Movimenti

Dall’inizio nel movimento, condannata, detenuta, prof: «La mia Val di Susa tradita è terra di lotte. In carcere mai stata sola: lì nessuno è potente, ci si unisce per umanità come nei nostri presìdi»

 

Nicoletta Dosio, la sua storia e quella del movimento No Tav è ispirazione per tantissime persone che si considerano di sinistra. Lei a questa parola oggi quale significato dà?
Una parola che uso sempre meno volentieri perché la ritengo vittima del male transgenico dell’opportunismo, metafora di rovinose ipocrisie che ne hanno annullato il significato originario: quello dell’opposizione al sistema, che entrava nel palazzo del potere per portare le voci degli ultimi e scardinare le blindature. Io continuo ad essere affezionata a quella sua antica valenza che ben rappresentava la visione del mondo dei miei vecchi, in parte comunisti e in parte socialisti e comunque rivoluzionari. Ormai dire sinistra significa dire poco, a volte addirittura diventa un equivoco; io continuo a dire lotta, rivoluzione nel senso di cambiamento radicale della società e del rapporto con la natura e con il mondo. Purtroppo la cosiddetta sinistra ha smarrito quello che poteva significare nel tempo e l’abbiamo visto sulla nostra pelle, nel momento in cui in Parlamento e al governo è entrato chi si diceva di sinistra, ma ha cominciato a fare politiche di destra. Un esempio? Da destra a sinistra c’ è un voto unanime per le politiche di guerra, le privatizzazioni, per le le grandi male opere di cui il Tav è elemento emblematico. Sono politiche guerrafondaie infarcite di slogan che dicono “libertà” e “democrazia” per praticare l’opposto. Ma non sono le parole che contano, contano i fatti. Io quei fatti li vedo in una lotta che riparte dal basso, senza deleghe, senza mediazioni né volontà di compromessi. La cattiva politica crea disaffezione alla politica, alla partecipazione popolare. E’ sulla sfiducia di un popolo tradito e disorientato che avanzano qualunquismo e fascismo.

Tu hai sempre vissuto in Val di Susa. Cosa connota questa valle e cosa l’ha portata a una lotta così lunga – siamo a 32 anni – senza mai scendere a compromessi?
Sono nata nella parte bassa della valle, quasi nella cintura torinese, ad Alpignano, e la mia famiglia è “meticcia”: papà piemontese e mamma emiliana, di Reggio Emilia, emigrata a 16 anni in Piemonte per trovare lavoro alla fabbrica Philips delle lampadine. Era la maggiore di cinque fratelli, una famiglia poverissima e perseguitata in quanto mio nonno era un comunista che si rifiutò sempre di prendere la tessera del Fascio. Era un povero contadino e lavorava quando qualcuno gli dava lavoro, precariamente e sempre a rischio di essere arrestato (in occasione di ricorrenze del regime scattavano immancabilmente anche per lui gli arresti preventivi). Quindi provengo da una lunga storia di resistenza. Mio padre era invece di famiglia valsusina, operaia, di tradizioni socialiste e libertarie. Questa è l’esperienza, la ricchezza umana e culturale, l’eredità preziosa che mi ha sostenuta ed orientata sempre, soprattutto nei momenti cruciali della vita. Ho poi studiato e iniziato a insegnare. Il primo posto di ruolo è stato il liceo classico di Susa, dove ho trovato come allievi, accanto ai figli della borghesia segusina, i figli dei ferrovieri di Bussoleno e della Valle . Erano i primi anni ‘70, un crogiolo di esperienze e di storie, tante storie. Anche la scuola partecipava di quell’ansia di cambiamento, nell’esigenza di una cultura che fosse davvero di tutti e per tutti. Volevamo una scuola “pubblica, democratica e formativa”. Per “ la riforma della scuola” abbiamo fatto negli anni un mucchio di scioperi e tutte le volte ci accorgevamo che era una controriforma sempre più totale. Una frana iniziata dai primi anni ‘80, in cui, anche per i cedimenti della cosiddetta sinistra, riprese il sopravvento il sistema, si chiusero i sogni e per qualcuno si aprirono le prigioni. La scuola ha rappresentato la parte più importante della mia vita, ho amato i miei allievi, da loro ho imparato tanto e ho cercato di dare al meglio delle mie possibilità. Con molti di loro continua l’amicizia. Uno dei miei allievi è pure il mio avvocato, Emanuele D’Amico. Sono venuta poi ad abitare stabilmente a Bussoleno nel ’79 , dopo cinque anni da pendolare. Fu proprio il vostro quotidiano, il manifesto, l’occasione che mi mise in contatto con i compagni ai quali ancor oggi sono legata politicamente e umanamente. Viaggiavo in treno e al mattino compravo, all’edicola della stazione di Alpignano, il manifesto (allora ancora in formato “Ordine nuovo”, quindi di dimensioni tali da non passare inosservato). A notarlo fu Gigi, un compagno di Lotta Continua, ferroviere, che prestava servizio sulla tratta Torino-Bardonecchia. Facemmo amicizia, lui mi invitò ad un’assemblea. Così conobbi altri militanti, uno dei quali, Silvano, divenne poi il mio compagno di vita (anche per lui gli albori dell’impegno politico incrociano il manifesto: le storie dei comunisti eretici, della primavera di Praga, di Cuba e dei paesi cosiddetti non allineati riportate dal quotidiano venivano lette e commentate collettivamente, poi incollate sui muri di Bussoleno con una colla casalinga fatta di acqua e farina). Qui in Valle, la lotta è sempre stata una resistenza di popolo, concreta, condivisa dalle famiglie. Resistenza operaia e contadina, antifascista: nella famiglia stessa di Silvano il padre e tutti i figli erano partigiani e la loro casa di montanari era diventato un punto clandestino di incontro tra i giovani combattenti e le famiglie. Fin dai primi anni sessanta In valle iniziarono le lotte operaie contro i licenziamenti e la delocalizzazione del lavoro. A fine anni settanta la ristrutturazione capitalistica allargò all’ambiente le proprie mire di profitto, così il conflitto sociale divenne anche conflitto ambientale. La prima fu l’opposizione alla costruzione dell’autostrada: in una valle che nel punto più largo è di tre chilometri esistevano già due strade statali, due intercomunali e, unica presenza naturale, la Dora Riparia. Proprio lungo la parte centrale della Valle e quasi totalmente sul fiume fu costruita la famosa autostrada Torino-Bardonecchia ora di proprietà Gavio. Ci opponemmo, per ragioni ambientali, economiche e sociali: compagni di Democrazia Proletaria, qualche ambientalista che si sentiva allo stretto nelle pastoie delle grandi associazioni ambientaliste. Furono proprio le grandi associazioni ambientaliste, con le loro strutture fuori-Valle, autodelegandosi al ruolo di “rappresentanti degli interessi diffusi”, a sedersi ai tavoli dei palazzi torinesi per trattare con i proponenti l’opera. Il tema del confronto non fu “se fare l’opera”, ma “come farla”. Per cui abbiamo avuto lo smacco di vedere come risultato la prima devastazione della Valle che ha portato alla morte, per esempio di tutta l’orticoltura e la frutticotura della Bassa Valle. Il traforo autostradale del Frejus è stato inaugurato nell’80. Successivamente fu costruita l’autostrada con i cantieri che, partendo dalle due estremità, occuparono in una decina d’anni tutta la valle. Bussoleno fu l’ultimo punto d’attacco: insieme agli abitanti della zona investita dall’opera avevamo messo in piedi un comitato spontaneo che cercò di bloccare il progetto opponendosi agli espropri dei terreni. La situazione si fece presto invivibile, perché Il paese fu investito dal nuovo traffico pesante, proveniente dai due tronconi già realizzati e messi prontamente in esercizio. Alla fine fummo perdenti, anche se con una mitigazione: la struttura che avrebbe dovuto tagliare in due l’abitato fu realizzata in tunnel dentro la montagna. Magra consolazione e non senza danni: gli scavi tagliarono le falde acquifere che alimentavano la frazione di Santa Petronilla. E ci fu un operaio morto sul lavoro, un minatore, travolto da un mezzo, a causa dei ritmi di lavoro, non rispondenti ad esigenze di sicurezza ma alla fretta di concludere l’opera. A fine anni ‘80 si annunciò un nuovo progetto devastante: il megaelettrodotto a 380 volt, Grand Ile-Moncenisio-Piossasco. L’infrastruttura era destinata a portare in Italia, attraverso la vallata della Maurienne e la Valle di Susa, l’energia prodotta dalla centrale nucleare francese Superphenix. Il nucleare cacciato dall’Italia dal referendum popolare sarebbe così rientrato dalla finestra attraverso i suoi prodotti, perpetuando un modo di produzione inaccettabile. Anche l’impatto ambientale si annunciava disastroso: l’infrastruttura avrebbe dovuto affiancare, a poche decine di metri, l’analogo elettrodotto già esistente, aumentando in modo esponenziale il rischio idrogeologico della zona e i pericoli per la salute, legati ai campi elettromagnetici. Decidemmo di opporci e questa volta non accettammo più alcuna mediazione dei “Rappresentanti di interessi diffusi”, ma favorimmo la nascita dei comitati popolari, Comune per Comune, su entrambi i versanti italiano e francese, nelle zone investite dal progetto . Fu una mossa vincente: niente elettrodotto. Per una volta avevano vinto le ragioni della salute e dell’ambiente. Avevamo appena superato una prova quando se ne presentò un’altra: il progetto Tav. Con lo slogan “Lo vuole l’Europa”, la Valle di Susa si trovò per l’ennesima volta ingabbiata in una prospettiva infrastrutturale devastante: il “Corridoio ferroviario ad Alta Velocità Lisbona-Kiev”. Quei primi anni ‘90, con la nascita dell’ Europa di Maastricht e la caduta del Muro di Berlino, furono cruciali. La fine della “guerra fredda” aveva rimesso in campo la “guerra calda”, questa volta a senso unico. Iraq, Somalia, Libia, Jugoslavia, Afghanistan: territori da destabilizzare e da conquistare in nome del capitale; e l’Italia tra gli aggressori, in prima fila, a fianco della Nato. Fu allora che nel nostro paese partì la corsa alle privatizzazioni. A farne le spese furono anche le Ferrovie dello Stato. Mentre si smantellavano come “rami secchi” tratte ferroviarie valutate socialmente utili ma non economicamente remunerative e venivano chiuse stazioni, officine e poli ferroviari, comparvero sul territorio nazionale i progetti Tav, il treno superveloce, costosissimo, socialmente discriminante, altamente devastante per i territori e lauto affare per i costruttori. In Valle ripartì la resistenza. Il metodo della lotta popolare si era rivelato quello giusto, così, quando si è presentatala la questione dell’alta velocità l’abbiamo nuovamente messo in pratica mobilitando le persone e i territori in modo capillare, senza imporre strategie dall’alto, ma organizzando nella pratica, collettivamente e di momento in momento, la risposta più adeguata. Si unirono così, senza forzature, storie, esperienze e pratiche anche molto diverse tra di loro. Proprio dalla ricchezza del confronto e dall’agire diretto e collettivo è nato il movimento No Tav che ha saputo fare delle diversità non motivo di divisione, ma fonte di arricchimento umano e culturale. Nelle prime adesioni al Movimento le istanze ideali erano molteplici, a volte anche assai diverse. E’ stata proprio la lotta contro l nemico comune a mettere insieme le persone e a farle crescere collettivamente in senso antifascista, sociale, ambientalista. Dalla necessità concreta e quotidiana di opporsi al primi approcci del Tav sono nati i presìdi: non erano un elemento folcloristico né dei centri ricreativi, ma luoghi in cui si stava insieme giorno e notte, per presidiare il territorio ed impedire i primi tentativi di esproprio. Eravamo anche riusciti ad aggregare parte della componente istituzionale locale: alcuni sindaci e interi consigli comunali furono con noi, sul territorio dei loro Comuni, ad impedire le prime prese di possesso istituzionali. Questi furono gli albori di una giornata che dura da decenni e che non ha alcuna intenzione di tramontare. Furono i fatti a portare da subito ad una crescita politica collettiva, una visione diciamo rivoluzionaria di sinistra, nel senso giusto del termine (in cui non si può comprendere il PD, da sempre favorevole all’opera). Poi ci caddero addosso le compatibilità governative, i cosiddetti “dodici punti” del governo Prodi, tra cui il cedimento sul Tav (come quello del rifinanziamento alle missioni militari e le autorizzazioni alle nuove basi Nato) e la parola “sinistra “ fu degradata a foglia di fico per nascondere le “vergogne”. Fu così che dai presidi scomparvero le bandiere di Rifondazione e dei Verdi e il Movimento prosegui con le proprie forze e con la consapevolezza che, nello stato di cose presente, “non esistono governi amici”.

