Sinistre

LONDRA. Si vota il 12 dicembre, l’ennesima volta in cinque anni. No, Godot-Brexit non è arrivato, chissà se e quando lo sarà. Finora è stata una campagna elettorale moscia, floscia, in differita, al buio e al freddo. A iniettargli adrenalina è il programma elettorale del New “Old” Labour di Jeremy Corbyn, presentato ieri a Birmingham. Prende le mosse da quello del 2017, che aveva svaporato i sogni di vanagloria – e di maggioranza assoluta – di Theresa May, consentendo al Labour un cospicuo recupero sui Tories. Ma va oltre. Prevede un potenziamento e una massiccia de-privatizzazione della sanità pubblica, cure dentali gratuite, centomila nuovi alloggi l’anno entro il 2024 per dare una casa ai senzatetto, riconversione energetica verso le rinnovabili e ritorno all’occupazione “verde” delle zone deindustrializzate, nazionalizzazione di energia elettrica, gas, acqua, poste, banda larga gratuita. Stop alla macelleria sociale e dell’austerity vampiresca del controverso sistema Universal credit degli etoniani, con la reintroduzione di un modello di sussidi umano e il blocco dell’età pensionabile a sessantasei anni; e fine delle tasse universitarie più care d’Europa, nazionalizzazione delle ferrovie e autobus gratuiti per chi ha meno di venticinque anni. Aumento del salario minimo da otto a dieci sterline l’ora. In politica estera, un nuovo internazionalismo, che significa, essenzialmente, basta servire la mitragliatrice americana quando spara democrazia in lungo e in largo.

CORBYN SPERA gli valga le chiavi di Downing Street: proprio lui, che ha passato la vita a urlarci davanti con dei cartelli al collo. Mettiamola così: se per alcuni non si era mai visto niente di simile, ambizioso, redistributivo dai tempi dei Levellers, per altri non è che il minimo indispensabile. E alcune delle politiche più ambiziose, come mantenere la libertà di movimento delle persone, l’abolizione delle scuole private votate dalla base all’ultimo congresso e la sacrosanta decarbonizzazione dell’economia entro il 2030, sono state abbandonate, soprattutto per pressione dei sindacati.

Eppure anche il solo scorrere queste proposte, accolte dai consueti, striduli “chi paga?” dei media di regime incapaci di considerare una società che non sia solo per azioni, fa l’effetto di un tonico. A pagare saranno i troppi miliardari dai capitali in perpetua fuga, le compagnie petrolifere che ammassano profitti assassinando la biosfera: la cuspide dell’un percento, che ha nella City la propria capitale europea. Quanto a Brexit, ci sarà un secondo referendum dopo che si sarà rinegoziato un accordo che prevede la permanenza nell’Unione doganale dell’Ue e “prossimità” al mercato unico. I cittadini europei residenti in Uk non dovrebbero passare più attraverso la trafila di richiesta del settled status.

QUESTA È L’UNICA occasione – per lui settantenne e per i suoi concittadini più giovani che non vogliono invecchiare in una terra ecologicamente e socialmente desolata – di raddrizzare la società più privatizzata e diseguale d’Europa, dove la stampa è quasi del tutto in mani private, mendaci e destrorse, dove la crisi economica la pagano le vittime arricchendo i perpetratori, dove le vendite di Suv aumentano man mano che la catastrofe climatica priva di acqua e terra coltivabile il Sud del mondo; o anche solo dove la persistenza di una famiglia sur-reale ammantata in ermellino sta a dimostrare che no, la legge non è uguale per tutti (cfr. il rampollo Andrew). Anche solo questo basterebbe perché l’atroce angoscia baudelairiana sconficcasse il suo nero vessillo dal nostro cranio. Dopotutto se una cosa del genere succede qui, nella capitale mondiale della disuguaglianza, può davvero succedere ovunque.

IL DISTACCO NEI SONDAGGI? Sedici punti dai Tories, ma Boris Johnson si sta confermando elettoralmente mediocre, capace solo di ripetere Get Brexit done, lo slogan Tory che ricorda la strong and stable leadership di Theresa May.

Con buona pace dei Giufà della post-politica, dopo tanto giocare a rimpiattino, destra e sinistra sono tornate visibili. C’è solo da sperare che, come col blairismo neoliberale, il resto d’Europa si affretti a imitare il corbynismo socialista. Sarebbe la fine del There Is No Alternative blair-thatcheriano, del realismo capitalista di Mark Fisher: la classe, dopotutto, non è acqua.

