Internazionale

L’ex generale dell’esercito sandinista era in carcere da sei mesi per «tradimento»: aveva criticato quella che definiva la peggiore dittatura. Ignote le cause della morte, da tempo i familiari denunciavano le pessime condizioni di detenzione. Nel ’74 liberò l’attuale presidente dalle prigioni di Somoza

 

«Non avrei mai immaginato alla mia età di dover lottare in forma civica e pacifica contro un’altra e peggiore dittatura di coloro con i quali avevo condiviso i valori di giustizia e libertà». È la frase che l’ex comandante guerrillero Hugo Torres aveva pronunciato poco prima di essere arrestato in Nicaragua dal regime orteguista per «tradimento della patria» il 13 giugno scorso.

Torres, 73 anni, ex generale dell’Ejercito Popular Sandinista durante la rivoluzione, è deceduto lo scorso fine settimana nell’ospedale capitalino della polizia. Era stato ricoverato nel dicembre scorso dopo vari svenimenti nella cella del carcere del Chipote dov’era finito (in salute) sei mesi prima. La stessa galera, sulla collina che domina Managua e il lago Xolotlán, in cui un tempo la dittatura dei Somoza rinchiudeva a marcire i ribelli sandinisti.

Una detenzione fatta d’isolamento, malnutrizione, maltrattamenti, interrogatori continui e scarse visite dei familiari, che denunciano invano il trattamento disumano cui sono sottoposti 168 prigionieri politici di varia tendenza, la cui unica colpa è dissentire da Daniel Ortega e dalla sua co-presidente (nonché consorte) Rosario Murillo. Alcuni di essi/e erano aspiranti presidenti alle elezioni farsa del novembre scorso dove la coppia si è rinnovata per un quarto mandato consecutivo.

Ma un accanimento particolare è riservato proprio agli ex compagni di lotta che fin dagli anni ’90, come Torres, criticano Ortega per aver ribaltato, in un delirio messianico di potere, i valori del sandinismo rivoluzionario. E che nel 2018 solidarizzarono con la rivolta popolare lanciata dai giovani universitari, soffocata nel sangue dal neo tiranno con un saldo di almeno 352 vittime.

Tra loro, in assai precarie condizioni, il quasi 80enne ex sacerdote-ministro (alla famiglia) Edgar Parrales; Victor Hugo Tinoco (ex viceministro degli esteri) e Doria Maria Tellez (ex ministro alla sanità), condannata la scorsa settimana a otto anni di reclusione per fantomatici «atti contro l’indipendenza e la sovranità nazionale» in un pseudo-processo che invece che in tribunale si è svolto nello stesso penitenziario, senza che avesse potuto mai incontrare un avvocato.

Con loro ci sono pure in attesa di giudizio 27 detenuti fra i 19 e i 25 anni, a cominciare da uno dei leader di quella sollevazione, Lesther Alemán. Senza contare gli oltre centomila nicaraguensi che hanno scelto o dovuto abbandonare il paese.

Stavolta l’imbarazzo del clan Ortega per la morte di Hugo Torres è palpabile. Al di là dei comunicati ufficiali in cui non si chiariscono le cause del decesso, si giunge a inventare una precedente cancellazione del processo a suo carico per «ragioni umanitarie» e si menziona una presunta volontà dello scomparso di non voler alcun tipo di esequie. L’esoterica tuttofare Rosario Murillo è arrivata incredibilmente a decretare festivo lunedì 14 febbraio per san Valentino.

Ma cosa starà pensando davvero Daniel Ortega del mitico comandante Hugo Torres e (con lui) i tre generali che si sono succeduti finora alla testa dell’esercito, che furono liberati dalle prigioni somoziste quella vigilia di Natale del 1974 dopo una brillante operazione guerrigliera con lo stesso Hugo nella quale furono presi in ostaggio diversi esponenti della dittatura di allora?

E come reagiranno i 60 militanti sandinisti rilasciati (insieme allo scomparso fondatore del Frente Sandinista Tomás Borge) nell’agosto ’78 quando ancora lui (l’unico a cimentarsi in entrambe le azioni) partecipò con Dora Maria Tellez all’assalto del parlamento somozista, per portarli poi tutti in salvo (in entrambi i casi) a L’Avana?

* Fonte/autore: Gianni Beretta, il manifesto

 

 

ph by Confidencial, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0>, via Wikimedia Commons

C’è ancora, fra le tante carte che via via si accumulano e che non butti mai perché ti ricordano momenti speciali della vita (e della storia) un biglietto ingiallito, un messaggio a matita reso conciso dalla circostanza. E’ di Otelo de Carvalho, morto ieri: una scomparsa che ha emozionato una buona parte del mondo, profondamente la mia generazione, per nulla Millennials e affini, per i quali – ho scoperto – l’amatissimo protagonista di un evento così importante del ‘900 è uno sconosciuto.

In quel biglietto, il generale de Carvalho mi dice che l’appuntamento che avevamo poche ore dopo salta: lo stanno arrestando.