Gran parte dell’opinione pubblica vi accomuna ai cosiddetti Nimby – Not in my back yard, non nel mio giardino – e sostiene che è facile essere contro. Ma voi invece avete sempre avuto una visione “per”, proponendo un nuovo modello di sviluppo.
Assolutamente sì. Essere No Tav significa essere per un mondo e per una società più giusti e vivibili, quindi essere contro quest’opera devastante, che serve soltanto ai grandi interessi, funzionale ad una visione di Europa che è poi quella della guerra all’uomo oltre che all’ambiente. Il tracciato Tav, di cui la Valle di Susa costituisce un segmento, nacque come corridoio Lisbona-Kiev e non a caso, viste le finalità recentemente esplicitate dall’Ue e dagli organi militari d’informazione: “i corridoi trasportistici progettati per l’alta velocità devono essere linee di penetrazione, oltre che commerciale, anche militare, per la movimentazione di uomini e mezzi da nord a sud e da ovest a est”. Dunque il nostro è anche un No alla guerra, in sintonia con la storia antifascista di questa Valle che nel ‘44 vide i ferrovieri del polo ferroviario di Bussoleno organizzarsi nella omonima formazione partigiana e proclamare un sciopero ad oltranza che bloccò la linea e praticò il sabotaggio sistematico dei trasporti d’armi e truppe nazifasciste. La Valle di Susa non è fuori dal mondo, chiusa in un giardino dalle mura invalicabili. La ferrovia internazionale esiste già, addirittura dalla fine dell’’800 e su di essa passano, oltre al trasporto locale, la Freccia rossa italiana e il Tgv francese. Ed è la linea meglio attrezzata a livello nazionale anche per il trasporto merci, potendo ospitare sui pianali, oltre ai container, anche i TIR con motrici. Eppure la sua capienza è sfruttata solo al 12%. Inoltre Bussoleno, fino a fine anni ‘80, era sede di un importante polo ferroviario a cui facevano capo mille ferrovieri, un deposito locomotive con carro-soccorso di seconda classe e un’officina per la revisione delle motrici. Tutto fu smantellato con la privatizzazione delle ferrovie . Ora i dipendenti della stazione di Bussoleno si contano sulle dita di una mano. Il nostro “No” al Tav è anche un “No” al mercato globale, all’industrializzazione dell’agricoltura, allo sfruttamento dei lavoratori, alla crudeltà degli allevamenti intensivi. Ed un “Sì” ad una diversa qualità di vita e di produzione, che valorizzi le produzioni locali, abbia la consapevolezza del limite e rispetti i diritti dell’uomo e della natura. Dunque non lottiamo solo per noi (sappiamo bene che la buona vita non è reale se non è collettiva) e non lasceremo che siano imposto ad altri i mali che noi rifiutiamo. In questa valle dove passano le merci, i capitali e dove vorrebbero far passare i trasporti di guerra, è però negata libertà di transito alle persone che, venute da inferni di oppressione e di fame, cercano nel ricco occidente pane e dignità. Per questo il movimento No Tav pratica concretamente l’accoglienza e l’aiuto ai migranti in cammino verso la Francia.

Nel libro di WuMing 1 – “Un viaggio che non promettiamo breve” del 2016 – si descriveva benissimo tutto questo. E si raccontava come un nuovo movimento politico, il Movimento cinque Stelle, in qualche modo rischiava di appropriarsi della vostra lotta. Ad anni di distanza qual è la tua opinione?
Diciamo che certamente una buona parte del movimento No Tav fu affascinata dal M5s e lo votò perché prometteva aria nuova, e perché si presentava con il radicalismo di chi non fa sconti e assicura che farà piazza pulita delle vecchie ipocrite promesse. Anche in Valle molti si illusero che il M5s, una volta al governo, avrebbe fermato il Tav, come lo stesso Grillo aveva promesso dai palchi elettorali della Valle. Alla sirena del “vaffa” risposero, in buona fede, anche tanti bravi compagni. Però ricordiamo il motto del Gattopardo: “Tutto cambia perché nulla cambi”. E così fu, alla prova dei fatti. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai fatta illusioni, quindi non ho provato delusione quando, vinte le elezioni e saliti al governo con la Lega, i M5s si rimangiarono le promesse sul Tav e su tante altre cose. La delusione in Valle fu cocente, non meno che al tempo del governo Prodi e anche questa volta non si fecero sconti. Il consenso al M5s cadde in picchiata libera anche in termini di voti, crebbero in modo esponenziale la sfiducia nella politica istituzionale, l’astensionismo, la non-delega e la certezza che, dato lo stato di cose presente, “non esistono governi amici”.

Un’altra critica che vi viene fatta è che la vostro lotta non è mai riuscita a diventare europea, a coinvolgere almeno in modo massiccio, i cugini francesi. E’ una cosa che che ti rimproveri oppure la contesti?
Lo contesto. Fin dai tempi del progetto di mega elettrodotto, che doveva partire dal Superfenix e arrivare poi in Italia abbiamo lottato assieme alle realtà francesi della Maurienne, le stesse che abbiamo ritrovato nell’opposizione al tunnel transfrontaliero del Tav Torino-Lyon. Proprio qualche settimana in Val Maurienne si è tenuto un campeggio contro la devastazione ambientale e sociale legata ai lavori per le discenderie propedeutiche al tunnel, esattamente come da noi. Il Movimento No Tav è stato tra i promotori, insieme alle associazioni ambientalistiche della Maurienne e a Les soulèvements de la terre, del campeggio resistente e delle manifestazioni poi represse a suon di lacrimogeni, bombe assordanti, manganelli e spray urticanti. Per parteciparvi, dalla Valle di Susa si sono organizzati sei pullman che poi sono stati bloccati al traforo del Frejus con un’operazione congiunta delle polizie italiana e francese. Legami duraturi di solidarietà si sono stretti anche con le comunità resistenti della Zad di Notre-Dame-des-Landes, a sostegno della loro mobilitazione contro l’aeroporto che avrebbe espropriato della terra e della vita
le comunità contadine ed i loro progetti di proprietà collettiva. In Francia – come in Italia – pesa indubbiamente il sostegno al progetto Tav da parte dei sindacati concertativi e delle forze politiche di una sinistra che, in nome del lavoro comunque, dimentica il diritto alla salute e alla qualità della vita. Certamente corresponsabile è il falso ambientalismo per il quale l’alternativa alle autostrade è il Tav e non il recupero del trasporto ferroviario pubblico a breve e media percorrenza né la lotta alla globalizzazione di produzione e consumi.

Arriviamo al 2012. Forse all’apice della vostra lotta c’è questo questo episodio che fra l’altro non credo neanche sia sia stata la cosa più grossa che hai fatto. Un volantinaggio al casello autostradale che vi e ti costerà la prigione.
Insieme a me sono stati condannati con sentenza definitiva altri undici compagni. Come me è finita in carcere anche Dana, con un aggravamento di pena per aver spiegato al megafono le ragioni della protesta. Quel pomeriggio del 3 marzo 2012 eravamo un folto gruppo al casello autostradale di Avigliana. L’indignazione per quanto era successo nei giorni precedenti ci spingeva ad una risposta concreta, che rompesse anche il muro di silenzio e la disinformazione sparsa a piene mani dai mass media di regime. Due giorni prima, durante lo sgombero del nostro presidio alla Maddalena di Chiomonte, il nostro compagno Luca Abbà, per sfuggire all’inseguimento dei poliziotti, si era arrampicato su un traliccio e, colpito da una forte scarica elettrica, era precipitato a terra. Mentre giaceva inerte, senza soccorsi, ai piedi del traliccio, circondato dalla polizia che ci impedì di avvicinarci, intorno a Luca continuava il lavoro delle ruspe guidate da automi indifferenti. Trasportato in ospedale, le sue condizioni si rivelarono da subito gravissime e per giorni rimase tra la vita e la morte. La reazione della Valle fu pronta e durissima: venne immediatamente occupata l’autostrada del Frejus e il blocco si allargò alle statali. C’eravamo proprio tutti, dagli anziani ai giovanissimi, comprese persone che, pur simpatizzando, non avevano mai partecipato attivamente. Azioni di protesta solidale partirono anche fuori valle. Solo dopo due giorni e con l’impiego di un migliaio di agenti in assetto antisommossa armati di ruspe, idranti e lacrimogeni riuscirono a fiaccare la resistenza popolare e a sgombrare l’autostrada. La mattanza proseguì fino a notte, fin dentro l’abitato di Bussoleno con una vera e propria caccia all’uomo: manganellati uomini e donne inermi; spaccati i vetri delle auto che le “forze dell’ordine” trovavano sul loro percorso; fatta irruzione in un bar dopo averne forzato le porte, alla ricerca di presunti manifestanti. Il giorno dopo leggemmo sui giornali gli sperticati elogi tributati da parte del governo Monti e di tutto l’arco parlamentare alle forze dell’ordine. La nostra risposta fu la protesta al casello autostradale di Avigliana: srotolato uno striscione che inalberava la scritta “Oggi paga Monti”, alzammo le sbarre del casello di una delle autostrade più inutili e costose d’Italia, facendo passare gratis i passeggeri che prendevano di buon grado i volantini e solidarizzavano con le nostre ragioni. La protesta durò non più di venti minuti, ma ci fruttò una condanna complessiva di dodici anni di carcere. Non era una novità: tutta la storia della nostra lotta si svolge sul filo della repressione e dell’applicazione del diritto penale del nemico, metodo che però non è mai riuscito a fermarne le ragioni e le pratiche. Si potrebbe dire che, per governi, questure e tribunali, fin dagli anni novanta questo nostro territorio resistente è diventato un laboratorio. La repressione si è alzata contro di noi nel momento in cui il potere si è reso conto che il nostro non era solo un movimento d’opinione, ma una forza popolare determinata a difendere, nella teoria e nella pratica, il diritto ad un’esistenza degna su una terra non avvelenata e devastata. I primi a farne le spese, a fine anni ‘90, furono tre ragazzi anarchici, Sole, Baleno e Silvano, incarcerati con l’accusa di associazione sovversiva. In seguito all’arrivo della prima trivella, si erano verificati nella zona alcuni misteriosi attentati ad un paio di centraline, fatti che poi al processo si rivelarono opera dei servizi segreti. Si arrivò così all’ assoluzione, di cui potè beneficiare solo Silvano. Sole e Baleno non furono presenti alla sentenza: il carcere li aveva suicidati.

Veniamo al processo che fu anche una rivendicazione della vostra lotta davanti alle istituzioni cosiddette dello Stato. E tu, a quattro anni di distanza, useresti ancora la stessa strategia difensiva?
Certamente. Fu la rivendicazione del diritto a resistere per esistere e, insieme, un modo per far conoscere alle persone dove stavano i poteri devastanti e dove stava la giusta ribellione. Proprio nelle aule di tribunale, da quelle sentenze preconfezionate avemmo la prova che il fascismo non era finito e ci sentimmo eredi di quelle lotte partigiane, operaie, contadine represse ma non vinte, se ancora in noi viveva l’esigenza del riscatto. Che la nostra lotta fosse figlia dell’antica Resistenza, ce l’aveva confermato la presenza al nostro fianco dei vecchi partigiani. Nel 2005 avevano portato a Venaus le loro bandiere; erano con noi alla Libera repubblica della Maddalena nel 2011; furono dalla nostra parte quando l’Anpi nazionale, inquinata dai rottamatori piddini, mise sotto inchiesta le nostre Anpi locali.

Passiamo alla tua scelta. Arriva questa condanna insieme ad altri undici compagni. A 72 anni potresti benissimo chiedere di accedere alle pene alternative ma decidi di rinunciare e di andare in carcere. Che scelta è stata dal punto di vista politico e dal punto di vista personale?
E’ stata una scelta ponderata, comunicata anticipatamente al movimento e rispettata da tutti, anche da chi esprimeva preoccupazione per la mia età e le mie precarie condizioni di salute. L’ho fatto per rabbia e per amore, per far capire alle persone le ragioni della nostra lotta, e perché indisponibile a far la carceriera di me stessa, a chiedere sconti ad un sistema che abolisce di fatto lo stato di diritto. L’ho fatto perché, a differenza dei miei coimputati, tutti giovani e precari, sono un’anziana pensionata, con tanto passato e poco futuro sul quale l’arroganza del potere possa vendicarsi. l’ho fatto anche per lanciare un segnale d’allarme, denunciare la china pericolosa imboccata da una “sinistra” transgenica, dimentica delle proprie origini e ormai in corsa sulle orme del Mercato e del profitto. Se attualmente abbiamo i fascisti al governo non è una fatalità: più che merito delle destre è demerito di una sinistra che non è più tale, che ha tradito le proprie origini, dimenticando le istanze di giustizia sociale e di liberazione da cui è nata.

Forse si rischia il qualunquismo, però mi viene un paragone: tu che ti sei fatta un anno di carcere mentre tanti potenti condannati invece non ci sono neanche entrati. Ora questi “due pesi e due misure” c’è una pratica italiana di garantismo per i potenti e di giustizialismo contro i deboli?
Per me l’esperienza del carcere è stata illuminante. Tra quelle mura, dietro quelle sbarre, in quelle celle sovraffollate e fatiscenti si sperimenta all’ennesima potenza che cosa sia l’ingiustizia sociale. Io, in fondo, ero una privilegiata: pur essendo in detenzione di media sorveglianza, quindi più controllata e soggetta a divieti, avevo dietro di me tutto un Movimento che mi amava e non mi faceva sentire a sola. Invece, intorno a me ho trovato solo povertà e solitudine: il carcere rappresenta davvero l’armadio dove il sistema nasconde gli scheletri delle proprie ingiustizie, le vittime dei propri delitti. Non ho incontrato ricchi o potenti, tra quelle mura. Le mie compagne erano tutte povere, molte malate o tossicodipendenti. Vi ho trovato persone che venivano da tutte le parti del mondo, donne represse, donne maltrattate. Tante le migranti finite nel racket dello spaccio o della prostituzione. E c’erano le rom, arrestate per piccoli furti nei supermarket aggravati in tentata rapina perché, intercettate, avevano reagito cercando di fuggire. Alcune scontavano condanne per tentato omicidio perché, stanche di subire, si erano difese contro mariti che per anni le avevano sfruttate e massacrate di botte. Provare il carcere significa sperimentarne la brutalità, l’inutilità sul piano del recupero sociale, la sua vera natura repressiva e vendicativa. La parte migliore e più umana di quel non-luogo erano proprio loro, le mie compagne di detenzione: è la solidarietà concreta tra oppressi che permette di resistere alle prepotenze delle guardie, di potersi nutrire a sufficienza integrando col sopravvitto a pagamento la sbobba scarsa e spesso immangiabile; e la parola amica di chi ti sta accanto è l’antidoto ai momenti bui, alla tentazione del cappio alle sbarre. Dal carcere si esce più poveri, arrabbiati e senza speranze. E all’uscita si ritrovano la stessa povertà, una precarietà aggravata dall’essere pregiudicati, spesso gli stessi inferni famigliari. Per questo spesso in carcere si ritorna….Il carcere va abolito: l’alternativa al carcere esiste ed è la giustizia sociale. Il giustizialismo non fa che riprodurre e aggravare l’ingiustizia.

