Beni comuni

Nella minaccia di sfratto alla Casa Internazionale delle Donne di Roma si gioca una partita molto seria che rinvia a più grandi e generali ideali che riguarda a pieno titolo il senso della città, il senso del vivere insieme, la democrazia.

L’amministrazione vorrebbe applicare, ai tanti e diversi immobili occupati a Roma, una tecnica nota con il nome di “Analisi Costi e Benefici”. Quanto costa l’occupazione di un immobile pubblico in termini di mancato introito per le casse comunali? Sull’altro piatto della bilancia ci sono i benefici (collettivi) che derivano da questa occupazione. Ora mentre i costi sono oggettivamente quantificabili (per esempio, in denaro), i benefici sono soggetti ad interpretazioni politiche, sociali e di altro genere e i cui effetti si misurano in tempi lunghi.

Se per esempio assumiamo l’espressione « con la cultura non si mangia», la conseguenza, in termini di Costi e Benefici sarà semplice: non ci sono benefici collettivi a fronte del mancato reddito. Se, all’opposto, l’occupazione produce eventi culturali, manifestazioni collettive, cultura, musica, ovvero benessere sociale, convivialità, felicità collettiva, e queste cose sono considerate essenziali per la vita pubblica di una città, ecco che il risultato è completamente rovesciato e i costi (sotto forma di mancato reddito) sono irrilevanti rispetto al valore d’uso prodotto.

Fin qui nulla di nuovo. Ma l’apparente neutralità di una amministrazione comunale che si trincera dietro il mancato guadagno che da quegli immobili potrebbe venire (cosa tutt’altro che scontata, vedi il caso delle sale cinematografiche chiuse), in realtà svela come la città è considerata essa stessa una merce.

A partire da queste premesse è ovvio che il confronto tra amministratori della cosa pubblica e “occupanti” (a vario titolo) risulta un dialogo tra sordi.

Già molti anni fa (1968) Lefebvre nel suo famoso libro, Il diritto alla città, affermava che i processi produttivi capitalistici trasformano l’opera umana (valore d’uso) in prodotto di serie, in mera merce (valore di scambio). E’ quello che chiamiamo processo di mercificazione, in cui prevalgono le logiche di mercato (F. Biagi, Spazio e politica). Le città finiscono allora per essere trasformate in smart cities, città globali, hub cities. Questo processo impoverisce la vita pubblica e le manifestazioni del vivere collettivo, così che molte persone si ribellano a tale logica formando comunità spontanee che preferiscono vivere in luoghi sottratti alla detta mercificazione per creare ambienti di vita autentica.

La conseguente riduzione dello spazio pubblico ne è il risultato: le mostre, le manifestazioni artistiche e persino le feste, sono sempre più confinate in luoghi non facilmente accessibili alle persone (e in special modo ai più deboli) e la città, originariamente opera pubblica e collettiva, diventa sempre più privata mentre, al contrario, è resa “attraente” dalle archistar, dalle grandi opere e dagli eventi spettacolari. L’esatto opposto dell’esperimento realizzato da Nicolini nella famosa Estate Romana, che aveva trasformato la città in un luogo di festa accessibile a chiunque volesse partecipare.

Ecco che l’ideale di Lefebvre, il diritto alla città, riacquista un valore attuale: di trasformazione e riappropriazione dello spazio di vita fruibile a tutti, ideale che si contrappone chiaramente a quello della mercificazione. E’ questo lo sguardo con il quale si deve guardare alla Casa Internazionale delle Donne (e non solo) che nel tempo ha liberato uno spazio per discutere, incontrare, produrre convivenza, convivialità, socialità, come ben sa chi si è affacciato anche una sola volta in quell’edificio sottratto alla speculazione del mercato da oltre trent’anni.

La logica miope e ragionieristica degli amministratori è penetrata anche nelle scuole, nelle università, nei trasporti, nella sanità. Ci sono servizi e istituzioni che “costano troppo e non ci possiamo permettere” è il mantra del nuovo linguaggio liberista. Ma il gioco non è a somma zero: sul piatto della bilancia c’è la felicità e il benessere delle persone e il senso di città. Infine, l’istanza legalitaria di cui si fanno vanto i cinquestelle e la sindaca Raggi ha prodotto fino ad ora il degrado dei manufatti occupati e “liberati”, così come dimostrano i tanti cinema chiusi a Roma in attesa di bando pubblico.