No, non è il tragico arresto degli anni ’80, una stagione tutta diversa, quando fu preso a casa sua e poi condannato a 15 anni di prigione per terrorismo, un episodio tutto ancora da chiarire, assai probabilmente una montatura poliziesca fondata sulla sua grande ingenuità che non gli aveva fatto mai interrompere i rapporti con un minuscolo gruppo estremista nella speranza di convincerli a desistere dal loro ridicolo piano golpista. Lo fecero uscire in libertà provvisoria dopo due anni e poco dopo lo amnistiarono perché – credo – gli stessi che lo avevano condannato si vergognarono. Come tutto il Portogallo, sbalordito perché si era arrivati a tanto: arrestare l’eroe più coraggioso, più popolare della Rivoluzione che aveva portato la democrazia nel paese, quello che aveva avuto un ruolo decisivo nei momenti – nei tanti momenti difficilissimi – che segnarono per anni il processo che seguì l’insorgenza liberatoria da uno dei più tristi regimi fascisti d’Europa, quello di Salazar.

Quando quel mio appuntamento con Otelo – non il primo – fu reso impossibile, era il ’75 ,o il ’76, non ricordo. Per arrestarlo, una fazione di destra dell’esercito aveva ridicolmente utilizzato una norma che proibiva ai militari dichiarazioni politiche.(Figurarsi, i militari in quel momento erano la politica, tutto il potere era affidato all’assemblea del MFA, il Movimento delle Forze Armate!).

Io ero a Lisbona perché per il manifesto ci restai per mesi, e poi avanti e indietro, seguendo la triste traiettoria che alla fine “normalizzò” il paese. Di cui conservo nella memoria una di quelle immagini che non si cancellano, per la gioia che evocano o,all’opposto, per il dolore.Questa mi fa tutt’ora piangere.

Si trattò di uno degli ultimi atti: un Comitato centrale del PCP riunito, per ragioni di sicurezza ormai già necessarie, nella palestra di un paesino 100 km a nord di Lisbona – Alcabasa – che avevo raggiunto nella notte assieme ad altri giornalisti perché ci avevano svegliato e avvertito che i “comunisti erano stati accerchiati” e ora erano asserragliati nella palestra, minacciati da una folla di contadini armata, trattenuta “a stento” – così l’informazione ufficiale – dall’esercito, un reggimento comandato dal generale di destra Charais, che operava nel nord del Portogallo, la zona conservatrice del “minifundo”, spaventata dalla mobilitazione per la riforma agraria delle masse bracciantili delle zone rosse dell’Alentejo, nel sud, quelle del “latifundo”.

Quando arrivammo già sparavano, e fummo costretti a rifugiarci sotto le macchine. Poi, la messa in scena della odiosa mortificazione: i membri del Comitato centrale caricati sulle autoblindo militari, una lunga colonna, ai lati, esultanti, le bande di piccoli agrari reazionari.

Attraverso i vetri intravidi il volto terreo di Alvaro Cunhal, segretario del PCP, responsabile di molti gravi errori di quel periodo, ma un uomo che proprio a 15 km da lì, nel carcere di Peniche, aveva passato decenni, quello in cui, appena arrestato, era stato tenuto legato per i piedi, appeso a testa in giù. Per giorni.

La morte di Otelo mi ha messo tristezza, ma anche di più che i giovani non sapessero chi era. Forse per questo sto ricordando le cose tristi della stagione dei garofani, che furono invece una straordinaria esplosione di gioia e di inventiva popolare. Che trovava legittimazione nientemeno che in un gruppo di militari golpisti, ma rivoluzionari. Il contrario di quanto un anno prima era accaduto in Cile.

Fra le carte che conservo, c’è anche uno stravagante documento: la copertina di una pubblicazione portoghese dell’epoca, O Journal, che raffigura i leader rivoluzionari di tutti i tempi seduti sui banchi di scuola: da Lenin a Mao a Gramsci a Bakunin a Trotzki , senza dimenticare né Stalin né Rosa Luxemburg, ma anche Marcuse e Sartre e Bertrand Russell, il volto assorto di chi è alle prese con un rompicapo.

Alla lavagna la carta del Portogallo sovrastata da un punto interrogativo: che diavolo è questa rivoluzione condotta da militari che hanno letto Marx, non uno dei soliti colpi di stato militari, magari progressisti e però autoritari, come tanti altri nel terzo mondo, ma un’apertura di credito piena e persino eccessiva ad ogni possibile esperienza sociale di base, una straordinaria multiforme politicizzazione non solo consentita ma anche sollecitata, uno slogan ,”el poder o povo”, che è anche un progetto – il “piano-guida” – di democrazia diretta? Per tutti, un rebus.

Il vero enigma, la specificità della vicenda, era in effetti questo Mfa, Movimento delle Forze Armate, che , allontanato il reazionario colonnello Spinola, aveva preso le redini del paese avviando una serie di processi inediti nella storia dei socialismi realizzati.

Ed è ben comprensibile che l’esperienza che si metteva in moto avesse affascinato la nuova sinistra di tutta Europa, in quegli anni alla ricerca di una strada che non ripercorresse gli errori sovietici ma nemmeno segnasse la rinuncia a combattere il capitalismo.

Non meraviglia che Lisbona sia diventata subito e poi per un lungo periodo la capitale dei sessantottini di tutto il mondo, italiani in particolare.

All’aeroporto, ricordo, accanto agli schermi che annunciavano arrivi e partenze, c’erano i cartelli che riportavano i nostri appuntamenti: “Lotta Continua stasera si riunisce alle 22,30 a…”, “Il Pdup-manifesto alle 21 lì…”.

Nei nostri appuntamenti serali, in cui ci immergevamo appena finiti i quotidiani cortei, si discuteva fino all’alba e ci si incontrava con i nuovi compagni che la rivoluzione dei garofani ci aveva inaspettatamente offerto.