Dicevi, anche con un certo orgoglio, che il tuo avvocato è stato tuo allievo. Come trasferire i vostri valori, la vostra lotta alle giovani generazioni? Un problema comune a tutta la sinistra e anche al giornalismo di sinistra che rappresentiamo.

Purtroppo i mass media – tranne pochi giornali meno obbedienti agli ordini di scuderia, tra cui il manifesto (che mi ha fatto compagnia in carcere grazie all’abbonamento fatto da un amico per me e che io mettevo a disposizione di tutte nella minuscola biblioteca del blocco femminile) sono sempre stati contro il movimento. Quanto alle giovani generazioni, noi siamo una grande famiglia di lotta che ha delle radici molto più salde della famiglia di sangue. Te lo garantisco: noi i giovani li abbiamo, sono tantissimi e sono la nostra gioia e il nostro orgoglio, la certezza che il viaggio di liberazione non si chiude con noi. E’ la generazione dei nostri nipoti che vedevamo piccolissimi, assieme ai nostri figli, agli albori della lotta No Tav, ma anche tantissimi venuti da fuori valle, attratti da una proposta culturale e sociale concreta, pronti a salire con noi sulle barricate per difenderla. Per questo la Valle di Susa è uno dei pochi luoghi che si stanno ripopolando e ricreando una economia diretta, dal basso. Questi ragazzi arrivano, fanno rivivere le vecchie borgate di montagna, rimettono in funzione le antiche coltivazioni, recuperando gli antichi vitigni dell’Avanà, del Becuet e, insieme, una dimensione di vita e di relazioni sociali davvero a misura d’uomo e di natura.

Quindi tu sei ottimista per il futuro nonostante questo mondo così ingiusto e questa lotta che va avanti da 32 anni e non vede il traguardo vicino?
Esistono cose fondamentali, per la cui difesa è indispensabile il conflitto, a costo della vita stessa. Per difenderle ci siamo messi in gioco e quel conflitto lo pratichiamo, concretamente, ognuno secondo le proprie forze, con pratiche molteplici , proporzionali all’offesa. Siamo un movimento corale e tali restiamo , facendo delle diversità una risorsa, una ricchezza di esperienze e di culture, anche di possibilità fisiche e di differenze generazionali: ad esempio, nel 2012 nella nostra resistenza sull’autostrada, di cui ho già narrato, eravamo insieme, giovani e anziani, contro il nemico comune. Rifiutiamo ogni leaderismo. C’è rispetto per l’esperienza e ognuno viene valorizzato, ma senza capi né deleghe. Allo stesso modo, pur partendo dalla nostra realtà, non siamo autocentrati : crediamo alla ricomposizione delle lotte (che non significa omogeneizzazione), all’aiuto reciproco delle realtà in conflitto anticapitalista e antimperialista. Come nel caso della Gkn. In tal senso nostri presidi sono anche un crogiolo di iniziative e di scambi a livello nazionale e internazionale con le molteplici realtà in lotta per i diritti sociali, politici, ambientali. Il nemico utilizza l’arma della guerra tra poveri, cerca di porre in conflitto il bisogno di lavoro e il diritto alla salute, ad un ambiente integro. Allo slogan della lobby del tav che “il Tav porta lavoro” il movimento risponde che “C’è lavoro e lavoro”, quello che devasta e uccide e il lavoro liberato, capace di rendere migliore la vita senza devastare la terra, madre di tutti.

Qualche mese fa ti sei candidata: come sei arrivata a questa decisione e cosa stai facendo ora come consigliere comunale di opposizione?
Non certo per prendermi una delega, ma per fornire alle lotte ( innanzittuto alla lotta No Tav) uno strumento in più di informazione e di opposizione,…insomma una nuova barricata. Il Comune è sempre più la cenerentola delle istituzioni, esautorato di strumenti finanziari e politici, a favore delle privatizzazioni, utilizzato come servo sciocco, mero esecutore da cui i poteri istituzionali superiori pretendono obbedienza cieca, acritica collaborazione. E il sistema maggioritario, per il quale chi vince piglia tutto, ha svilito, anche per il Comune, la funzione di rappresentanza reale della popolazione, favorito la separatezza tra rappresentanti e rappresentati, facendo del voto una delega in bianco, senza la possibilità reale di controllo sugli eletti. Anche a Bussoleno c’è una tale sfiducia nelle istituzioni che più del il 50% della popolazione non è andata a votare. In questo vuoto pneumatico, dalle urne è uscita vincente la lista di destra, seguita a ruota da un lista di centrosinistra. Terzi siamo noi, col 18%: un gruppo consiliare piccolo, ma combattivo e compatto (sono l’unica eletta, ma tutti i candidati partecipano attivamente alla vita del Gruppo, anche in vista di una rotazione in Consiglio). La nostra è una lista esplicitamente No Tav, antifascista e antirazzista (insomma, quello che dovrebbe essere la sinistra ), diciamo rivoluzionari, che è la parola che mi piace di più. Quella di candidarci non è stata una scelta facile, viste le esperienze pregresse con le istituzioni, tuttavia abbiamo ritenuto importante esserci per non lasciar campo libero ai poteri forti, alle mafie che si annidano nel cuore dello stato e che fanno delle grandi male opere la fonte principale di profitto. Per la Valle questo è un momento particolarmente critico. Se il tunnel transfrontaliero è in alto mare per i ripensamenti del partner francese, il governo italiano, non potendo bucare verso la Francia, spinge a tutto vapore per dare inizio alla tratta di Valle: i cantieri avanzano verso il basso, l’ombra della devastazione si allarga su boschi e coltivi, vie di comunicazione e centri abitati. Negli ultimi mesi tra Susa e Bussoleno sono partiti i cosiddetti “sondaggi archeologici”, propedeutici ai lavori di interconnessione tra la nuova linea e la linea storica . Il movimento No Tav si è messo immediatamente in movimento con assemblee informative ed azioni dirette di disturbo. Anche noi c’eravamo, come sempre, questa volta con una possibilità in più: quella di fare da scudo istituzionale contro le violenze poliziesche.
Naturalmente mancavano le altre rappresentanze consiliari.

Hai qualche punto di riferimento ideale, culturale, politico che vada oltre la vostra lotta nella tua visione del mondo?
Amo la storia e le esperienze dei popoli che si ribellano. Penso alle lotte di liberazione dei popoli dell’America latina, alla figura dolce e forte del Che, alla coraggiosa resistenza del popolo palestinese. Poi c’è la mia Rosa, Rosa Luxemburg che è da sempre per me fonte di ispirazione, colpo d’ala politico , poetico, sentimentale. Le sue lettere dal carcere, insieme a quelle di Gramsci, mi hanno fatto compagnia nel periodo che passai reclusa alle Vallette. Rosa contro la guerra, una rivoluzionaria inflessibile contro gli opportunisti e gli ipocriti e tenerissima nei confronti dei più deboli, fossero essi uomini o animali. Lei che seppe andare fino in fondo è non abbandonò il sogno rivoluzionario di Spartakus. Amo gli eretici di tutti i tempi. Storie che mi hanno insegnato tanto: che non bisogna mai tradire i propri sogni, le ragioni profonde che ti fanno vivere, lottare e forse anche morire…perché puoi anche perdere al momento, ma vincere nel tempo, attraverso il tempo.

* Fonte/autore: Massimo Franchi, il manifesto

In occasione dei 90 anni compiuti oggi da Toni Negri, ripubblichiamo un colloquio tra Toni e Sergio Segio, uscito nel marzo 2002 come editoriale dell’Agenzia Testimoni di GeNova, strumento di dibattito e informazione nato a partire dal movimento altermondialista

 

  • Se la CGIL ha tratti pachidermici, non di meno continua a costituire baluardo, magari in extremis, di libertà sociali e diritti democratici fondamentali
  • Il movimento di Genova aveva rivelato il vuoto della direzione della sinistra, la sua assenza politica; il movimento dei “girotondi” ha isolato quella direzione; il sindacato si è risvegliato recuperando l’insieme delle tensioni a un rinnovamento della democrazia
  • Solo uno scarto, una radicale diversità di prospettiva, una fuoriuscita dal paradigma lavorista può rendere possibile un mondo diverso, come recita lo slogan in voga
  • Berlusconi è una vera e propria caricatura di quel “order without law” che i governanti imperiali vogliono imporre al mondo
  • Anche nel movimento vi è scarsa coscienza che il personale è politico, che c’è necessità di una coerenza forte tra il dire, il fare e l’essere, che la verità è rivoluzionaria
  • La decisione politica di creare un nuovo mondo e, perciò, di inserire felicità comune nelle nostre vite e nelle nostre azioni, può diventare la base di una nuova rivoluzione. Non vogliamo prendere il potere ma produrne uno nuovo
  • Mobbing, violazioni di diritti sindacali, precarietà, lavoro nero, assenza di democrazia, leaderismo e verticismo ossessivi, presidenze a vita: sono presenti nelle pratiche di parte non piccola delle associazioni, del mondo del non profit e del forse troppo decantato volontariato
  • Un passaggio essenziale consiste nel porre la povertà al centro del nuovo processo organizzativo: perché essa esprime la radicalità della protesta, rovescia la pervasività degli effetti distruttivi che stanno alla sua base, e produce una generosità estrema (altri parlano di amore) all’interno del movimento

 

 

Sergio Segio: Alla vigilia dello sciopero generale e della manifestazione nazionale della CGIL del 23 marzo a Roma il dibattito sembra avvitarsi su categorie, ritualità e simbolismi novecenteschi, a loro volta eredità di fine Ottocento. È preoccupante che arrivi da destra (pur nelle evidenti strumentalità e inconseguenze pratiche, teoriche e politiche) un discorso o almeno un accenno ai lavori e al nuovo e moderno quadro dei diritti che dovrebbe fotografarne la “costituzione materiale”, anzitutto riconoscendola e poi trascrivendola in nuovo Statuto.

Va detto che la valenza altamente (e prevalentemente) simbolica dello scontro sull’articolo 18 non è perseguita solo e tanto dalla CGIL, pur ovviamente interessata agli oggettivi ed evidenti risvolti politici di ricompattamento, traino e volano del centrosinistra, e in specie dei Ds. E alla propria conseguente autorevolezza nel disegnarne future leadership e strategie.

L’aggressività di Confindustria e l’asse Maroni-Tremonti hanno imposto una simmetrica volontà di misurarsi in queste “Scene di lotta di classe a Jurassik park”. Il disegno di legge delega sul mercato del lavoro e il “Libro bianco” che l’ha preceduto svelano una strategia di destrutturazione delle forme residue di una composizione sociale che, obiettivamente, da tempo non esiste più. Ovviamente, l’intento dell’offensiva contro i diritti acquisiti dai lavoratori non è innocente né ingenuo, e gli effetti – va detto – possono essere devastanti. Perché se la CGIL ha tratti pachidermici, non di meno continua a costituire baluardo, magari in extremis, di libertà sociali e diritti democratici fondamentali. E di ciò bisogna onestamente dare atto.

Tra il rischio di opposti simbolismi, la domanda diventa: è possibile un deciso scarto sul piano dei contenuti, degli obiettivi e dei soggetti coinvolti?

E anche: è possibile, c’è spazio e ascolto, per dire – ad esempio – una piccola verità? Ovvero che la difesa dell’articolo 18 è simulacro di un diritto già svuotato dalle infinite modalità di precarizzazione del rapporto di lavoro cresciute e radicatesi nella giungla del mercato nel decennio scorso, con sindacato e sinistra che troppo spesso facevano come le famose tre scimmiette?

Alcuni (ad esempio, il “Comitato per le libertà e i diritti sociali” di cui pubblichiamo alcuni materiali in questo dossier dell’Agenzia di informazione Testimoni di GeNova), consapevoli di questa verità nascosta dietro una classica e ipocrita foglia di fico, rilanciano propositivamente l’estensione dell’articolo 18 attraverso alcuni quesiti referendari. Mossa politica intelligente ma, mi sembra, ancora tutta interna a un paradigma “lavorista”, alla logica del +1 anziché a quella dello scarto e dell’innovazione (termine questo divenuto parolaccia impronunciabile, di cui pure andrebbe però recuperato il senso, vale a dire l’intenzionalità del cambiamento e la centralità della comunicazione).

 

Toni Negri: Sono d’accordo con te. La difesa dell’articolo 18, e solo di quello, rappresenta una linea residuale. Tuttavia sembra che questa difesa stia sollevando un movimento positivo. Lo si vede quando si considera con quale imbarazzo la direzione del centro-sinistra ha dovuto accettare di stare al gioco sindacale. Stiamo assistendo a un concatenarsi positivo di azioni e reazioni che costituiscono una linea d’attacco.

Il movimento di Genova aveva rivelato il vuoto della direzione della sinistra, la sua assenza politica; il movimento dei “girotondi” ha isolato quella direzione; il sindacato si è risvegliato recuperando l’insieme delle tensioni a un rinnovamento della democrazia che attraversano il Paese.

È vero che non c’è uno scarto di programma, ancora. V’è tuttavia uno scarto soggettivo che non deve essere sottovalutato. Il concatenamento politico potrà svolgersi fino a diventare significativo sul piano programmatico? Fino a sviluppare, ben oltre la difesa dell’articolo 18 e della capacità di contrattazione del sindacato, una vertenza sociale, per esempio, sul “reddito di cittadinanza” e a invertire i processi di smantellamento di tutte le condizioni/strutture dell’organizzazione comune della vita?

