Il bolscevismo è stato una specie di Partito dell’azione. E, per quanto mi riguarda, ero un giovane soldato decorato con una medaglia al valore militare per aver partecipato alle cruenti battaglie di Kolberg e di Berlino. Non ero un intellettuale. Volevo che il mio povero e infelice Paese cambiasse».
Seguono gli anni del potere comunista. Lei diventa un sociologo importante, poi un dissidente; infine, espulso, va in Israele ma vi rimane pochissimo...
«Non volevo scambiare il nazionalismo polacco di cui sono stato una vittima, per il nazionalismo israeliano».
La sua non è una biografia comune...
«Non esistono biografie comuni. Ogni uomo è un mondo a sé, irripetibile».
Sarà, ma la sua, è una biografia molto ebraica. Ha vissuto in Polonia, Israele, Inghilterra. Ovunque è rimasto straniero.
«Un comico inglese diceva che l’ebreo è un uomo che in ogni luogo è fuori luogo. Sì, sono nato straniero e morirò straniero. E sono innamorato di questa mia condizione. Con mia moglie Janina, scomparsa quasi cinque anni fa, eravamo uniti in tutto, ma una cosa non l’ho condivisa con lei: ha scritto Il sogno di appartenenza, un libro in cui esprimeva il suo bisogno di appartenere. Io ne faccio a meno. Nell’essere “straniero” ci sono alcuni privilegi. Il più grande di questi è potersene infischiare dell’opinione pubblica. L’unico tribunale è quello della propria coscienza ed è il più severo di tutti».
Come le è venuta l’idea della modernità liquida?
«Fin da bambino sono stato affascinato dalla fisica. Poi sono diventato un sociologo e non un astronomo come sognavo. L’idea della modernità liquida mi è venuta leggendo il fondamentale libro di Ilya Prigogine, Nobel per la fisica, The End of Certainty.
Prigogine parlava della debolezza dei legami tra le molecole dei liquidi contrapposta alla forza di questi legami nei corpi solidi ».

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Sulle tracce della postdemocrazia L’ultima scommessa di Bauman https://www.micciacorta.it/2015/02/sulle-tracce-della-postdemocrazia-lultima-scommessa-di-bauman/ https://www.micciacorta.it/2015/02/sulle-tracce-della-postdemocrazia-lultima-scommessa-di-bauman/#respond Wed, 25 Feb 2015 09:20:53 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18746 Assai puntuale, e immune da ogni indebita sacralizzazione, la decostruzione delle trasformazioni subìte dalla nozione di democrazia

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Il libro di Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni Stato di crisi (Einaudi) merita indubbiamente una particolare attenzione, per una pluralità di motivi diversi. Per la formula, anzitutto. Un «colloquio» fra due studiosi, fra loro in sintonia su molti aspetti, ma anche talora dissonanti, e non su punti di secondaria importanza. Col risultato di immergere il lettore in un dialogo autentico e intellettualmente vivace, proteso all’approfondimento di questioni di grande importanza, senza alcuna concessione alla vuota ritualità del confronto accademico. Notevole è poi la scelta di uno stile improntato ad una limpidezza davvero esemplare. Pur affrontando temi di rilevante complessità, gli autori riescono ad evitare la Scilla del tecnicismo impenetrabile, senza essere risucchiati nella Cariddi delle banalizzazioni giornalistiche.
Infine, esercita una forte suggestione anche il disegno complessivo del testo, poiché delinea un percorso che conduce gradualmente dalla lucida presa d’atto di una condizione generalizzata di crisi — dello Stato, della modernità, della democrazia — fino alla prospettazione di un «nuovo ordine globale», come suona il titolo del paragrafo conclusivo. A tutto ciò si aggiunga un rilievo, che potrà apparire (e forse può anche essere effettivamente) marginale, ma che tuttavia non può essere taciuto. Il nome di Zygmunt Bauman è diventato famoso, ben al di là dei limiti della comunità scientifica, per l’accostamento alla principale «scoperta» a lui abitualmente attribuita, compendiata nell’aggettivo «liquida», col quale in un fortunato libro uscito in inglese nel 2000 ( Modernità liquida , Laterza) il sociologo polacco alludeva alla società odierna. Come spesso accade (il che non significa che debba obbligatoriamente continuare a verificarsi), quell’espressione, originariamente coniata per indicare le caratteristiche di una società le cui strutture si scompongono e ricompongono rapidamente e in maniera fluida e volatile, si è trasformata in uno slogan orecchiabile, applicabile alle realtà più diverse — dalla politica alla filosofia, fino allo sport e alla cucina. Con effetti caricaturali, e talora irresistibilmente comici, facilmente immaginabili. E con la conseguenza, molto meno divertente, di inchiodare lo stesso Bauman alla vacua ripetitività di una formuletta. Questo nuovo testo rende giustizia ad uno studioso le cui tesi, come quelle di qualunque altro, sono certamente criticabili e forse in parte inaccettabili, ma che tuttavia non può essere ridotto al raggio angusto di un aggettivo di successo. Ciò detto e doverosamente riconosciuto, si deve anche notare che il libro mantiene solo in parte le impegnative promesse formulate nella prefazione, soprattutto per quanto riguarda la prospettazione di quella che viene definita come «postdemocrazia». Assai puntuale, e immune da ogni indebita sacralizzazione, la decostruzione delle trasformazioni subìte dalla nozione di democrazia, fra Pericle e Alexis de Tocqueville (per indicare «estremi» non solo in senso cronologico). Pienamente condivisibile anche il giudizio complessivo, ricalcato sulla troppo spesso dimenticata affermazione di Jean-Jacques Rousseau (che pure è stato uno dei «padri» della democrazia moderna): «Secondo il preciso significato della parola si può dire che non è mai esistita una democrazia, e non esisterà mai». Dichiarazione — questa — che potrebbe essere altresì accompagnata da un autore trascurato da Bauman e Bordoni, vale a dire Platone, il quale rileva che, più che una vera e propria forma di governo, la democrazia è «un supermercato delle costituzioni», in cui sono esposte disordinatamente tutte le forme di governo. Il punto vero, tuttavia, sempre sintomaticamente eluso dai detrattori della democrazia, e non risolto da Bauman e Bordoni, è un altro, e riguarda appunto la delineazione di una possibile alternativa. Restituendo al termine «crisi» — costantemente ricorrente nel testo — la sua originaria accezione medica, si potrebbe dire che gli autori sembrano orientati semplicemente a prendere atto del decesso del paziente chiamato democrazia. Una certificazione di morte che potrebbe forse essere evitata, se si applicasse alla nozione di democrazia ciò che un famoso penalista replicò a chi gli faceva notare la totale infondatezza della nozione di pena. E si potrebbe dunque concludere che sì — è vero — la democrazia fa acqua da tutte le parti. Ma, almeno finora, in oltre tremila anni di civiltà occidentale, nessuno (neppure Bauman e Bordoni) è riuscito ad inventare nulla di meglio.

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