Noi de Il Manifesto-Pdup vedevamo quelli del Mes, il movimento della sinistra socialista, per i quali il nostro comunismo eretico costituiva un punto di riferimento. Fra loro Jorge Sampajo, che venne anche a Bologna al nostro congresso nazionale del 1975 a capo di una delegazione del Mes, movimento della sinistra socialista, in seguito, dal 1996 al 2006, nientemeno che presidente della Repubblica Portoghese.

Come sono poi andate a finire le cose è storia nota. Anche fra di noi – giornalisti e militanti di sinistra (le due cose spesso si sovrapponevano) – discutemmo nei mesi di declino della rivoluzione su come giudicare il rapidissimo succedersi degli eventi.

Ricordo le lunghe telefonate fra Lisbona e la redazione a Roma: come valutare il documento varato il 25 marzo dai nove ufficiali “ragionevoli”, autore principale Melo Antunes, il più saggio degli ufficiali, che giustamente cercò una stabilizzazione ragionevole.

Cosa diceva Otelo, soprattutto, che l’aveva firmato anche lui sebbene ragionevole, nel bene e nel male, non era stato mai.

Ma il giudizio di Otelo ci premeva, era una convalida decisiva. Perché abbiamo tutti sempre avvertito che avrebbe difeso fino in fondo l’idea che una democrazia è tale se al popolo si danno tutti i possibili strumenti per decidere. Ciao Otelo. Sei morto comunque in un momento della vita politica del Portogallo migliore di quella che avrebbe potuto capitare: fra tutti i paesi europei il Portogallo mi sembra quello che ha il governo migliore, un primo ministro socialista fra i meglio, appoggiato, sia pure con molte

critiche, da due partiti di sinistra consistenti: il vecchio PCP molto rinsavito, il Bloque, che ebbe la sua prima pubblicazione ufficiale intitolata “O Manifesto”, per via del nostro giornale e dello stretto rapporto che uno dei suoi fondatori, Miguel Portas, ebbe con il Pdup.

* Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

Dall’archivio, l’intervista del 1976 a Otelo de Carvalho di Rossana Rossanda

ph by I, Henrique Matos, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0>, via Wikimedia Commons

Da diversi giorni, Patxi Ruiz, un prigioniero politico basco, ha intrapreso una dura battaglia per la vita, contro la repressione carceraria e le minacce di morte fatte dai funzionari, che sta subendo nella prigione di Murcia in Spagna.
La storia inizia quando Patxi, insieme ad altri prigionieri, partecipa ai raduni per chiedere che la loro sicurezza sia garantita di fronte alla minaccia Covid-19. Patxi Ruiz, ha deciso di iniziare lo sciopero della fame e della sete, a causa  del quale ha smesso di urinare e soffre di forti dolori ai reni.

A suo sostegno sono state promosse iniziative e una raccolta di firme: https://borrokagaraia.wordpress.com/2…

e diffuso questo video su youtube:

 

Impossibile da dimenticare il lancio del nuovo partito di Bolsonaro, Aliança pelo Brasil, nato dalla costola (ancora) più fascista del già estremista Partido social liberal (Psl), la forza politica con cui è arrivato alla presidenza del Brasile e da cui è uscito per i sempre più gravi dissapori con il presidente Luciano Bivar. Si tratta del decimo cambio di casacca, per Bolsonazi, come lo chiamano i suoi numerosi critici.

MA SI CAPISCE SUBITO che questa, di casacca, gli sta a pennello. Anche perché a presiedere il partito sarà lui stesso e a fargli da primo vicepresidente sarà il primogenito Flávio, lo 01. Alla prima convenzione nazionale dell’Aliança pelo Brasil, che si è svolta giovedì in un hotel della capitale, non mancava proprio nessuno degli ingredienti a lui cari: offese ai giornalisti da parte di militanti con magliette inneggianti al torturatore della dittatura Brilhante Ustra, riferimenti a Dio e alla religione, battutacce a sfondo sessuale e slogan anticomunisti («La nostra bandiera non sarà mai rossa»). E, soprattutto, la presentazione di un quadro con il nome del partito completamente fatto di proiettili, seguita da lì a poche ore dall’annuncio che il numero con cui si presenterà alle urne è il 38, come il calibro della famosa pistola («facile da ricordare»).

UNA SCELTA IN LINEA con l’imprescindibile missione di «lottare instancabilmente per garantire a tutti i brasiliani il diritto inalienabile al porto d’arma». Missione che andrà ad affiancare la lotta per restituire a Dio il suo posto «nella vita, nella storia e nell’anima dei brasiliani», per bandire ogni traccia di comunismo e di «globalismo», per sanare «la piaga ideologica» dell’«ideologia di genere». Per il vero esordio del partito bisognerà forse aspettare ancora un po’, essendo necessario raccogliere prima 500mila firme in almeno nove stati della federazione e attendere il via libera del Tribunale elettorale. Un’impresa che difficilmente potrà essere realizzata in tempo utile per prendere parte alle municipali del 2020.

Ma intanto fa già molto discutere l’«orientamento esplicitamente fascista» della nuova forza politica, su cui pone per esempio l’accento il capogruppo del Pt alla Camera dei deputati Paulo Pimenta, il quale non esita neppure a descriverla come il «partito delle milizie», in riferimento ai legami inoccultabili del clan Bolsonaro con le bande paramilitari di Rio de Janeiro coinvolte nell’omicidio di Marielle Franco, per cui ora è indagato anche il figlio Carlos, lo 02.