Io ricordo la lotta degli impiegati dei trasporti pubblici urbani e dei ferrovieri in Francia (e a Parigi in particolare) nell’inverno 1995-96. Anche quella lotta era iniziata per bloccare la mobilità extra-contrattuale della forza lavoro. Ma nel suo corso la lotta diventò una gigantesca rappresentazione non più solo di resistenza ma di espressione di nuovi diritti: nel caso, il diritto a considerare i trasporti urbani bene comune, inespropriabile, non privatizzabile, e neppure esposto alle incertezze budgetarie dell’amministrazione pubblica… Il trasporto urbano, dicevano i parigini, è nostro, è la condizione prima, interna, al nostro vivere. Così, lo sviluppo della lotta aveva subito uno scarto decisivo. Io non so se questo oggi sarà possibile, ma confido nel fatto che un filo, tanto importante quanto quello che lo sciopero generale indica, possa essere dipanato.

 

Segio: La monetizzazione del potere di licenziamento, voluta dal governo, è ovviamente odiosa; ha però un merito: quello di togliere infingimento al carattere di merce del lavoro, consentendo di cogliere e svelare i processi capitalistici di valorizzazione. E dunque anche quelli, in potenza, di autovalorizzazione.

Per giocare un po’ con le semplificazioni: come tu hai insegnato, i processi lavorativi hanno scavalcato la fabbrica e investito la società, permeandone ogni interstizio, esportandovi la propria disciplina, al contempo ibridando lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione. La disciplina di fabbrica, a sua volta, era mutuata da quella dell’istituzione totale e da quella militare in specifico. La società-fabbrica, che è basilare nella globalizzazione, in certo senso è galera globale; l’operaio-sociale è una specie di recluso che fruisce dell’articolo 21 (il “lavoro all’esterno” dell’ordinamento penitenziario), carceriere di se stesso, incapace di pensarsi come lavoro vivo in grado di riappropriarsi del proprio tempo, sottraendolo al valore di scambio e all’imperativo del consumo. La semilibertà carceraria (per quanto apparente contraddizione in termini) associa alla parola libertà la parte di giornata dedicata al lavoro, ma almeno separa il tempo e il luogo della libertà da quello della non-libertà. “Il lavoro rende liberi” è invece un truffaldino ossimoro, oltre che un pertinente e sinistro richiamo storico al lager e al gulag, che assume e riassume la dimensione totalizzante della comunità dei produttori come universo conchiuso in sé e “realizzato” nella forma estrema e originaria del lavoro salariato, dove il massimo di libertà coincide con la schiavitù.

Se ciò è in qualche misura vero, la domanda è: come si evade da una galera globale, da uno spazio chiuso che non ha, e non prevede, un suo “fuori”?

Di nuovo, mi sembra che è solo uno scarto, una radicale diversità di prospettiva, una fuoriuscita da quel paradigma a rendere possibile un mondo diverso, come recita lo slogan in voga. Ma sono un po’ scettico sulla attualità e plausibilità dello slogan conseguente, vale a dire sul fatto che un mondo diverso sia effettivamente in costruzione. Perché siamo ancora troppo dentro i luoghi, anzi, i non-luoghi comuni.

 

Negri: Sono meno pessimista di te. Meglio, penso che si debba essere assai pessimisti sul terreno pratico (e cioè quando si considerano materialmente i passi da fare e si valutano quelli che fanno gli avversari) ma che una linea di trasformazione radicale stia invece ragionevolmente definendosi. Rovesciando l’aforisma gramsciano direi: «ottimismo della ragione, pessimismo della volontà».

La crisi del lavoro come misura dello sviluppo e parametro di valorizzazione della vita è andata troppo avanti perché la stessa violenta reazione capitalistica possa aver successo. Dalla disciplina, al controllo sociale, alla guerra: così viene svolgendosi l’attività ordinatrice del governo imperiale. Nelle nostre società ciò è sempre più palese. Berlusconi è una vera e propria caricatura di quel “order without law” che i governanti imperiali vogliono imporre al mondo. Procedure, stralci, mobilità… dappertutto, in ogni luogo e in ogni tratto di tempo… Un mondo insensato e feroce viene configurandosi. Ma c’è resistenza!

Tu dici: «ma non c’è più “fuori”». Dove andiamo a cercare un nuovo luogo di liberazione? Io credo che non ci sia. Penso, tuttavia, che la decisione politica di costruire, meglio, di creare un nuovo mondo e, perciò, di inserire felicità comune nelle nostre vite e nelle nostre azioni, possa diventare la base di una nuova rivoluzione. Non vogliamo prendere il potere ma produrne uno nuovo.

Nel “movimento dei movimenti” queste passioni cominciano già a vivere: e questo (quando cioè il movimento non è più solo un mezzo ma anche un fine, non solo potenza ma anche felicità) ci conferma nell’agire.

 

Segio: Veniamo dunque al “movimento dei movimenti” (è curiosa questa crescente necessità di surdeterminazione: ormai ci sono solo reti delle reti, associazioni delle associazioni, movimenti dei movimenti), tornando anche ai temi del 23 marzo. Una delle gambe più robuste del nuovo movimento, o almeno una delle più visibili (i Cobas), ha un’identità costitutiva col tema del lavoro, ma anche con tutte le sue contraddizioni e polverosità. Altre gambe rimandano all’associazionismo più tradizionale che, magari soi malgré, conserva nel proprio corredo genetico una vocazione di cinghia di trasmissione dei partiti e, funzionale a questa, la tendenza a inglobare e rappresentare a 360 gradi. Altre componenti ancora, forse più laterali (o lateralizzate), insistono, anche giustamente, sul metodo (orizzontalità, trasparenza, collegialità, rotazione) ma non hanno alternative di merito e di proposta che non siano la semplice, e sia pure apprezzabile, “riduzione del danno” delle ingiustizie sociali. Anche qui, nessuno scarto, nessuna progettualità, nessuna ambizione di vera alternativa all’ordine vigente delle cose. Nessuna coscienza che il personale è politico, che c’è necessità di una coerenza forte tra il dire, il fare e l’essere, che la verità è rivoluzionaria…

La stessa decantata Tobin tax, alla fin della fiera, altro non è che un modestissimo prelievo (nella proposta di legge di iniziativa popolare lanciata da ATTAC, lo 0,02%) sui 1.587 miliardi di dollari che, ogni giorno, vengono scambiati sui mercati valutari, nel 90% dei casi unicamente a fini speculativi, con la finalità di disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine e il cui principale risultato sarebbe quello di ridurre l’instabilità dei mercati, assai più che non quello di redistribuire ricchezza. Paradossalmente, gli effetti sarebbero anche di rafforzamento degli organi di governo mondiale e dello stesso controllo delle banche centrali: in certo modo, un rafforzamento della globalizzazione neoliberista. Certo, meglio l’introduzione di controlli sul flusso imponente di denaro sporco e opaco che l’impero dei paradisi fiscali. Ma nulla di rivoluzionario. Semplicemente l’introduzione di una regola stabilizzante per un mercato messo a rischio della sua stessa selvaticità.

Un po’ come la legge sul rientro dei capitali varata dal governo Berlusconi che, per coerenza, dovrebbe incontrare lo stesso entusiasmo dei sostenitori della proposta del liberale Tobin. Naturalmente esagero volutamente, ma credo dobbiamo tenere alta e aperta la preoccupazione per il conformismo e il politicismo senz’anima, poiché sono malattie, infantili ma potenzialmente letali, del movimento allo stato nascente.

 

Negri: Sono d’accordo nella valutazione che dai sugli obiettivi, sempre parziali, spesso francamente inutili o errati che varie frazioni del movimento esprimono. Detto questo, tuttavia, occorre insistere sul fatto che questo movimento non solo c’è, ma è anche riuscito ad aprire un ciclo di lotte all’interno dei singoli Paesi e su base planetaria. Siamo con ogni probabilità entrati in una fase di costruzione di una nuova internazionale comunista. Questo passaggio va oltre i limiti delle rivendicazioni e delle singole forze presenti nel movimento. La tensione alternativa esiste come totalità: la miseria delle singole espressioni può essere sottolineata e deve essere combattuta, ma a me sembra che qui si sia già oltre il livello artigianale nella costruzione del movimento. È dentro la sua alta spontaneità e a fronte della sua attuale potenza che si tratta di valutarlo.

Quanto alla Tobin tax: sono d’accordo che si tratta di un espediente riformistico… eppure non credo che sia facilmente accettabile dalla finanza mondiale. La Tobin tax, per il momento, è nel flusso di un progetto di trasformazione, è indicativa di un obiettivo a scala globale. Insomma, funziona per il movimento, non ne costituisce ancora un argine.

 

Segio: Manca, mi sembra, la poliedrica moltitudine di Genova. Manca – almeno nella rappresentazione e nella gestione – un’abbondante metà dei 300.000. Mancano le donne. Manca ciò che costituiva effettivamente il nuovo, nel senso di nuova soggettività in cerca di luoghi e di pratiche, più che di rappresentanti.

Anche qui, sorge una domanda: c’è una terza via possibile tra l’atteggiamento un po’ schizzinoso di chi giudica il movimento rivolo destinato a rinseccarsi o a confluire in alvei tradizionali, o a esplodere sotto la pressione ingovernata della contraddizione locale-globale, e chi finge, magari pro domo sua, di pensare rappresentati e rappresentabili nei Social forum i 300.000? Magari senza interrogarsi sui bisogni, diritti e caratteristiche che essi esprimono. Magari fingendo di non vedere e di non alimentare i fuscelli e le travi (mobbing, violazione di diritti sindacali, precarietà, lavoro nero, assenza di democrazia, leaderismo e verticismo ossessivi, presidenze a vita) che pure albergano negli occhi, negli statuti e nelle pratiche di parte non piccola delle associazioni, del mondo del non profit e del forse troppo decantato volontariato, specie se visto e voluto come figura alternativa, e finalmente costruttiva, post-ideologica, rispetto al militante del Novecento.

Io ho la sensazione, non so quanto esatta poiché fondata su una conoscenza di situazioni geograficamente limitata, che vi sia un paradosso in corso. Questo movimento è carsico: mobilita sui grandi temi e sui forti sentimenti, ma non ha significativa pratica territoriale. I Forum locali, che dovevano fondare la nascita, e la legittimità, del Forum sociale italiano hanno vita grama ed esistenza nominalistica (con apprezzabili e innegabili eccezioni).

Non sarà forse che, tanto per cambiare, alla praxis, all’esserci, all’indignarsi occorre intrecciare un’analisi, un progetto? Non sarà forse che più che di una teorizzazione del localismo c’è bisogno di radicamento reale nelle cose, nei territori, nelle condizioni sociali?

Ecco: in definitiva mi pare che questo movimento, o meglio la sua rappresentazione, prema per andare a parlare sul palco il 23 a Roma per certificare la propria esistenza. Mentre vi sarebbe bisogno che andasse per fare irrompere in quelle tematiche e quei luoghi il peso dei nuovi lavori e dei nuovi diritti. Lavori atipici, diritti innominabili. Anche qui, e di nuovo: dei tossici, dei carcerati, degli immigrati, dei senza patria e senza diritti, come delle tute arancioni o dei lavoratori in affitto si rischia di parlare molto poco. Noi, come singoli compagni, come operatori sociali e di SERT, come Rete autoconvocata “La libertà è terapeutica”, come gruppi di tossici e di carcerati, come associazioni di base, sabato (ora 8,30 piazza Esedra-angolo via Orlando) saremo alla manifestazione di Roma sotto lo striscione “Soggetti deboli, diritti forti”. Ci sembra un piccolo ma necessario contributo affinché la sinistra, ma anche i Social Forum, si facciano maggiormente carico di alcune problematiche dell’esclusione sociale, degli ultimi tra gli ultimi, dei più poveri.

 

Negri: Di nuovo mi sembra di non poter che darti ragione. Ma è solo nella sperimentazione continua di nuove forme di organizzazione che riusciremo a riconquistare la poliedrica potenza dei 300.000 di Genova. Quando cominciammo a organizzare Genova ci si proposero gli stessi ostacoli che oggi di nuovo denunciamo. Quelli che io chiamo i “grunf-grunf”, che protestano a ogni iniziativa e tutto vedono come inutile . I grunf-grunf dominavano la scena. Eppure, le Tute bianche, Ya basta! e tutti gli altri compagni seppero costruire un percorso corretto che non si interruppe neppure davanti alla forsennata risposta poliziesca. Quale forma di organizzazione dobbiamo costruire per continuare quel percorso? Credo che un passaggio essenziale consista nel porre la povertà al centro del nuovo processo organizzativo: perché essa esprime la radicalità della protesta, rovescia la pervasività degli effetti distruttivi che stanno alla sua base, e produce una generosità estrema (altri parlano di amore) all’interno del movimento.

Hai ragione quando parli degli esclusi al centro dei processi di liberazione: la povertà sola, infatti, è capace di suscitare, con l’indignazione, la resistenza e di dar corpo a un progetto di democrazia assoluta. Oggi anche gli operai sanno di abitare a un passo dalla povertà: ecco dunque dove si porranno i luoghi, i territori di organizzazione, quel locale dal quale necessariamente l’iniziativa globale deve prendere le mosse. L’analisi, il progetto, il potere costituente nascono qui.