* Fonte: Leonardo Clausi, il manifesto

Sinistra. «Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore», dice il leader di Diem25 al manifesto

Se ne parlava da mesi. Adesso la notizia è arrivata: il 30 novembre comincia ufficialmente l’internazionale progressista di Yanis Varoufakis e Bernie Sanders. I due outsider della sinistra radicale – il primo a capo di Diem25, il secondo leader del movimento Our Revolution, nato come risposta left all’elitarismo del democratic party – lanceranno da New York un appello per costruire una nuova alleanza sovracontinentale contro l’oscena fioritura di fascismi e nazionalismi.

Dinanzi alla riconfigurazione globale del neoliberismo su posizioni nazionaliste e xenofobe, il nuovo soggetto si rivolge a partiti, movimenti, organizzazioni interessati al ribaltamento dell’attuale sistema-mondo per rilanciare le parole d’ordine della giustizia globale, della lotta alla povertà, del salvataggio in extremis di un ecosistema sventrato dalle mani, tutt’altro che invisibili, del mercato.

Un umanesimo che rimastica le stesse parole che animarono, più di 15 anni fa, le lotte che da Seattle a Genova ci regalarono le ultime fotografie di un’utopia a portata di mano. Un programma guardato con interesse anche dal neo presidente del Messico Lopez Obrador, che punta a creare un vasto e solido schieramento radicale.

«Non è il momento adatto per assecondare le divisioni. Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore e noi il loro», ci dice Varoufakis al margine di una conferenza stampa dove la crisi dell’«Europa di Francoforte», la stessa che ha decretato la fine del sogno nato dal referendum greco del 2015, è un’evidenza.

Che fare? L’ex ministro delle finanze greco non ha dubbi: dialogare con tutti i partiti, con le associazioni, con i movimenti, con chi vuole tenere assieme l’Europa. Perché a volerla disgregata, spiega, sono solo gli attuali leader che sono pronti a sacrificarne la tenuta sull’altare dell’austerity che affama e chiude le frontiere

Cita proprio il caso Brexit per sottolineare che se la working class britannica ha detto no al suo progressivo sfruttamento a favore delle oligarchie finanziarie non è certo per antieuropeismo: è semplicemente una lotta di classe. A chiedergli cosa ne pensa dello scontro italiano contro le regole di Maastricht di Salvini non esita a rispondere: «L’attuale governo italiano e la Commissione europea perseguono gli stessi fini: redistribuire la ricchezza a favore di chi è già ricco. Lo scontro è in atto solo apparentemente: il governo italiano non è davvero interessato a ridiscutere gli accordi per combattere la crescente povertà, per aprire i confini, per incrementare le misure sociali smantellate da anni di ferreo liberismo. Questo conflitto è una fake news, buona solo per fare propaganda e al massimo per ottenere vantaggi fiscali per i più agiati».

La lotta alla povertà è anche lotta per la libera circolazione delle persone. Non riconosce i confini il progetto di Varoufakis. «Sì, sono un genuino internazionalista. Sono contro ogni confine e sono marxista. Sostengo e apprezzo ogni iniziativa capace di far circolare una cultura dell’accoglienza. Mediterranea, i sindaci che proclamano aperti i porti alle navi che hanno soccorso i migranti, sono l’Europa a cui guardo».

E così la vicenda di un comune piccolo come Riace, del suo sindaco che ne ha fatto casa del mondo, la nave che infrange le onde del razzismo, incarnano e rilanciano il sogno glocal che dobbiamo ricominciare a frequentare.

* Fonte: Graziella Durante, Giovanna Ferrara, IL MANIFESTO

Giorno dopo giorno vediamo gonfiarsi la nube nera che in parte ha già occupato, la nostra esangue democrazia. Ha il volto rozzo di un ministro di polizia e una voce potente che dice di essere vox populi.

Divora e dissolve ogni giorno un pezzo del nostro patrimonio civile: l’universalismo dei diritti, il principio di reciprocità e il rispetto per l’altro, il primato della legge e la certezza del diritto, la memoria storica dei nostri orrori e dei nostri peccati travolta dall’urlo roco “prima gli italiani”… Ha divorato anche, in 100 giorni, il proprio partner di governo, riducendone ai minimi termini l’audience, colonizzandone il linguaggio, ridimensionandone l’agenda. Oggi il governo gialloverde, il governo Conte, è per i più il governo Salvini, che vede crescere nei sondaggi il proprio capitale elettorale perché dimostra di saper occupare tutta la scena e soprattutto di essere “forte” (dunque credibile). La Forza è tornata a essere risorsa politica principale. Non la Ragione. Non la Giustizia. Nemmeno l’Onestà. Nessuna delle classiche virtù repubblicane. Ma la semplice, nuda, ostentata Forza (la risorsa primordiale di ogni comando), messa al servizio della Paura. Della capacità di far paura come risposta alle paure diffuse nel “popolo”: non ai loro bisogni, non ai loro diritti lesionati, ma a quelle paure su cui Salvini galleggia, e intende galleggiare a lungo.