E, A PROPOSITO DI FASCISMO, grande scalpore ha suscitato anche l’annuncio di un atto solenne in omaggio a Pinochet da parte dell’Assemblea legislativa dello stato di São Paulo (Alesp), voluto da Frederico d’Avila, deputato statale del Psl ritenuto vicino all’Aliança pelo Brasil, e fissato oltretutto il 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani. Difficile tuttavia che l’evento possa realizzarsi: il presidente dell’Alesp, il socialdemocratico Cauê Macris, ha già dichiarato che lo impedirà.

* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto

Il continente latinomericano torna a essere vittima di colpi di Stato militari, giudiziari, parlamentari; le vittime sono sempre i popoli che patiscono morti, feriti, arresti, violenza sociale e strutturale.

I governi neoliberisti portano nei nostri paesi fame e povertà, distruzione della capacità produttiva, dollarizzazione dell’economia assoggettata alla speculazione finanziaria con processi inflazionistici inimmaginabili, come quello patito dall’Argentina.

La ribellione dei popoli arriva quando le condizioni di vita diventano insostenibili e si afferma la disperazione. Dietro tutti i meccanismi di dominazione c’è la mano degli Stati uniti che non vogliono perdere il controllo continentale e che, come negli anni Settanta, favoriscono colpi di Stato imponendo la dottrina della sicurezza nazionale e attuando il Piano Condor II.

È avvenuto contro il presidente Manuel Zelaya in Honduras, un’esperienza pilota con il golpe civico-militare e il rafforzamento della base militare Usa a Pulmarola.

Hanno fatto seguito il golpe civico-parlamentare in Paraguay contro il presidente Fernando Lugo, e il golpe parlamentare contro la presidente del Brasile Dilma Rousseff, per impedire che Lula si candidasse alle elezioni presidenziali. Il continente è preso di mira da colpi di Stato parlamentari o militari, ma l’obiettivo è lo stesso: bloccare l’avanzata della sovranità dei popoli. Gli Stati uniti hanno avviato la guerra giudiziaria, la Lawfare, con la complicità dei media egemoni che condannano prima di verificare i fatti creando il pensiero unico e la monocoltura delle menti.

In Bolivia, il presidente Evo Morales era riuscito a superare diversi tentativi di golpe, come il massacro di Pando e la sollevazione della regione della Mezzaluna. Oggi il paese torna a essere protagonista di un colpo di Stato, civico-militare, con l’intervento degli Stati uniti e quel che ne è seguito: morti, arresti, persecuzione dei popoli originari e di tutto il popolo boliviano. Gli Usa hanno imposto un governo di fatto con Jeanine Añez, apprendista dittatrice manovrata dalle forze armate.

La politica degli Stati uniti si propone di impedire che esistano paesi indipendenti, ostacolare l’integrazione regionale, piegare il continente agli interessi del Fondo monetario internazionale e della politica neoliberista; nel caso dell’Argentina, l’obiettivo è isolare il prossimo governo, presieduto da Alberto Fernández e Cristina Kirchner.

La ribellione dei popoli nel continente si va estendendo. In Cile, il governo di Sebastián Piñera torna a mandare l’esercito a reprimere i manifestanti, con morti, persone accecate, tanti casi di detenzione e torture perfino contro minorenni. In Ecuador, la repressione ha colpito chi si è rivoltato contro la politica neoliberista di Lenin Moreno. C’è poi la pesante situazione nella quale si trovano i popoli di Haiti e del Venezuela.

È necessario che le organizzazioni sociali, culturali, politiche si uniscano nella richiesta di dimissioni del segretario generale dell’Osa (Organizzazione degli Stati americani) Luis Almagro, per le sue colpe nella crisi in Bolivia, legate all’irresponsabilità nella verifica dei voti alle ultime elezioni, e alla sua dipendenza dalla politica Usa, intervenuti per ostacolare la vittoria di Evo Morales. Almagro è un pericolo per le democrazie, in America latina.

Attualmente in Bolivia non esistono interlocutori validi, sul fronte dei golpisti responsabili della violenza scatenata contro la popolazione. È urgente che l’Onu mandi una commissione di inchiesta che possa gettare le basi per raggiungere la pace e fermare la violenza omicida. Occorre esigere il ritiro immediato delle forze armate dalle strade e dalle campagne della Bolivia. Basta con la repressione e i morti. Per ricordare l’esortazione di monsignor Oscar Romero, «nessun soldato è obbligato a obbedire a ordini ingiusti contro il proprio popolo».

È necessario che il popolo boliviano si autoconvochi in una Assemblea costituente e chieda elezioni senza rinvii. Siano avviate inchieste sulle morti provocate dall’esercito e dalle forze di sicurezza. Cessino le discriminazioni, le persecuzioni, il razzismo. E sia rispettata la pluralità del popolo boliviano.

* Premio Nobel per la pace, Fundación Servicio Paz y Justicia- Argentina

(traduzione di Marinella Correggia)

* Fonte: Adolfo Pérez Esquivel, il manifesto

 

photo by Parque de la Memoria – Monumento a las Víctimas del Terrorismo de Estado [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

Solo quest’anno il capo della Casa bianca ha varato una cinquantina di nuove misure per strangolare l’economia dell’isola e abbattere il governo socialista. Di recente all’embargo deciso unilateralmente dagli Usa quasi 60 anni fa si è aggiunto un blocco navale.