[* Editoriale di Toni Negri e Sergio Segio, numero 5 dell’Agenzia Testimoni di GeNova, marzo 2002]

Haidi Giuliani

Felicità e contropotere

  • Il movimento di Genova aveva rivelato il vuoto della direzione della sinistra, la sua assenza politica; il movimento dei “girotondi” ha isolato quella direzione; il sindacato si è risvegliato recuperando l’insieme delle tensioni a un rinnovamento della democrazia
  • Solo uno scarto, una radicale diversità di prospettiva, una fuoriuscita dal paradigma lavorista può rendere possibile un mondo diverso, come recita lo slogan in voga
  • Berlusconi è una vera e propria caricatura di quel “order without law” che i governanti imperiali vogliono imporre al mondo
  • Anche nel movimento vi è scarsa coscienza che il personale è politico, che c’è necessità di una coerenza forte tra il dire, il fare e l’essere, che la verità è rivoluzionaria
  • La decisione politica di creare un nuovo mondo e, perciò, di inserire felicità comune nelle nostre vite e nelle nostre azioni, può diventare la base di una nuova rivoluzione. Non vogliamo prendere il potere ma produrne uno nuovo
  • Mobbing, violazioni di diritti sindacali, precarietà, lavoro nero, assenza di democrazia, leaderismo e verticismo ossessivi, presidenze a vita: sono presenti nelle pratiche di parte non piccola delle associazioni, del mondo del non profit e del forse troppo decantato volontariato
  • Un passaggio essenziale consiste nel porre la povertà al centro del nuovo processo organizzativo: perché essa esprime la radicalità della protesta, rovescia la pervasività degli effetti distruttivi che stanno alla sua base, e produce una generosità estrema (altri parlano di amore) all’interno del movimento

 Sergio Segio: Alla vigilia dello sciopero generale e della manifestazione nazionale della CGIL del 23 marzo a Roma il dibattito sembra avvitarsi su categorie, ritualità e simbolismi novecenteschi, a loro volta eredità di fine Ottocento. È preoccupante che arrivi da destra (pur nelle evidenti strumentalità e inconseguenze pratiche, teoriche e politiche) un discorso o almeno un accenno ai lavori e al nuovo e moderno quadro dei diritti che dovrebbe fotografarne la “costituzione materiale”, anzitutto riconoscendola e poi trascrivendola in nuovo Statuto.

Va detto che la valenza altamente (e prevalentemente) simbolica dello scontro sull’articolo 18 non è perseguita solo e tanto dalla CGIL, pur ovviamente interessata agli oggettivi ed evidenti risvolti politici di ricompattamento, traino e volano del centrosinistra, e in specie dei Ds. E alla propria conseguente autorevolezza nel disegnarne future leadership e strategie.

L’aggressività di Confindustria e l’asse Maroni-Tremonti hanno imposto una simmetrica volontà di misurarsi in queste “Scene di lotta di classe a Jurassik park”. Il disegno di legge delega sul mercato del lavoro e il “Libro bianco” che l’ha preceduto svelano una strategia di destrutturazione delle forme residue di una composizione sociale che, obiettivamente, da tempo non esiste più. Ovviamente, l’intento dell’offensiva contro i diritti acquisiti dai lavoratori non è innocente né ingenuo, e gli effetti – va detto – possono essere devastanti. Perché se la CGIL ha tratti pachidermici, non di meno continua a costituire baluardo, magari in extremis, di libertà sociali e diritti democratici fondamentali. E di ciò bisogna onestamente dare atto.

Tra il rischio di opposti simbolismi, la domanda diventa: è possibile un deciso scarto sul piano dei contenuti, degli obiettivi e dei soggetti coinvolti?

E anche: è possibile, c’è spazio e ascolto, per dire – ad esempio – una piccola verità? Ovvero che la difesa dell’articolo 18 è simulacro di un diritto già svuotato dalle infinite modalità di precarizzazione del rapporto di lavoro cresciute e radicatesi nella giungla del mercato nel decennio scorso, con sindacato e sinistra che troppo spesso facevano come le famose tre scimmiette?

Alcuni (ad esempio, il “Comitato per le libertà e i diritti sociali” di cui pubblichiamo alcuni materiali in questo dossier dell’Agenzia di informazione Testimoni di GeNova), consapevoli di questa verità nascosta dietro una classica e ipocrita foglia di fico, rilanciano propositivamente l’estensione dell’articolo 18 attraverso alcuni quesiti referendari. Mossa politica intelligente ma, mi sembra, ancora tutta interna a un paradigma “lavorista”, alla logica del +1 anziché a quella dello scarto e dell’innovazione (termine questo divenuto parolaccia impronunciabile, di cui pure andrebbe però recuperato il senso, vale a dire l’intenzionalità del cambiamento e la centralità della comunicazione).

Toni Negri: Sono d’accordo con te. La difesa dell’articolo 18, e solo di quello, rappresenta una linea residuale. Tuttavia sembra che questa difesa stia sollevando un movimento positivo. Lo si vede quando si considera con quale imbarazzo la direzione del centro-sinistra ha dovuto accettare di stare al gioco sindacale. Stiamo assistendo a un concatenarsi positivo di azioni e reazioni che costituiscono una linea d’attacco.

Il movimento di Genova aveva rivelato il vuoto della direzione della sinistra, la sua assenza politica; il movimento dei “girotondi” ha isolato quella direzione; il sindacato si è risvegliato recuperando l’insieme delle tensioni a un rinnovamento della democrazia che attraversano il Paese.

È vero che non c’è uno scarto di programma, ancora. V’è tuttavia uno scarto soggettivo che non deve essere sottovalutato. Il concatenamento politico potrà svolgersi fino a diventare significativo sul piano programmatico? Fino a sviluppare, ben oltre la difesa dell’articolo 18 e della capacità di contrattazione del sindacato, una vertenza sociale, per esempio, sul “reddito di cittadinanza” e a invertire i processi di smantellamento di tutte le condizioni/strutture dell’organizzazione comune della vita?

Io ricordo la lotta degli impiegati dei trasporti pubblici urbani e dei ferrovieri in Francia (e a Parigi in particolare) nell’inverno 1995-96. Anche quella lotta era iniziata per bloccare la mobilità extra-contrattuale della forza lavoro. Ma nel suo corso la lotta diventò una gigantesca rappresentazione non più solo di resistenza ma di espressione di nuovi diritti: nel caso, il diritto a considerare i trasporti urbani bene comune, inespropriabile, non privatizzabile, e neppure esposto alle incertezze budgetarie dell’amministrazione pubblica… Il trasporto urbano, dicevano i parigini, è nostro, è la condizione prima, interna, al nostro vivere. Così, lo sviluppo della lotta aveva subito uno scarto decisivo. Io non so se questo oggi sarà possibile, ma confido nel fatto che un filo, tanto importante quanto quello che lo sciopero generale indica, possa essere dipanato.

Segio: La monetizzazione del potere di licenziamento, voluta dal governo, è ovviamente odiosa; ha però un merito: quello di togliere infingimento al carattere di merce del lavoro, consentendo di cogliere e svelare i processi capitalistici di valorizzazione. E dunque anche quelli, in potenza, di autovalorizzazione.

Per giocare un po’ con le semplificazioni: come tu hai insegnato, i processi lavorativi hanno scavalcato la fabbrica e investito la società, permeandone ogni interstizio, esportandovi la propria disciplina, al contempo ibridando lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione. La disciplina di fabbrica, a sua volta, era mutuata da quella dell’istituzione totale e da quella militare in specifico. La società-fabbrica, che è basilare nella globalizzazione, in certo senso è galera globale; l’operaio-sociale è una specie di recluso che fruisce dell’articolo 21 (il “lavoro all’esterno” dell’ordinamento penitenziario), carceriere di se stesso, incapace di pensarsi come lavoro vivo in grado di riappropriarsi del proprio tempo, sottraendolo al valore di scambio e all’imperativo del consumo. La semilibertà carceraria (per quanto apparente contraddizione in termini) associa alla parola libertà la parte di giornata dedicata al lavoro, ma almeno separa il tempo e il luogo della libertà da quello della non-libertà. “Il lavoro rende liberi” è invece un truffaldino ossimoro, oltre che un pertinente e sinistro richiamo storico al lager e al gulag, che assume e riassume la dimensione totalizzante della comunità dei produttori come universo conchiuso in sé e “realizzato” nella forma estrema e originaria del lavoro salariato, dove il massimo di libertà coincide con la schiavitù.

Se ciò è in qualche misura vero, la domanda è: come si evade da una galera globale, da uno spazio chiuso che non ha, e non prevede, un suo “fuori”?

Di nuovo, mi sembra che è solo uno scarto, una radicale diversità di prospettiva, una fuoriuscita da quel paradigma a rendere possibile un mondo diverso, come recita lo slogan in voga. Ma sono un po’ scettico sulla attualità e plausibilità dello slogan conseguente, vale a dire sul fatto che un mondo diverso sia effettivamente in costruzione. Perché siamo ancora troppo dentro i luoghi, anzi, i non-luoghi comuni.

Negri: Sono meno pessimista di te. Meglio, penso che si debba essere assai pessimisti sul terreno pratico (e cioè quando si considerano materialmente i passi da fare e si valutano quelli che fanno gli avversari) ma che una linea di trasformazione radicale stia invece ragionevolmente definendosi. Rovesciando l’aforisma gramsciano direi: «ottimismo della ragione, pessimismo della volontà».

La crisi del lavoro come misura dello sviluppo e parametro di valorizzazione della vita è andata troppo avanti perché la stessa violenta reazione capitalistica possa aver successo. Dalla disciplina, al controllo sociale, alla guerra: così viene svolgendosi l’attività ordinatrice del governo imperiale. Nelle nostre società ciò è sempre più palese. Berlusconi è una vera e propria caricatura di quel “order without law” che i governanti imperiali vogliono imporre al mondo. Procedure, stralci, mobilità… dappertutto, in ogni luogo e in ogni tratto di tempo… Un mondo insensato e feroce viene configurandosi. Ma c’è resistenza!

Tu dici: «ma non c’è più “fuori”». Dove andiamo a cercare un nuovo luogo di liberazione? Io credo che non ci sia. Penso, tuttavia, che la decisione politica di costruire, meglio, di creare un nuovo mondo e, perciò, di inserire felicità comune nelle nostre vite e nelle nostre azioni, possa diventare la base di una nuova rivoluzione. Non vogliamo prendere il potere ma produrne uno nuovo.

Nel “movimento dei movimenti” queste passioni cominciano già a vivere: e questo (quando cioè il movimento non è più solo un mezzo ma anche un fine, non solo potenza ma anche felicità) ci conferma nell’agire.

Segio: Veniamo dunque al “movimento dei movimenti” (è curiosa questa crescente necessità di surdeterminazione: ormai ci sono solo reti delle reti, associazioni delle associazioni, movimenti dei movimenti), tornando anche ai temi del 23 marzo. Una delle gambe più robuste del nuovo movimento, o almeno una delle più visibili (i Cobas), ha un’identità costitutiva col tema del lavoro, ma anche con tutte le sue contraddizioni e polverosità. Altre gambe rimandano all’associazionismo più tradizionale che, magari soi malgré, conserva nel proprio corredo genetico una vocazione di cinghia di trasmissione dei partiti e, funzionale a questa, la tendenza a inglobare e rappresentare a 360 gradi. Altre componenti ancora, forse più laterali (o lateralizzate), insistono, anche giustamente, sul metodo (orizzontalità, trasparenza, collegialità, rotazione) ma non hanno alternative di merito e di proposta che non siano la semplice, e sia pure apprezzabile, “riduzione del danno” delle ingiustizie sociali. Anche qui, nessuno scarto, nessuna progettualità, nessuna ambizione di vera alternativa all’ordine vigente delle cose. Nessuna coscienza che il personale è politico, che c’è necessità di una coerenza forte tra il dire, il fare e l’essere, che la verità è rivoluzionaria…

La stessa decantata Tobin tax, alla fin della fiera, altro non è che un modestissimo prelievo (nella proposta di legge di iniziativa popolare lanciata da ATTAC, lo 0,02%) sui 1.587 miliardi di dollari che, ogni giorno, vengono scambiati sui mercati valutari, nel 90% dei casi unicamente a fini speculativi, con la finalità di disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine e il cui principale risultato sarebbe quello di ridurre l’instabilità dei mercati, assai più che non quello di redistribuire ricchezza. Paradossalmente, gli effetti sarebbero anche di rafforzamento degli organi di governo mondiale e dello stesso controllo delle banche centrali: in certo modo, un rafforzamento della globalizzazione neoliberista. Certo, meglio l’introduzione di controlli sul flusso imponente di denaro sporco e opaco che l’impero dei paradisi fiscali. Ma nulla di rivoluzionario. Semplicemente l’introduzione di una regola stabilizzante per un mercato messo a rischio della sua stessa selvaticità.

Un po’ come la legge sul rientro dei capitali varata dal governo Berlusconi che, per coerenza, dovrebbe incontrare lo stesso entusiasmo dei sostenitori della proposta del liberale Tobin. Naturalmente esagero volutamente, ma credo dobbiamo tenere alta e aperta la preoccupazione per il conformismo e il politicismo senz’anima, poiché sono malattie, infantili ma potenzialmente letali, del movimento allo stato nascente.

Negri: Sono d’accordo nella valutazione che dai sugli obiettivi, sempre parziali, spesso francamente inutili o errati che varie frazioni del movimento esprimono. Detto questo, tuttavia, occorre insistere sul fatto che questo movimento non solo c’è, ma è anche riuscito ad aprire un ciclo di lotte all’interno dei singoli Paesi e su base planetaria. Siamo con ogni probabilità entrati in una fase di costruzione di una nuova internazionale comunista. Questo passaggio va oltre i limiti delle rivendicazioni e delle singole forze presenti nel movimento. La tensione alternativa esiste come totalità: la miseria delle singole espressioni può essere sottolineata e deve essere combattuta, ma a me sembra che qui si sia già oltre il livello artigianale nella costruzione del movimento. È dentro la sua alta spontaneità e a fronte della sua attuale potenza che si tratta di valutarlo.

Quanto alla Tobin tax: sono d’accordo che si tratta di un espediente riformistico… eppure non credo che sia facilmente accettabile dalla finanza mondiale. La Tobin tax, per il momento, è nel flusso di un progetto di trasformazione, è indicativa di un obiettivo a scala globale. Insomma, funziona per il movimento, non ne costituisce ancora un argine.