Diciamocelo pure. A Matteo Salvini di risolvere il problema delle migrazioni, di ridurre l’insicurezza dei cittadini, di levare dalla strada le figure che a quell’insicurezza danno corpo, non gliene può fregare di meno. Anzi, lavora per diffonderla e aggravarla. Il decreto che porta il suo nome va esattamente in questa direzione: le parti più oscene del suo dispositivo (la riduzione ai minimi termini dei permessi umanitari, lo smantellamento di fatto degli Sprar, il taglio della spesa per “integrare”) renderanno meno controllabile e più “inquietante” quella massa di poveri tra i poveri, come appunto inquietante è tutto ciò che non è pienamente riconoscibile e integrabile in procedure condivise. Ne spingeranno una parte nell’ombra e nel “mondo di sotto”. Garantiranno manodopera a poco prezzo per la criminalità più o meno organizzata. E permetteranno alle sue camicie verdi di continuare a capitalizzare su quel magma informe e sul disagio che ne consegue (la profezia che si auto-adempie).

La sentiamo venire quell’onda nera. E ne siamo spaventati, perché sappiamo che è già stato e per questo è possibile. Siamo già caduti: noi, l’Europa… Basta leggere l’incipit della quarta di copertina dell’ultimo libro di Antonio Scurati “M. Il figlio del secolo”– «Lui è come una bestia: sente il tempo che viene. Lo fiuta. E quel che fiuta è un’Italia sfinita, stanca della “casta” politica, dei moderati, del buonsenso» -, per sentire un brivido nella schiena. Parla della resistibile ascesa di Benito Mussolini al potere. Sappiamo cosa significa – lo vediamo in cronaca -, ma non sappiamo come resistere. Le nostre parole suonano stracche. Parlano a noi, se va bene. Ma non alla massa che lo segue come la tribù segue lo sciamano che ne esorcizza i terrori. Quella segue le “sue” parole, che non ammettono repliche perché sono vuote di senso ma hanno un suono profondo (hanno l’opacità della pietra), non esprimono ragionamenti ma sentimenti, umori, rancori di quanti si sentono “traditi” e per questo non credono più a nessun altro linguaggio che non sia quello della vendetta, del cinismo e del ripudio dei propri stessi antichi valori (le tre maledizioni che James Hillmann associa alle risposte perverse a un tradimento subito).

Riportarli al “lume della ragione” – organizzare una qualche Resistenza – vorrebbe dire in primo luogo tentare di curare quella ferita. Risarcire e riparare. Dovrebbe essere questa la strada per erodere quel seguito limaccioso su cui prospera il fascino indiscreto del Demagogo. Ma per far questo occorrerebbe un nuovo linguaggio, lontano dal gergo stantio di una sinistra esplosa. E soprattutto una nuova forma di pensiero: un pensiero non omologato, non ripetitivo del recente passato, non conforme ai dogmi del pensiero unico fino a ieri dominante. Anche questo dobbiamo dircelo con chiarezza: l’opposizione che oggi viene “dall’alto”, l’opposizione dei columnist dei principali giornali, l’opposizione di Repubblica, del Corriere, de La Stampa, così come quella di Bankitalia, della burocrazia ministeriale, dei banchieri e dei finanzieri è benzina sul fuoco populista. Non è richiamando i vincoli di bilancio e le tavole di calcolo di Bruxelles. Il “rigore dei numeri” e della matematica in contrapposizione al “linguaggio magico” degli altri (così ieri su La Stampa). Difendendo la privatizzazione financo dei ponti crollati o la legge Fornero nella sua (crudele) integrità. Ed erigendo a eroi i commissari europei messi a guardia della loro austerità, che si prosciugheranno quei bacini dell’ira. Non è difendendo l’ Europa così com’è che si eviterà il contagio.