Un blocco per impedire il rifornimento di petrolio venezuelano, la drastica riduzione delle rimesse che i cubano-americani possono inviare alle loro famiglie, la cancellazione delle crociere dalla Florida e dei voli commerciali delle compagnie aeree statunitensi- alle quali è permesso atterrare solo all’Avana – e sanzioni a chi vende all’isola materiali che contengano più del 10% di tecnologia Usa (specie nelle telecomunicazioni e nella sanità).

Turismo, rimesse e missioni sanitarie sono le principali voci del bilancio dell’isola.

A queste misure di strangolamento – e per giustificare le medesime- l’Amministrazione Trump aggiunge l’accusa ai «castrocomunisti» – e ai «chavisti bolivariani» – di essere una sorta di burattinai delle proteste e rivolte popolari che nell’ultimo mese stanno scuotendo il subcontinente latinoamericano.

Per contrastare questa supposta ingerenza politica destabilizzante, la Casa bianca ha chiamato a raccolta i governi latinoamericani di destra, ma anche dell’Ue, affinché si aggiungano alla campagna di sanzioni e alla – questa sì- politica di governement changing contro l’Avana e Caracas.

I due più entusiasti «amici» vassalli, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro e il suo collega colombiano Ivãn Duque hanno prontamente risposto all’appello.
In questa situazione il governo cubano si trova a dover fronteggiare una drammatica scarsezza di valuta estera, necessaria per mantenere la sua politica di redistribuzione socialista – solo l’acquisto di generi alimentari richiede quasi due miliardi di dollari all’anno – e di sviluppo.

La flessione del turismo (secondo dati ufficiosi), delle rimesse e il mancato decollo di importanti investimenti esteri hanno generato una situazione di scarsezza di petrolio e di generi di prima necessità che ha provocato un generalizzato malcontento della popolazione Il presidente Díaz-Canel in un intervento in televisione ha sostenuto che si tratta di una crisi congiunturale.

Anche se visto l’anno di campagna presidenziale negli Usa – e peggio ancora se Trump venisse rieletto – si tratta di una congiuntura di tempi non brevi.
Alcuni economisti e intellettuali – anche non della debole opposizione- hanno invece ipotizzato che si tratti di una crisi strutturale, generata da un modello socialista che, nonostante le riforme varate dall’ex presidente Raúl Castro, molte delle quali però sono ancora non attuate, è incapace di generare lo sviluppo delle forze produttive necessarie a sostenere il welfare socialista. Cuba, dicevamo, resiste.

La linea scelta dal presidente (e dal Pc) è di operare su due assi. Da una parte rinsaldare e incrementare i rapporti economici con ( e gli investimenti dagli) alleati tradizionali, soprattutto Russia e Cina, ma anche dei Paesi non allineati. Díaz-Canel ha appena concluso una «proficua» missione al vertice dei «Non allineati» in Azerbaijan e a Mosca.

Dall’altra di riuscire raccogliere gran parte della valuta esportata dai cubani. Da alcuni anni, infatti, grazie a una delle riforme di Raúl Castro, è consentito ai cittadini di importare per uso personale una serie di generi (elettrodomestici, tecnologia, moto elettriche, vestiario) pagando la dogana in pesos cubani – un dollaro o un peso cubano convertibile(Cuc) valgono 25 pesos per dollaro.

La quasi totalità di questa importazione attuata da cubani che possiedono valuta estera si è poi riversata in una sorta di mercato parallelo facendo una concorrenza spietata allo Stato che vende gli stessi prodotti con una «tassa» di più del 200%, proprio per sovvenzionare i programmi sociali della rivoluzione.

Così da lunedì 28 ottobre sono stati aperti sette centri commerciali all’Avana e uno a Santiago de Cuba dove vengono venduti in dollari elettrodomestici e moto, pagati però solo con una carta di debito emessa dalle banche di Stato. L’affluenza è stata, e continua a essere, massiccia.

La misura adottata dal governo ha avuto un buon grado di accettazione visto che i cubani, almeno quelli che ne hanno la possibilità, possono acquistare generi assai richiesti – come split per aria condizionata- a prezzi assai inferiori anche rispetto al mercato parallelo.

La preoccupazione di vari commentatori è che però si sia all’inizio di una dollarizzazione dell’economia cubana. Con un effetto inflattivo. E con il pericolo che «la moneta buona (il dollaro) cacci quelle due già circolanti» – il peso – detto moneda nacional – e il peso convertibile Cuc.  Infatti al mercato nero in pochi giorni il dollari è salito dalla parità col Cuc a quota 1,30.

* Fonte: Roberto Livi, il manifesto

 

photo by Abderrahman Ait Ali [CC BY-SA 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)]

Parla Pablo Sepúlveda Allende, nipote di Salvador Allende.  «I cileni esigono cambiamenti profondi. La risposta è stata un terrorismo di stato analogo a quello degli anni bui di Pinochet»

Dal momento in cui il popolo cileno si è risvegliato, ribellandosi alla cronica ingiustizia sociale prodotta da un modello considerato il più neoliberista del mondo, per il paese si è aperta finalmente la possibilità di gettare alle ortiche la pesante eredità della dittatura di Pinochet. È la speranza che ci trasmette Pablo Sepúlveda Allende, nipote dell’indimenticato Salvador Allende (sua madre, Carmen Paz, è la figlia maggiore del presidente socialista) e membro della Rete di intellettuali, artisti e movimenti sociali in difesa dell’umanità.