Segio: Manca, mi sembra, la poliedrica moltitudine di Genova. Manca – almeno nella rappresentazione e nella gestione – un’abbondante metà dei 300.000. Mancano le donne. Manca ciò che costituiva effettivamente il nuovo, nel senso di nuova soggettività in cerca di luoghi e di pratiche, più che di rappresentanti.

Anche qui, sorge una domanda: c’è una terza via possibile tra l’atteggiamento un po’ schizzinoso di chi giudica il movimento rivolo destinato a rinseccarsi o a confluire in alvei tradizionali, o a esplodere sotto la pressione ingovernata della contraddizione locale-globale, e chi finge, magari pro domo sua, di pensare rappresentati e rappresentabili nei Social forum i 300.000? Magari senza interrogarsi sui bisogni, diritti e caratteristiche che essi esprimono. Magari fingendo di non vedere e di non alimentare i fuscelli e le travi (mobbing, violazione di diritti sindacali, precarietà, lavoro nero, assenza di democrazia, leaderismo e verticismo ossessivi, presidenze a vita) che pure albergano negli occhi, negli statuti e nelle pratiche di parte non piccola delle associazioni, del mondo del non profit e del forse troppo decantato volontariato, specie se visto e voluto come figura alternativa, e finalmente costruttiva, post-ideologica, rispetto al militante del Novecento.

Io ho la sensazione, non so quanto esatta poiché fondata su una conoscenza di situazioni geograficamente limitata, che vi sia un paradosso in corso. Questo movimento è carsico: mobilita sui grandi temi e sui forti sentimenti, ma non ha significativa pratica territoriale. I Forum locali, che dovevano fondare la nascita, e la legittimità, del Forum sociale italiano hanno vita grama ed esistenza nominalistica (con apprezzabili e innegabili eccezioni).

Non sarà forse che, tanto per cambiare, alla praxis, all’esserci, all’indignarsi occorre intrecciare un’analisi, un progetto? Non sarà forse che più che di una teorizzazione del localismo c’è bisogno di radicamento reale nelle cose, nei territori, nelle condizioni sociali?

Ecco: in definitiva mi pare che questo movimento, o meglio la sua rappresentazione, prema per andare a parlare sul palco il 23 a Roma per certificare la propria esistenza. Mentre vi sarebbe bisogno che andasse per fare irrompere in quelle tematiche e quei luoghi il peso dei nuovi lavori e dei nuovi diritti. Lavori atipici, diritti innominabili. Anche qui, e di nuovo: dei tossici, dei carcerati, degli immigrati, dei senza patria e senza diritti, come delle tute arancioni o dei lavoratori in affitto si rischia di parlare molto poco. Noi, come singoli compagni, come operatori sociali e di SERT, come Rete autoconvocata “La libertà è terapeutica”, come gruppi di tossici e di carcerati, come associazioni di base, sabato (ora 8,30 piazza Esedra-angolo via Orlando) saremo alla manifestazione di Roma sotto lo striscione “Soggetti deboli, diritti forti”. Ci sembra un piccolo ma necessario contributo affinché la sinistra, ma anche i Social Forum, si facciano maggiormente carico di alcune problematiche dell’esclusione sociale, degli ultimi tra gli ultimi, dei più poveri.

Negri: Di nuovo mi sembra di non poter che darti ragione. Ma è solo nella sperimentazione continua di nuove forme di organizzazione che riusciremo a riconquistare la poliedrica potenza dei 300.000 di Genova. Quando cominciammo a organizzare Genova ci si proposero gli stessi ostacoli che oggi di nuovo denunciamo. Quelli che io chiamo i “grunf-grunf”, che protestano a ogni iniziativa e tutto vedono come inutile . I grunf-grunf dominavano la scena. Eppure, le Tute bianche, Ya basta! e tutti gli altri compagni seppero costruire un percorso corretto che non si interruppe neppure davanti alla forsennata risposta poliziesca. Quale forma di organizzazione dobbiamo costruire per continuare quel percorso? Credo che un passaggio essenziale consista nel porre la povertà al centro del nuovo processo organizzativo: perché essa esprime la radicalità della protesta, rovescia la pervasività degli effetti distruttivi che stanno alla sua base, e produce una generosità estrema (altri parlano di amore) all’interno del movimento.

Hai ragione quando parli degli esclusi al centro dei processi di liberazione: la povertà sola, infatti, è capace di suscitare, con l’indignazione, la resistenza e di dar corpo a un progetto di democrazia assoluta. Oggi anche gli operai sanno di abitare a un passo dalla povertà: ecco dunque dove si porranno i luoghi, i territori di organizzazione, quel locale dal quale necessariamente l’iniziativa globale deve prendere le mosse. L’analisi, il progetto, il potere costituente nascono qui.

Premessa

Sui fatti del G8 di Genova sono stati scritti alcuni libri e tanti articoli oltre alla realizzazione di documentari e film. Una parte di questa letteratura e documentazione video-fotografica appare alquanto discutibile, un’altra parte resta imbrigliata in una quasi nostalgia piuttosto sconveniente e infine una parte resta documento d’archivio (fra i quali quelli del Genoa Legal Forum e del Comitato Carlo Giuliani[1]). Ciò che sembra mancare è una chiara analisi critica di quei fatti, delle loro interpretazioni ideologizzanti o mitizzanti, insomma una decostruzione degli errori di diverse componenti del cosiddetto movimento dei movimenti e anche delle loro conseguenze negative su quanto avvenuto dopo. In questo testo propongo quindi un contributo sintetico (rinvio a questi testi citati in nota[2]) per districarsi dalla palude di tanti luoghi comuni e per cercare di capire cosa imparare da questi fatti e anche del dopo e in quale prospettiva praticabile, cosa che si dovrebbe fare prima e durante i giorni a Genova nel 20 anniversario.

* * *

Il movimento contro il G8 di Genova fu sconfitto innanzitutto dalla violenza sfrenata di un dispositivo militare-poliziesco approntato e aizzato appositamente. Carlo Giuliani fu ucciso e centinaia di manifestanti furono massacrati e in parte torturati. Ciononostante ci sono ancora persone che come allora asseriscono che fu una vittoria, tesi sconcertante che è un insulto alle vittime e anche alla necessità di capire le ragioni quella sconfitta.

La prima di queste ragioni è che le diverse componenti del movimento (e molti di noi fra questi) non capirono cos’era (e cos’è) il liberismo globalizzato, ossia la strategia e la tattica dei dominanti che esclude concessioni a chi protesta contro il loro operato, mira all’erosione e persino allo stroncamento anche brutale dell’agire collettivo e per questo fa ricorso a ogni mezzo e modalità. In altre parole, non si era ancora compreso che si aveva a che fare con una controparte che considera il movimento come nemico alla stregua del confronto militare e quindi s’è dotato di un dispositivo poliziesco-militare pronto al ricorso a ogni brutalità. Eppure le informazioni per capire questa deriva militare-poliziesca erano note sin dal lancio della Revolution in Military Affairs (RMA) del periodo di Reagan oltre che con la escalation mediatica che mirava a dissuadere la partecipazione al movimento contro tale G8 a Genova. Inoltre la conversione liberista della sinistra tradizionale era già compiuta in Italia sin dal governo D’Alema, la guerra contro la Serbia e l’istituzione dei Carabinieri come 4a forza armata[3].

L’illusione assai ingenua di poter penetrare pacificamente simbolicamente nella zona rossa in base a un presunto patto fra il leader delle tute bianche e la Digos di Padova si rivelò catastrofica. Come mostra anche in modo inequivocabile il video “OP Genova 2001 – L’Ordine Pubblico durante il G8” i Carabinieri attaccarono in maniera deliberata e brutale il corteo prima che arrivasse a Brignole, ignorando persino gli ordini del commissario di polizia con la fascia tricolore. L’obiettivo stabilito innanzitutto dal Pentagono era di dare una durissima lezione ai manifestanti anche a quelli ultra-pacifici per stroncare un movimento anti-liberista che dopo Seattle rischiava di dilagare su scala planetaria. Per i dominanti (G8, lobby e multinazionali) la messa in discussione dei loro scopi era ed è inammissibile e da distruggere con ogni mezzo. Tutto il movimento era destinato ad essere trattato come un nemico in guerra. E non a caso il dispositivo e le modalità operative militari in particolare dei Carabinieri e della Guardia di finanza nonché dei servizi segreti stranieri e italiani mirarono al massacro passando anche per le torture. Si pensi peraltro alla presenza del battaglione Tuscania, già sperimentato in Somalia[4]. Da notare che gli stessi black bloc stranieri (pochi forse solo trecento) decisero di abbandonare il campo probabilmente perché compresero di trovarsi in un frame del tutto sfavorevole in quanto prevaleva il gioco del disordine voluto dal dispositivo e dall’azione di CC e GdF, servizi segreti e infiltrati. Dopo la giornata del 21 i vertici della polizia credettero di riscattarsi dalle accuse di non aver saputo frenare il “caos” puntando a “fare più prigionieri possibile” sia con arresti persino a caso e persino di minorenni e ultra pacifici e soprattutto con il blitz alla Diaz[5], una sorta di “macelleria messicana” rivelatrice della scelta della gestione ultra brutale di una polizia italiana peraltro maldestra (rivelatrici le testimonianze di Andreassi e Micalizzi). Quella notte davanti alla Diaz eravamo in pochi ma c’erano anche tanti giornalisti e parlamentari e chiedevano di entrare o di parlare con dirigenti della polizia proprio mentre era in atto il massacro che abbiamo cominciato a immaginare solo quando abbiamo visto uscire barelle con persone che perdevano sangue … Non è stato fatto, ma forse da un preciso bilancio dei danni si potrebbe constatare che quelli prodotti dalle forze di polizia sono stati maggiori di quelli dovuti alla resistenza dei manifestanti e a qualche episodio -marginale- di “saccheggio” di negozi (fra l’altro la maggioranza dei mezzi danneggiati della polizia e dei CC era innanzitutto opera di loro stessi che avevano persino rischiato di scacciare sotto le ruote i manifestanti).

Sin dal momento dell’attacco dei Carabinieri al corteo pacifico delle tute bianche si creò uno sbandamento generale e i manifestanti si mossero a caso senza sapere dove andare e come proteggersi. Come sempre in questi casi quelli che non avevano alcuna esperienza hanno avuto la peggio (e ciò anche fra qualcuno delle forze di polizia).

La sconfitta fu ancora più tremenda perché dopo il 21 non vi fu più alcuna capacità di reazione collettiva; come d’improvviso il movimento si estinse e si disperse a curarsi le ferite e a elaborare il lutto.

Dopo la mazzata pesantissima del 20-21 luglio arrivò la reazione dell’amministrazione USA all’attentato dell’11 settembre. Ossia il conclamato continuum fra guerre permanenti su scala planetaria e guerre sicuritarie all’interno di ogni paese. La guerra al terrorismo quindi si generalizzò sino a colpire anche le proteste locali contro grandi opere tacciandole di terrorismo (vedi TAV e non solo).

Ma le ragioni che riproducono le resistenze al liberismo globalizzato sono molteplici e diffuse dappertutto anche se non riescono a conquistare i sindacati e quantomeno una buona parte della sinistra storica (che si uniscono alle destre per invocare grandi opere e la sacralità della crescita economica uber alles).

La sconfitta di Genova non ha impedito il rispuntare di tanti momenti di rivolta, di resistenza, di lotta contro le diverse conseguenze del trionfo liberista. Ma di nuovo questi momenti passano e si estinguono tranne quelli circoscritti a un preciso contesto (vedi per esempio il caso dei NOTAV o quello dei nativi in Amazzonia o in Patagonia e altrove proprio perché sono resistenze per la sopravvivenza come innanzitutto fu la resistenza al fascismo e al nazismo che durò 20 anni ma ebbe un grande dispiegamento solo negli ultimi anni).

Il movimentismo e il suo “presentismo” ha la logica di inseguire ogni rivolta con l’illusione di incasellarla nel “movimento dei movimenti” ma questa è una sorta di ideologizzazione del movimento.

La mobilitazione di Genova ebbe il grande merito di agitare svariate questioni cruciali: non solo le conseguenze delle diseguaglianze economiche, sociali, sanitarie ma anche i rischi ecologici e le tragedie delle guerre. Ma mancò la comprensione che tutti i disastri sanitari, ambientali, economici e politici (fra i quali le economie sommerse e le neoschiavitù), sono tutti insieme il risultato dell’azione delle lobby e delle multinazionali su scala locale e su scala globale. Sono i disastri che non solo provocano emigrazioni disperate ma anche ogni anno quasi 60 milioni di morti. Disastri ignorati come se si trattasse di disgrazie casuali, sfortuna di chi muore di cancro o altre malattie che invece sono quasi sempre dovute a contaminazioni tossiche, a disastri ambientali, a condizioni di lavoro e di vita insostenibili. Si tratta insomma di ciò che Frederic Gros invita a capire come l’emergenza della teoria dei “disastri umanitari” e quindi della “sicurezza umanitaria” (in opposizione anzi in antitesi all’accezione sicuritaria militare-poliziesca che non a caso ignora tali disastri a sprezzo della protezione della vita animale e vegetale e quindi dell’ecosistema). Appare allora chiaro che non si tratta solo degli argomenti agitati durante Occupy Wall Street o l’analogo movimento degli Indignados in Spagna, né solo del sorprendente “movimento” dei giovanissimi contro il cambiamento climatico. Si tratta invece delle innumerevoli resistenze a ogni singola ingiustizia, sopruso e crimine contro l’umanità da parte dei dominanti come per esempio è oggi il Black Lives Matter e l’analogo movimento antirazzista in Francia, movimenti che hanno alle spalle le sconfitte di mobilitazioni precedenti sin dagli anni ’60 poi ’80 e poi ancora dopo e che sono spinti non da una sola motivazione ma da tante assieme.