FONTE: Enzo Scandurra, IL MANIFESTO

NAPOLI «Comunità che discutono le forme di autonormazione civica degli spazi che quotidianamente fanno vivere, questo per noi è neomunicipalismo»: Giuseppe Micciarelli è avvocato, partecipa ai tavoli di Massa Critica e altre realtà di movimento di Napoli che studiano percorsi giuridici per la definizione e l’utilizzo dei beni comuni. Un lavoro in parte condiviso con l’amministrazione che ha portato, il primo giugno, all’approvazione della delibera di giunta 446, con cui si riconoscono sette edifici in città come «spazi per loro stessa vocazione divenuti di uso civico e collettivo». Lunedì scorso Mara Carfagna, eletta in consiglio comunale con Forza Italia, ha contestato la delibera nel suo primo discorso tra gli scranni dell’opposizione. Stessa musica dal Pd con Valeria Valente, anche lei eletta in consiglio comunale, che ha dichiarato: «Ancora una mossa maldestra. Non sarebbe giunta l’ora di avviare la vendita e messa a reddito del patrimonio immobiliare comunale annunciato dal sindaco già cinque anni fa?».

Nel 2011 la prima amministrazione de Magistris (nella foto) ereditò un comune con i conti disastrati con conseguente adesione al predissesto. La ricetta proposta da tutti i governi per risanare le casse dei comuni è la vendita del patrimonio pubblico. A Napoli si sta provando a restituirne una parte alle comunità. I sette edifici a cui fa riferimento la delibera 446 sono pezzi di storia: a Bagnoli ci sono Villa Medusa, frequentatissima dagli anziani del quartiere, e lo storico Lido Pola; a Materdei l’ex Convento delle Teresiane convertito dagli occupanti in Giardino Liberato e l’ex Monastero di Sant’Eframo trasformato a fine Ottocento in un Opg e adesso restituito al quartiere con la sigla Je so’ pazzo; tra Materdei e il Vomero c’è l’ex scuola media Schipa occupata da precari e famiglie in emergenza abitativa; al centro storico l’ex Conservatorio di Santa Maria della Fede tornato alle attività artistiche come Santa Fede Liberata e l’ex Convento delle Cappuccinelle trasformato poi nel carcere Filangieri (uno dei due minorili, insieme a Nisida, per cui si battè Eduardo De Filippo quando divenne senatore a vita) abbandonato per anni e trasformato adesso in Scugnizzo liberato.

«Nel 2012 una comunità di artisti e tecnici occupò l’Asilo Filangieri – spiega Micciarelli -, a Roma c’era un percorso simile al Teatro Valle. Noi però rifiutammo di imboccare la strada della fondazione. Giuristi, filosofi, tecnici e attivisti hanno lavorato sul concetto di autogoverno attraverso un regolamento d’uso».

A maggio 2012 ci fu la prima delibera di giunta che riconosceva l’esperienza dell’Asilo mentre la proprietà, con i relativi oneri ordinari e straordinari, rimaneva al comune. Da allora si sono susseguite altre delibere sull’Asilo e sulla regolamentazione dei beni comuni nel 2013, 2014 e 2015 in un percorso di continuo sviluppo della giurisprudenza in materia.

«Il nodo da sciogliere era lo strumento della cessione per assegnazione – continua Micciarelli -. Il pubblico cede un pezzo di patrimonio, l’assegnatario per sostenerne i costi finisce per metterlo a reddito sottraendolo così alla collettività per un interesse privato. Il meccanismo si interrompe se i beni sono amministrati in forma diretta da comunità di riferimento, in assenza di lucro, per il soddisfacimento di diritti fondamentali. L’uso civico e collettivo urbano non è uso esclusivo, è aperto a chi ne condivide il regolamento». Al pubblico restano la proprietà e gli oneri di gestione ma le comunità si impegnano con il loro lavoro a tenere gli spazi vivi e aperti, li attrezzano e svolgono attività documentate (artistiche ma anche per i minori, sportelli per precari e lavoratori, ambulatori popolari…).
«Il primo provvedimento in materia è del 2011 e modifica lo statuto comunale con l’introduzione della categoria di bene comune – spiega l’assessore alle Politiche urbane, Carmine Piscopo -. Con la delibera di giugno i beni del patrimonio storico artistico, che hanno conservato il carattere monumentale, vengono preservati perché costituiscono reddito sociale per le prossime generazioni. Attiveremo un processo di ascolto e monitoraggio del territorio per sviluppare gli usi collettivi in forma aperta».

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