Le proteste contro l’aumento del prezzo dei trasporti hanno fatto uscire il popolo cileno dal letargo?

Effettivamente, la grande protesta sociale esplosa il 14 ottobre scorso in seguito all’incremento del prezzo del biglietto della metro si è trasformata in un’enorme ribellione popolare che si è rapidamente estesa a tutte le principali città cilene. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso di decenni di rabbia e di scontento di fronte agli abusi, al saccheggio e allo sfruttamento che hanno reso il Cile uno dei paesi più diseguali al mondo. Non a caso, in base alle cifre ufficiali della Commissione economica per l’America latina e i Caraibi (Cepal) relative al 2017, il 50% delle famiglie ha accesso al 2,1% della ricchezza del paese, a fronte di un 10% che possiede il 66% del totale e dell’1% più ricco che concentra il 26,5% delle risorse.

La causa delle mobilitazioni di massa di questi giorni è insomma strutturale e va ricondotta a un modello economico e politico segnato dal neoliberismo più estremo, che oltretutto distrugge i nostri ecosistemi condannando le comunità a vivere in luoghi insalubri. Un modello a cui non ha messo mano neppure la Concertación, la coalizione di centro sinistra che ha governato a lungo il paese. Il popolo cileno, tuttavia, si è sollevato contro la cronica ingiustizia sociale prodotta da questo sistema ereditato dalla dittatura ed esige ora cambiamenti di fondo.

Cosa pensi del pacchetto di misure sociali annunciato dal presidente Piñera?

Non è assolutamente credibile. È un pacchetto che si propone solo di guadagnare tempo, offrendo la realizzazione di provvedimenti superficiali al solo scopo di continuare a ingannare il popolo e di smobilitarlo, di frenarne la lotta. E intanto tutti i principali movimenti sociali e i sindacati del paese, oltre al Partito comunista, al Frente Amplio e persino, sorprendentemente, al Partito socialista, hanno chiarito che nessun dialogo sarà possibile con il governo finché non sarà revocato lo stato d’emergenza e i militari non rientreranno nelle caserme.

Quale potrebbe essere una soluzione alla crisi?

La soluzione di fondo potrebbe venire dalla convocazione di un’Assemblea costituente mirata alla trasformazione del modello di paese. Qualsiasi altra misura, sempre nel caso in cui venga accettata dal popolo, non sarebbe che un cambiamento di superficie destinato appena a procrastinare la soluzione finale del conflitto.

Cosa pensi delle violenze di questi giorni?

La vera violenza è quella commessa dal governo, che, come ai tempi del regime di Pinochet, ha limitato le libertà della cittadinanza con la proclamazione dello stato d’emergenza e del coprifuoco e, al fine di “controllare” le manifestazioni, ha riportato per le strade i militari, i quali hanno esercitato, insieme ai carabineros, un terrorismo di stato analogo a quello degli anni più oscuri della dittatura. Circolano video di assassinii in piena luce del giorno e si registrano arresti e sequestri, soprattutto a danno di giovani, persino minorenni, che non stavano commettendo alcun reato. E vi sono denunce di torture, vessazioni e casi di scomparsa forzata. D’altro canto esistono anche prove, tra video, foto e testimonianze, che molti degli incendi e dei saccheggi avvenuti in questi giorni sono stati perpetrati dalle forze di sicurezza sia direttamente che indirettamente, chiudendo gli occhi, cioè, di fronte agli assalti agli esercizi commerciali.
La strategia, insomma, è quella di giustificare il ricorso a misure dittatoriali con l’esistenza di atti di vandalismo da loro stessi promossi o permessi. In realtà, quello che vogliono è seminare il terrore per stroncare la mobilitazione che esige la rinuncia di Piñera e la realizzazione di cambiamenti profondi del sistema politico-economico.

Cosa può succedere ora?

Credo che ci troviamo a un bivio in cui potrà decidersi la permanenza o meno del modello neoliberista e della plutocrazia che lo governa. E che la sopravvivenza di tale modello potrà essere garantita solo con la violenza, perché non penso si possa ingannare ulteriormente un popolo che è ormai deciso a conquistare una vera giustizia sociale e che sa perfettamente quali siano i responsabili del sistema di ingiustizia. In questo quadro, la convocazione di un’Assemblea costituente veramente partecipativa potrebbe essere decisa già durante questo governo oppure essere il frutto di un accordo per le presidenziali del 2021.

* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto

photo: Sebastián poch velasco [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

Veleni sul voto. E sulle presidenziali di domenica prossima si sbilancia: «Vince Poroshenko, è troppo esperto di frodi»

In Ucraina ci sarebbe una vera e propria Guantanamo gestita da neofascisti non lontano dal fronte del Donbass dove dal 2014 si combatte la guerra tra Ucraina e le milizie delle autoproclamate repubbliche. A svelarlo ieri in una conferenza stampa a Mosca l’ex funzionario dei servizi segreti ucraini dal 1999 al 2018, Vasily Prozorov, ora disertore.

Secondo Prozonov all’interno dell’aeroporto dalla città di Maryupol, nel Donbass controllato dal governo Poroshenko, sarebbe attiva una prigione segreta dove sarebbero stati torturati e uccisi molti combattenti nemici. Nel gergo dell’intelligence ucraina queste prigioni sono denominate «biblioteche» e i prigionieri «libri». Secondo Prozorov «sono delle vere camere dell’orrore, quella che conosco io ha iniziato a funzionare dall’inizio del 2017 e vi sono passate almeno 300 persone e almeno due delle quali sono morte dopo sevizie. Ma ne esistono sicuramente altre».