Questo è il campo alcuni militanti che ancora hanno nostalgia di Genova 2001 non hanno ancora capito trascinandosi invece nell’inseguimento di una sorta di riedizione di Genova2001. Così come ancora si stenta a capire che il liberismo tende sempre più a scegliere la tanatopolitica (il lasciar morire) anziché la biopolitica del lasciar vivere. È questa la reazione dei dominanti al loro terrore rispetto a ciò che pensano sia un aumento incontrollato della popolazione mondiale che si sovrapporrebbe al cambiamento climatico e genererebbe migrazioni aggressive, invasioni di orde fameliche che devasterebbero i paesi ricchi[6]. A questo dovrebbero riflettere i militanti antiliberisti comprendendo così che il quasi genocidio dei migranti non è casuale ma allo stesso tempo non esclude la schiavizzazione di alcuni per un tempo determinato come usa-e-getta. Una tanatopolitica che è quella della devastazione dei paesi detti terzi così come preconizzava lo stesso Summers. Il liberismo globalizzato è distruzione e necropolitica. Sono le resistenze dei nativi dei territori devastati o quelle della popolazione tunisina contro la fabbrica di fosfati di Gabès o anche la lotta dei lavoratori portuali del CALP di Genova contro le navi saudite che trasportano armamenti contro gli Yemeniti, sono queste le lotte e le resistenze che saranno il futuro che conterà.

Il dopo fatti del G8 di Genova serve non per mettere un generico, inutile cappello alle lotte che si sono succedute da allora, né per reiterare la lettura ideologica dei movimenti, ma semmai per capire non solo gli errori e le illusioni tragiche di quel momento ma per rinnovare veramente l’impegno intellettuale e militante nelle nuove resistenze che si rinnovano e che hanno molteplici facce, molteplici modalità di agire collettivo che ingloba appunto molteplici componenti senza antitesi né pretesa di supremazia degli uni sugli altri, dei più radicali e dei più “pacifici”. E sta qua la ricerca di alternative attraverso la comprensione del valore del lavoro di cura e della stessa riproduzione della vita e dell’umanità in genere e quindi il rilancio di una cooperazione effettivamente antitetica alla logica del profitto, cioè di produttori e consumatori, a fianco del mutuo soccorso e infine del comune (vedi vari articoli su effimera.org).

Oggi la minaccia sta nel sovranismo e nel populismo che non sono affatto né vero sovranismo, perché è fedele agli interessi delle lobby e multinazionali e delle potenze mondiali credendo di poter scegliere il miglior alleato dominante. E non è populismo perché ignora lo stesso diritto alla vita degli stessi elettori poiché vittime di disastri sanitari e ambientali; il sovranismo-populista difende il furore di arricchirsi di padroni e padroncini sulla pelle dei lavoratori[7].

Lungi dall’essere di fronte al collasso del capitalismo, il dopo pandemia tende a condurre a una situazione peggiore di quella precedente. Occorre un salutare sguardo scettico/critico per capire l’attuale congiuntura e come resistere, resistere, resistere!

Il successo della mobilitazione antirazzista negli Stati Uniti ma anche in Francia indicano che occorre promuovere convergenze fra le molteplici ragioni delle singole resistenze. È possibile la convergenza nel reclamare non solo il definanziamento delle polizie e la protezione antirazzista e l’azzeramento delle spese militari, ma anche la destinazione di risorse alle politiche sociali contro precarietà e supersfruttamento.

All’incontro del prossimo 21 luglio a Genova riflettiamo insieme per preparare il 20° anniversario dei fatti del G8.

 

NOTE

[1] http://processig8.net/La%20Segreteria%20del%20Genoa%20Legal%20Forum.html; https://www.piazzacarlogiuliani.it/ e http://www.osservatoriorepressione.info/

[2]Sui fatti del G8 di Genova ho già pubblicato: Appunti di ricerca sulle violenze delle polizie al G8 di Genova, “Studi sulla questione criminale” 3, 1, 2008, 33-50, https://www.academia.edu/716477/Appunti_di_ricerca_sulle_violenze_delle_polizie_al_G8_di_Genova; Continuità nella sperimentazione delle pratiche violente del G8 di Genova e ripresa delle dinamiche collettive antiliberiste, in Black bloc. La costruzione del nemico, curatore  C. Bachschmidt, Fandango Libri, Rome: 2011, pp.61-74; sui cambiamenti nelle polizie: Polizie, sicurezza e insicurezze ignorate, in particolare in Italia, Revista Crítica Penal y Poder
2017, n. 13,
Ottobre (pp.233-259) http://revistes.ub.edu/index.php/CriticaPenalPoder/article/download/20385/22504

[3] http://effimera.org/appunti-epistemologia-della-conversione-liberista-della-sinistra-salvatore-palidda/

[4] Sul dispositivo militare-poliziesco fra altri si veda il numero speciale di Limes, 4/2001: https://www.limesonline.com/sommari-rivista/litalia-dopo-genova (ivi in particolare il punto di vista di militari e polizie)

[5]

[6] Vedi anche “Negazionismo, scetticismo o resistenze: dove va l’ecologia politica?” su effimera.org

[7] http://effimera.org/il-furore-di-sfruttare-e-di-accumulare-di-gianni-giovannelli-e-turi-palidda/

 

* Fonte: Salvatore Palidda, Effimera.org

Tra l’esortazione a tornare alla normalità e la marcia indietro dall’iniziale allarmismo, è arrivata una misura eccezionale, che non trova precedenti nella storia recente. La Commissione di garanzia sugli scioperi ha rivolto a tutte le organizzazioni sindacali e associazioni professionali un “fermo invito” a non effettuare astensioni dal lavoro collettive fino al 31 marzo. Motivo: l’emergenza sanitaria.

L’EFFETTO IMMEDIATO è stata la revoca dello sciopero generale del 9 marzo, lanciato del movimento Non Una Di Meno, nella cornice dello sciopero femminista globale al quale avevano aderito Slai Cobas, Usi, Usb, Cub, Unicobas, Usi-Cit, e diverse strutture regionali della Cgil.

LA LETTERE DELLA COMMISSIONE è stata preceduta da una richiesta informale, in seguito alla quale la Cgil aveva deciso di revocare lo sciopero della scuola del 6 marzo. Il provvedimento ha valenza in tutto il territorio nazionale e fa leva sulla clausola presente nella normativa che regola le professioni e che prevede la possibilità di interdire gli scioperi per cause di calamità naturale e ordine pubblico. «Rivaluteremo la situazione intorno a metà mese per capire se il limite del 31 marzo sarà riconfermato», spiega a il manifesto Giovanni Pino, capo di gabinetto della Commissione, «Capisco che da un punto di vista razionale la misura non suona» aggiunge «ma formalmente siamo nel pieno rispetto delle regole e la ratio che ha animato la decisione è l’esigenza di evitare complicazioni nella gestione pubblica dell’epidemia».

TRA LE RAGIONI avrebbe pesato anche una preoccupazione di natura politica, e cioè quella di tutelare la reputazione dell’espressione di un conflitto sociale in un momento in cui forte è il richiamo all’unità nazionale. Tempestiva è arrivata la revoca degli scioperi, seppur accompagnata da aspre critiche, mentre sono state confermate le manifestazioni previste per l’8 e il 9 marzo, le quali per ora non sono soggette a divieti se non nelle zone rosse, focolai principali del virus.

I TRATTI PARADOSSALI della situazione sono facilmente intuibili. Le attività commerciali, lavorative e gli assembramenti pubblici sono per ora consentiti, mentre parallelamente si fa ricorso, per la prima volta nella storia repubblicana, a un divieto di sciopero su scala nazionale.

«REGISTRIAMO L’ENNESIMO ATTACCO al diritto di sciopero in nome dell’emergenza Coronavirus» si legge nel comunicato rilasciato ieri in serata da Non Una di Meno. «Tale intimazione si aggiunge alle condizioni materiali e economiche estremamente dure, specialmente nelle regioni sottoposte a ordinanze per contenere il contagio. Il peso dell’emergenza si sta scaricando infatti soprattutto sulle donne che hanno perso il salario o ricevuto salari ridotti perché costrette a casa dalla chiusura delle scuole, a turni di lavoro raddoppiati nei servizi socio-sanitari, in assenza di qualsiasi tutela e supporto pubblico» continuano le attiviste che però rilanciano sulla mobilitazione: «Nonostante l’impossibilità di astensione dal lavoro salariato, l’8 e 9 marzo non rinunceremo affatto a occupare le strade e le piazze in tutte le forme che saranno possibili, accanto ad ogni lotta femminista nel mondo. Daremo in tempo reale tutti gli aggiornamenti sul blog nazionale e i canali social di Non Una di Meno» concludono nella nota alla stampa.
A Roma per ora la questura ha confermato la piazza del 9 e Flc Cgil e Fp Cgil di Roma e Lazio hanno annunciato la loro presenza in corteo a sostegno della protesta femminista.

RESTII A PRESENTARE LA REVOCA dello sciopero Slai Cobas e Usi, che negano il carattere cogente della misura. La richiesta della Commissione, formalmente non è un vero divieto, ma prevede l’adozione di misure disciplinari verso singoli lavoratori o o sigle che decidano di non uniformarsi a quanto disposto.

Anche per questo motivo nel mondo sindacale fioccano preoccupazioni e malumori. «Siamo un paese infetto, è vero. Ma il virus in circolazione è la dittatura del mercato, la forma moderna del fascismo» si legge nella nota di usb che accompagna la revoca dello sciopero. Mentre dalla pagina web della minoranza Cgil “Riconquistiamo tutto” si legge: «le lavoratrici e i lavoratori sono lasciati nell’incertezza: se non lavorano, moltissimi sono ancora senza garanzia dello stipendio e nemmeno certezze sugli ammortizzatori sociali; se lavorano non hanno ancora certezza sui rischi che corrono e sulle relative disposizioni di sicurezza». L’epidemia di Covid-19 sta ponendo il paese di fronte a una situazione inedita, i cui risvolti sono poco prevedibili. Ma nella gestione di questa emergenza affiorano in controluce le enormi contraddizioni politiche del paese.

* Fonte: Shendi Veli, il manifesto

 

«Lei non può vedere e sentire il mondo che le si stringe intorno, ma lo percepisce»

TORINO. Silvano Giai è il marito di Nicoletta Dosio, da circa un mese rinchiusa nel carcere delle Vallette di Torino. Si conoscono da quarantadue anni, tempo in cui hanno condiviso amore, ideali e lotta sul campo

Come sta sua moglie?
Nicoletta sta bene. Ha subito però un intervento chirurgico lo scorso venerdì i cui esiti si conosceranno tra qualche giorno. Un’operazione programmata da tempo, che non è stata invasiva come temevamo. Sono rimasto però molto stupito e turbato dall’apparato di sicurezza schierato intorno a una donna di oltre settanta anni che, nella sua vita, mai ha fatto il minimo gesto di violenza.

Può spiegarci meglio?
L’hanno portata venerdì mattina in ospedale, ma l’operazione in realtà era prevista una settimana fa. L’abbiamo vista quando è tornata, in camera. Piantonata. C’erano tre operatori della penitenziaria, e poi si sono presentati sei militari. Successivamente è arrivata la Digos: dieci e forse più persone per controllare Nicoletta, in corsia. Cosa pensavano che accadesse? Che qualcuno assaltasse una sala operatoria? La costruzione mediatica che criminalizza i No Tav fa leva su queste inutili scene. Io e l’avvocato difensore ci siamo fermati poco tempo e attualmente si trova in carcere.

Lo stato d’animo com’è?
Regge, come sempre. Nicoletta è una donna forte e coraggiosa, ma soprattutto è molto lucida in quello che fa. Quanto le accade fa parte di un percorso politico che noi abbiamo scelto: un percorso pacifico, non violento. E questo la rende serena e, per molti aspetti, fiera. Il morale, in fondo, è quello che va meglio di tutti: lei è fatta così. Il carcere ovviamente è un luogo duro, e questo si evince anche dai suoi racconti, dalle lettere che scrive ad amici e compagni.

Da quanto tempo è in carcere?
Sono trenta giorni che non è più a casa. Racconta che dalla sua cella vede la neve delle nostre montagne, e questo la fa sentire vicino a noi. Ma Nicoletta, a casa, non c’è: è in prigione per una pena sproporzionata che ha colpito lei e tutti coloro che hanno deciso di difendere i beni pubblici e la natura. Dovrà scontare un anno, in tutto: lo farà con dignità, senza alcuna richiesta di grazia. Lei non può vedere e sentire il mondo che le si stringe intorno, ma lo percepisce: le «Donne No Tav» la scorsa sera hanno fatto un aperitivo con brindisi in suo onore ai cancelli del cantiere di Chiomonte. Ci sarà un’iniziativa a Torino all’inizio di febbraio, un concerto. Riceve mazzi di lettere da tutta Italia. Nicoletta è in carcere, ma è nel cuore di tutti coloro che ancora ne hanno uno.

Lei come sta?
Io bene. Certo mi manca. Non si può non essere preoccupati, ma è una scelta che si è discussa, ponderata, e poi eseguita. Come tutte le scelte vanno sostenute e portate avanti nel modo migliore, senza abbattersi quando i giorni sono tristi. Stiamo girando per l’Italia, ci hanno contattato dall’intera Europa trenta organizzazioni. In Grecia, nei primi giorni di febbraio, ci sarà una manifestazione per Nicoletta: sarà molto partecipata e forte, allegra, come è mia moglie.

Le istituzioni esistono in questo momento complicato?
So che verrà presentato da alcuni parlamentari un disegno di legge sull’amnistia sociale e poi inizierà una raccolta firme nazionale per una proposta di legge popolare. Speriamo che questi piani riescano a smuovere la situazione per le lotte sociali che sono oggetto di una grave repressione: è un contesto tragico. E d’altronde mia moglie ne è testimone: i suoi racconti del carcere sono storie di povertà e solitudine.