L’ex agente ucraino sostiene anche che il famigerato battaglione Azov composto da volontari neonazisti e operante sul fronte orientale avrebbe anche proprie prigioni speciali, di cui si sa pochissimo. Il battaglione Azov a quanto afferma Prozorov si sarebbe macchiato di massacri di civili inermi e «agisce praticamente in completa autonomia non rispondendo ai vertici della guardia nazionale ma solo ed esclusivamente all’onnipotente ministro degli interni Arsen Avakov». Quest’ultimo, ormai da tempo, gioca una sua autonoma partita politica: solo la scorsa settimana ha accusato il presidente Poroshenko di compravendita di voti nell’attuale campagna elettorale, senza che questi abbia avuto il coraggio di dimissionarlo. Inoltre a Kiev per Prozorov sono presenti stabilmente dal 2005, un vasto contingente di agenti della Cia che dimorerebbero appena fuori dalla capitale.

L’Azov e le formazioni di estrema destra sembrano finalmente destare qualche perplessità anche nel distratto mondo delle cancellerie occidentali. Dopo che il Dipartimento di Stato Usa aveva denunciato il ruolo di gruppi come Nazkorp (braccio politico dell’Azov) e S14, sabato è stata la volta dei ministri degli esteri del G7 a lanciare «l’allarme fascismo», sollecitando però paradossalmente proprio chi tira i fili delle violenze in Ucraina a intervenire per porre un freno a una situazione da tempo sfuggita di mano: «Invitiamo Arsen Avakov ad agire contro i gruppi violenti di estremisti politici che potrebbero minacciare di impedire il prossimo voto e usurpare il ruolo della polizia nazionale ucraina, e prendere in considerazione la possibilità di metterli fuori legge» si legge nel documento dei ministri.

A proposito di elezioni i giornalisti hanno voluto chiedere all’ex agente segreto ucraino chi secondo lui vincerà le prossime presidenziali. La sua risposta è stata lapidaria: «Credo le vincerà Poroshenko: ha una vasta esperienza in frodi e ha sotto il suo controllo tutte le risorse finanziarie del paese», ha dichiarato Prozorov.

* Fonte: IL MANIFESTO

 

image: MrPenguin20 [Public domain]

Venticinque anni sono passati da quel primo gennaio del 1994 in cui le comunità indigene del Chiapas, organizzate nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, fecero la loro irruzione nel panorama messicano e mondiale, esprimendo il loro «Ya basta!» e dando avvio alla loro avventura ribelle di giustizia e libertà.

Quella rivolta indigena contro l’espressione allora più «moderna» dell’offensiva neoliberista, il Nafta (il Trattato di Libero Commercio del Nordamerica), era – come ricorda su La Jornada lo scrittore e poeta messicano Hermann Bellinghausen – «la prima mobilitazione contro la dittatura dei mercati» e avrebbe «fecondato le imminenti resistenze globali contro il monopolio del potere economico mondializzato». Ed era «il primo movimento sociale ad avere a disposizione le armi della rete e delle sue reti, e ad approfittarne ampiamente».

Anche i suoi contenuti apparivano inediti, caratterizzati dalla sostituzione del tradizionale obiettivo di ogni movimento rivoluzionario, la presa del potere, con quello della presa di uno spazio – uno spazio di vita degna, di riconoscimento, di autonomia -, negato da sempre ai popoli indigeni.

Con la conseguente affermazione di modi diversi di fare politica, estranei all’occupazione delle istituzioni dello Stato e centrati, al contrario, sulla creazione dal basso di processi decisionali collettivi secondo il principio del «comandare obbedendo». Guidato dal suo calendario politico e da una concezione dell’autonomia come orizzonte strategico e pratica quotidiana, l’esercito zapatista è riuscito a creare e a consolidare, lontano dai riflettori, le sue originali forme di autogoverno, esercitando la giustizia, attivando sistemi di salute e di educazione ai margini del governo statale e federale, organizzando la produzione e tessendo reti di solidarietà in tutto il mondo.

A partire da quel primo gennaio 1994, tra annunci interessati di morte dell’esperienza rivoluzionaria e successive, puntuali, «resurrezioni», l’Ezln non ha mai abbandonato la scena nazionale, dalla prima Dichiarazione della Selva Lacandona fino alla presentazione di Marichuy, in qualità di portavoce del Consiglio indigeno di governo, come candidata indipendente alle presidenziali 2018.

Non certo per competere con i politici professionisti, ma per portare, come avrebbero chiarito i subcomandanti Moisés e Galeano, «un messaggio di lotta e organizzazione alla gente povera dei campi e delle città del Messico e del mondo».

Molto ci sarebbe stato da festeggiare alla commemorazione di questo 25esimo anniversario, svoltasi nel municipio autonomo de San Pedro Michoacán, dove sono accorsi zapatisti da tutti e cinque i caracoles del movimento (le strutture organizzative create nel 2003 e rette dalle Giunte di buon governo).