E gli animali di Nicoletta? La cercano?
La aspettano: i suoi gatti sentono la mancanza più di tutti, in particolare Nerino. Solo un po’ di pazienza e ci ritroveremo tutti quanti.

* Fonte: Maurizio Pagliassotti, il manifesto

«Fuori mi aspettano in molti e sento il loro affetto: la mia famiglia, i compagni, gli amici. Ma qui dentro ci sono esseri umani, tanti, che fuori non hanno nessuno e questo mi dà il tormento più della mia detenzione»: queste le parole che Nicoletta Dosio ha affidato ieri al senatore Tommaso Cerno, Pd, primo parlamentare che si è recato presso il carcere torinese Lorusso Cutugno dove da undici giorni è detenuta l’ex docente di greco e latino. Parole che raccontano l’essenza di questa donna di 73 anni.

«Nicoletta Dosio – ha detto Cerno uscendo dal penitenziario – è una donna energica, profondamente umana, che ha deciso di spendersi anche dentro il carcere in favore degli ultimi e delle ultime di questo mondo. Io, per quanto mi riguarda, mi farò portavoce della richiesta di amnistia per i No Tav perché le inchieste e i processi sono stati usati per reprimere un dissenso legittimo. Penso che sia il minimo, visto che hanno ragione».

Come era prevedibile la carcerazione di Nicoletta Dosio esce dalla cronaca ed entra in una dimensione politica dalle conseguenze imprevedibili. Intorno a lei, come agli altri incarcerati del Movimento No Tav, si stringe un mondo di solidarietà e affetto; oggi è il giorno della manifestazione No Tav a Torino, idea nata dopo che Dosio è finita dietro le sbarre volontariamente, per riportare al centro del dibattito politico l’infinita vicenda della Torino-Lione, derubricata a «capitolo chiuso» dal governo precedente e da quello attuale. Ma la val Susa non è d’accordo, anche perché in Francia aumentano i pareri contrari ed è polemica su un presunto conflitto di interessi della ministra Borne. Il corteo partirà da piazza Statuto alle 14 e si annuncia come uno dei più partecipati di sempre: sono attesi decine di autobus in arrivo da tutta Italia. Manifestazione che si annuncia pacifica, come sono sempre stati i cortei che da quasi venti anni attraversano Torino per dire «no» al tunnel di base della Torino-Lione. Il primo fu nel 2001, al tempo della conferenza intergovernativa italo francese, una delle molte che hanno ribadito l’assoluta irrinunciabilità dell’opera, che però mai si è concretizzata. Venti anni fa marciarono in duecento: oggi saranno almeno 30mila. Il Procuratore generale Francesco Saluzzo ha decretato una sorta di coprifuoco sul Tribunale di Torino: resterà chiuso e presidiato dalle forze dell’ordine, anche se non si trova lungo il percorso del corteo ed è lontano oltre un chilometro dal punto di partenza.

Intanto le manifestazioni di solidarietà ai No Tav incarcerati si ripetono da dieci giorni in tutta Italia e non solo. Sulla pagina social di Nicoletta Dosio sono pubblicate quotidianamente le foto di manifestazioni piccole e grandi: sono nati gruppi di solidarietà a San Francisco, Gaza, Buenos Aires, nonché in una miriade di comuni italiani.

Ieri la Rete No Tav Roma ha manifestato con un blitz davanti al ministero della Giustizia aprendo uno striscione con scritto «Nicoletta libera tutti», distribuendo volantini e parlando con i passanti. «Siamo davanti a questo ministero che dovrebbe garantire la giustizia nel nostro paese e invece garantisce il privilegio di pochi e la repressione per chi resiste ai soprusi. Chiediamo libertà immediata per tutti gli arrestati nella lotta popolare contro il raddoppio della Torino-Lione» hanno dichiarato alcuni di loro.

* Fonte: Maurizio Pagliassotti, il manifesto

La prima manifestazione nazionale No Tav in solidarietà con Nicoletta Dosio e di altri arrestati del movimento, si terrà a Torino sabato 11 gennaio. Appuntamento alle 13 in piazza Adriano, già ritrovo e punto di partenza di un imponente corteo No Tav nel 2016, quando giunsero da tutta Italia circa ventimila persone. Ma, questa volta, probabilmente si tenterà di bissare le dimensioni di massa del dicembre 2018.

Proseguono nel frattempo sit-in di solidarietà in varie parti d’Italia (da Siracusa a Pescana alla stessa Torino, dove oggi questa mattina è prevista una manifestazione di Potere al popolo in piazza Castello).

Si allarga anche la rete di solidarietà: la Fiom di Torino e nazionale si sono schierate al fianco di Nicoletta Dosio e del Movimento No Tav, di cui peraltro sono parte fin dagli albori: «Non vogliamo entrare nel merito della decisione del procuratore generale del Piemonte di revocare la sospensione della pena nei confronti di Nicoletta Dosio, vogliamo però far sentire la nostra vicinanza alla storica militante del movimento No Tav. Continueremo a sostenere con determinazione il movimento, a farne parte integrante, per continuare ad affermare che la democrazia, la partecipazione, il dissenso e l’inclusione sono valori portanti della nostra Costituzione, che vanno applicati costantemente nella realtà della vita delle persone».

Intanto trova spazio il dibattito sull’ipotesi di «grazia ad personam» avanzata nei giorni nei giorni scorsi, ipotesi che Nicoletta Dosio, incarcerata a Torino, ieri ha respinto chiedendo invece un’amnistia allargata: «No a richieste di grazia o a provvedimenti di clemenza che riguardino soltanto la mia persona – ha sottolineato -. Sì ad una amnistia sociale che riguardi i reati connessi ai comportamenti dettati dall’aggravamento della povertà prodotto dalla crisi economica negli ultimi anni».

Sulla stessa posizione il movimento No Tav che in una nota dichiara: «Non è questa la strada giusta, la grazia non la vuole Nicoletta, e non la chiederà per se stessa, perché non è il fatto di risolvere la sua situazione attuale ma quella di riconoscere come in tutti questi anni procura, questura e tribunali abbiano giocato una partita politica, delegati dallo Stato. Noi vogliamo che si dica che il Tav è un’opera inutile, devastante e che tutti vengano liberati e la valle venga smilitarizzata. Non è pretendere troppo, ma il giusto. Libertà per tutti e tutte, siamo solo all’inizio di questa lotta».

* Fonte: Maurizio Pagliassotti, il manifesto

BUSSOLENO. L’osteria «La credenza» di Bussoleno è stata per anni il cuore del movimento No Tav, e solo pochi anni fa Nicoletta Dosio e il marito Silvano hanno ceduto la gestione a una donna curda, e alla sua famiglia, profuga di guerra.

Sotto le bandiere No Tav che pendono ancora dal balcone dell’antica osteria ieri sera si sono dati appuntamento migliaia di amici e compagni di Nicoletta: un lungo serpentone ha marciato per oltre un’ora, illuminato dalle fiamme delle fiaccole che in molti reggevano in mano. Volti noti, ma anche persone mai viste prime mosse dall’enormità di quanto accaduto. Una comunità vagamente preoccupata per le sorti di una donna rinchiusa in carcere, dove sconterà una pena detentiva di nove mesi.

«HAI VISTO? L’ha fatto sul serio, è andata fino in fondo», «Chissà come sta là dentro, da sola, in un carcere a quell’età»: questi i commenti più diffusi in un mondo che più che arrabbiato si sente offeso da una scelta voluta dalla Procura di Torino.
Che attraverso un comunicato del Procuratore Generale Francesco Saluzzo ha sottolineato come la carcerazione di Nicoletta Dosio sia un passaggio formale atto a non creare disparità di trattamento.

«Chi ha mosso le critiche – ha dichiarato il procuratore – non vorrebbe che i cittadini fossero trattati secondo il cognome o le ragioni che hanno spinto a delinquere. Tutti hanno diritto allo stesso trattamento e nei confronti di tutti vi è il dovere di applicare il trattamento previsto, che è solo quello dettato dalla legge. Solo il legislatore, nella sua saggezza, può modificare le norme, a patto che rispetti i principi costituzionali».

IN PRECEDENZA aspre critiche erano giuste perfino da esponenti del Partito Democratico, come il sottosegretario dem all’Ambiente Roberto Morassut: «Non condivido nulla del movimento No Tav, ma le proteste anche scomode e con le quali non si è d’accordo non vanno ignorate. Trovo sproporzionato l’arresto di Nicoletta Dosio. Credo sia una misura sbagliata e senza senso, frutto di un meccanismo burocratico che prescinde dalla concretezza delle cose». Imbarazzo invece dal M5s, che tra i No Tav ha fatto il pieno di voti eleggendo tre parlamentari: Luca Carabetta, Laura Castelli e Alberto Airola, al momento silenti.

NICOLETTA DOSIO, intanto, ha fatto pervenire una lettera dal carcere dove è rinchiusa: «Sto bene e sono contenta della scelta che ho fatto perché è il risultato di una causa giusta e bella, la lotta NoTav che è anche la lotta per un modello di società diverso e nasce dalla consapevolezza che quello presente non è l’unico dei mondi possibili». Lettera che prosegue ricordando gli altri tre incarcerati per reati relativi alle dimostrazioni contro la Torino – Lione: «Sento la solidarietà collettiva e provo di persona cosa sia una famiglia di lotta. L’appoggio e l’affetto che mi avete dimostrato quando sono stata arrestata, e le manifestazioni la cui eco mi è arrivata da lontano, confermano che la scelta è giusta e che potrò portarla fino in fondo con gioia. Parlo di voi alle altre detenute e ripeto che la solidarietà data a me è per tutte le donne e gli uomini che queste mura insensate rinchiudono».

IN QUESTE MANIFESTAZIONI, che da decenni vengono aperte delle donne Notav, Nicoletta Dosio sarebbe stata in testa al corteo, tra coloro che reggono lo striscione: ieri sera il suo posto era occupato da un’altra donna della valle, una delle tante impegnate nella battaglia contro il super treno che dovrebbe collegare Torino a Lione.

Presenti diversi rappresentanti di Potere al Popolo – di cui la Dosio è una delle coordinatrici nazionali, la più votata – in arrivo da tutta Italia e Rifondazione Comunista. Sotto un cielo stellato e con un freddo pungente il corteo ha girato per le strade del paese, fermandosi poi di fronte al monumento ai caduti Partigiani.

Qui il professor Luigi Richetto, storico e filosofo nonché collega di Nicoletta Dosio, ha così sottolineato l’impegno della storica militante No Tav: «Una partigiana da sempre. La sua vita è stata caratterizzata da un impegno costante e schierato in ogni campo: scuola, famiglia, lavoro». Il coro che ha scandito per lunghi minuti la marcia ricordava questo tratto della Dosio, definita: «partigiana, generosa e fiera». Prossime iniziative di protesta e solidarietà sono previste in tutta Italia.

* Fonte: Maurizio Pagliassotti, il manifesto

TORINO. Una valle in tumulto per lei, che invece sorrideva serena: Nicoletta Dosio, già docente di greco e latino e fondatrice del Liceo Norberto Rosa di Bussoleno, chiusa dentro l’auto delle forze dell’ordine che se la portava via, salutava con un bel sorriso e il pugno chiuso.

La mano di una donna anziana ma non stanca che sventola, sempre chiusa dentro un’automobile e seduta di fianco a un carabiniere, un fazzoletto No Tav, mentre intorno a lei decine di persone accorse da tutta la val Susa bloccavano per oltre un’ora chi aveva il compito di portarla via dalla sua terra: direzione carcere. Urla della folla – «vergogna», «fascisti», «andate a prendere i ladri invece di venire qui da una settantenne» – si alzavano nella notte ghiacciata di Bussoleno, davanti alla casa dove Nicoletta e il marito Silvano nei decenni hanno accolto ogni debolezza tirasse la cordicella del vecchio campanaccio. Perseguitati dalla legalità, perseguitati politici, migranti in fuga, migranti con piedi bruciati dal gelo accuditi per mesi come figli, partigiani curdi, persone allo sbando. E in più offrivano un letto caldo: tutti questi e infiniti altri. Non solo, perché anche animali abbandonati hanno colonizzato la vecchia casa sormontata da due enormi cedri: cani, gatti, asini, oche, pecore, capre, caproni. A causa della sua esposizione a volte glieli ammazzavano, quegli animali: lei soffriva, molto, e poi ne prendeva altri.

Condannata con altri diciannove militanti No Tav in un recente processo, aveva rifiutato la concessione delle pene alternative al carcere. Una scelta consapevole del destino che le sarebbe toccato. «Non sarò la carceriera di me stessa a casa mia», diceva. E aggiungeva: «Veniamo tutti condannati per cosa? Per un vicenda dove lo Stato italiano ha messo nero su bianco, numeri alla mano, che abbiamo ragione noi». Si riferiva alla valutazione costi benefici partorita dal precedente governo. Valutazione che per lei altro non era che una prova accessoria, nemmeno dirimente, perché la sua contrarietà alla Torino – Lione fonda su principi non meramente econometrici ma umani: «Come è possibile annientare così una popolazione, che per giunta persegue un bene comune?», domandava.

«Andrò in carcere – diceva solo pochi giorni fa – dove troverò altri oppressi, altri ultimi, con cui solidarizzare e creare una nuova famiglia. Andrò in carcere perché di Tav non si parla più. Lo si considera un capitolo chiuso: e quindi con il mio corpo dietro le sbarre voglio riaprire questa storia indecente».

L’avvocata che la segue, Valentina Colletta ieri sera dichiarava: «Nicoletta era molto decisa, ma il mondo intorno a lei no.Una situazione grave con responsabilità che ricadono non solo su coloro che hanno deciso di portarla via questa sera, ma sopratutto su chi l’ha condannata».

Presidi e manifestazioni sono previste nei prossimi giorni a Torino e in Italia.

* Fonte: Maurizio Pagliassotti, il manifesto

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