Eppure il discorso del subcomandante Moisés è stato tutt’altro che trionfalista: «Siamo soli – ha detto – come 25 anni fa. Eravamo soli quando ci siamo sollevati per risvegliare il popolo messicano e lo siamo oggi. Ma siamo riusciti comunque a portare la nostra voce ai poveri del Messico, dei campi e delle città». Ma, soprattutto, Moisés ha ribadito, al di sopra di ogni dubbio, la posizione zapatista nei confronti del governo di Andrés Manuel López Obrador, rispetto al quale l’Ezln aveva già pronunciato parole di fuoco: «Potranno cambiare i capataz, i servitori e i capisquadra, ma il proprietario continuerà a essere lo stesso».

L’1 gennaio Moisés è andato oltre, accusando il presidente di mentire e ingannare le comunità indigene, manipolando i messicani con le sue false consulte e chiedendo «il permesso alla terra per costruire il suo Tren Maya», quando in realtà «ciò che vuole è il permesso di distruggere, con le sue grandi opere, i popoli originari».

E lo fa, per di più, chiamando «Maya» quel progetto di linea ferroviaria, come se potesse avere a che fare con i maya un’opera destinata a collegare le principali aree turistiche della Penisola dello Yucatán a tutto vantaggio del capitale finanziario, del settore immobiliare e di quello turistico e in perfetta continuità con la strategia neoliberista di controllo territoriale dei governi precedenti.

* Fonte: Claudia Fanti, IL MANIFESTO

photo: Adam Jones di Kelowna, BC, Canada [CC BY-SA 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)], via Wikimedia Commons

LIVORNO. Ex ribelle dei Tupamaros, più tardi presidente dell’Uruguay tra il 2010 e il 2015, José Pepe Mújica abbracciò la politica formale dopo l’apertura democratica del paese nel 1985, fondando qualche anno più tardi il Mpp (Movimiento de Participación Popular).
Da sempre difensore di idee libertarie e socialiste come l’abbattimento delle classi sociali e della povertà, il diritto alla casa, la legalizzazione delle droghe leggere, allergico a cravatte, cerimonie e protocollo, l’83enne Mújica ha rinunciato poche settimane fa alla carica di senatore per «stanchezza dovuta al lungo viaggio e voglia di andare in pensione prima di morire», promettendo però che finché rimarrà lucido non abbandonerà la solidarietà né la lotta delle idee.

Cittadino onorario di Livorno dal 2015 per volontà del sindaco Filippo Nogarin, l’ex presidente uruguaiano è tornato martedì in città per presentare il libro curato da Andrés Danza e Ernesto Tulbovitz Una pecora nera al potere, edito dal gruppo Lumi.

«Ringrazio e rivolgo un abbraccio affettuoso all’Italia, che è anche un po’ mia, perché italiana era la mia famiglia materna. I sentimenti compongono l’essenza della nostra civilizzazione. La zona del Río de la Plata si è formata un secolo fa attraverso il dolore degli europei che migravano. Questa è la nostra storia».

Si è presentato così, Mújica, toccando subito un tema molto spinoso: non è semplice parlare di migrazioni in Italia oggi né soprattutto farlo seduti a fianco di un sindaco cinquestelle che durante la crisi dell’Aquarius dichiarò su Facebook che avrebbe aperto il porto, per poi smentirsi pochi minuti dopo.

Ma quando qualcuno gli fa notare che i governi occidentali non sono capaci di gestire i flussi migratori, anzi ne esaltano le criticità e i rischi rispondendo con politiche nazionaliste di chiusura e repressione, Mújica ricorda che l’immigrazione massiccia che vide la zona del Rio de la Plata durante la prima parte del Novecento fu dovuta principalmente alla fuga dalla guerra e dalla miseria che affliggevano l’Europa.

«Le nuove generazioni probabilmente non lo ricordano, visto che dopo si è sperimentato un periodo lunghissimo di pace, piuttosto insolito per un continente molto bellicoso come il vostro. L’Europa si è spartita l’Africa nell’Ottocento e, mentre mostrava i benefici della cultura occidentale, soppiantava la cultura primitiva e tradizionale africana. In fondo l’onda migratoria africana è la conseguenza diretta del colonialismo europeo. Non credo che si sia risposta, se non quella di portare lo sviluppo in Africa affinché esca dalla povertà».

Ci sono tutti gli estremi per arrivare velocemente a parlare della coalizione di governo italiana e di quello che sta facendo con i migranti nel Mediterraneo. «Non ho risposte per la politica italiana – taglia corto l’ex presidente – e se l’avessi non le darei, visto che non conviene agli interessi del mio piccolo paese, l’Uruguay. Ho bisogno della mano amica dell’Italia per il bene dei miei compatrioti».

Parlando della crisi della sinistra internazionale, l’ex presidente appare nostalgico: «La democrazia non è mai perfetta e non sarà mai un progetto finito: rimangono da fare molte cose, l’uguaglianza, le pari opportunità, ci sono molti sogni e utopie da realizzare ancora. Ci sono cose meravigliose nella modernità, ma i giovani e le giovani di oggi hanno ancora molto da lottare per arrivare alla democrazia. Da giovane pensavo che lottavamo per ottenere il potere; oggi credo invece che lottiamo per salire dei piccoli gradini nella scala della civilizzazione. I diritti di cui godiamo oggi sono conquiste di gente che sognava più di noi, ma che allora ha perso: le otto ore, la pensione…sono tutti frammenti di sogni infranti».

* Fonte: Virginia Tonfoni, IL MANIFESTO

photo: By Roosewelt Pinheiro/ABr [CC BY 3.0 br (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/br/deed.en)], via Wikimedia Commons

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