È, al contrario, lavorando con umiltà e senza velleità di primogeniture alla costruzione di un fronte ampio trans-nazionale, europeo, di forze determinate a combattere l’austerità e l’avarizia matematica in nome di un reale programma di redistribuzione della ricchezza e di restituzione dei diritti ai lavoratori e ai cittadini, riconoscendo e denunciando i “tradimenti” consumati e le assenze più o meno colpevoli. C’è chi ci sta lavorando. Auguriamoci che lo faccia assumendo un pensiero largo, senza recinti né bandierine.

* Fonte: Marco Revelli, IL MANIFESTO

MILANO. Un universo di anime e bandiere della sinistra dopo anni di conflitti interni si è ricompattato ieri in piazza San Babila a Milano. Tutti uniti contro la deriva sovranista ed euroscettica promossa dall’asse Salvini-Orbán. I nemici esterni che conciliano le divergenze.
Mentre a palazzo Diotti, nella sede di una prefettura blindatissima, si incontravano il leader leghista e il premier ungherese, in piazza è scesa la Milano antirazzista. Dall’Anpi ai sindacati, dal Pd a Leu, dalle associazioni di richiedenti asilo al mondo cattolico, l’Ars e i centri sociali. Ci volevano Orbán e Salvini per riunire – come ai tempi delle proteste contro Berlusconi – un fronte spaccato.

La Milano dell’accoglienza ha risposto all’appello dell’associazione dei Sentinelli e del comitato Insieme senza muri. Le stesse realtà che proprio nel capoluogo lombardo hanno organizzato a giugno la grande tavolata multietnica a favore dell’integrazione. Oltre 10 mila persone si sono riunite per dire no all’idea di Europa e di Italia promossa dal ministro dell’Interno. «Salvini is not Italy, Orbán is not Europe», recitavano alcuni striscioni. Ma l’immagine simbolo è stata il manifesto della Diciotti: la nave messa in salvo da due grandi mani, alzata su 500 cartelli alla fine della manifestazione. Luca Paladini, il portavoce dei Sentinelli, più volte minacciato per le sue battaglie sui diritti civili, ha voluto dedicare la giornata ai migranti bloccati per giorni nel porto di Catania.

Si temevano disordini tra forze dell’ordine e antagonisti, come già successo in altre contestazioni al leader leghista. Ma così non è stato. Unico «fuori programma», quando gli attivisti del centro sociale Il Cantiere hanno protestato in via Fieno, ricoprendo i muri della sede del Consolato ungherese con le impronte di mani rosse di vernice. Un corteo varipinto, formato da giovani, anziani, bambini, ha poi sfilato lungo corso Venezia, scortato dagli agenti in tenuta antisommossa.

Ma prima, gli interventi in piazza San Babila, mentre i calciatori della Fc St. Ambroeus, la prima squadra di rifugiati iscritta alla Figc, improvvisavano un allenamento.
Sul palco, anche i rappresentanti del principale bersaglio del governo: le Ong che operano nel Mediterraneo. «Siamo stati chiamati taxi del mare e vicetrafficanti», ha ricordato Riccardo Gatti, comandante delle navi di Proactiva openarms. «Il governo sta dando altre imbarcazioni alla guardia costiera libica, noi abbiamo visto cosa fanno, come trattano i migranti, calpestando i diritti. Nessuno dice più quanta gente sta morendo in mare, vogliono distruggere l’umanità, vedendo questa piazza credo che non ce la faranno».

«Un’Europa senza confini» il messaggio lanciato ai due leader barricati a poche centinaia di metri nella sede della Prefettura. «Stiamo assistendo a una situazione di pericolosa regressione dove sforzi della nostra Marina Militare e delle Ong sono stati cancellati in pochi mesi di scellerato governo», ha affermato l’assessore milanese al Welfare Pierfrancesco Majorino. «A Salvini diciamo che non ci faremo portare da lui nel Medioevo».
Ma la scena è stata dei tanti profughi e richiedenti asilo che hanno preso il microfono e parlato alla piazza. «Non ho paura solo per me. Ho paura anche per voi italiani», è stato il commento di uno dei giocatori della Fc St. Ambroeus. La squadra e gli altri migranti, come quelli della comunità di Sant’Egidio, hanno poi guidato il corteo in prima fila, fino a sera.

Tra gli ultimi a parlare anche l’ex presidente della Camera Laura Boldrini: «Voglio dire a Salvini che noi in questa piazza non abbiamo paura del futuro. Noi non abbiamo paura degli altri, di chi è diverso da noi, anzi questa diversità ci arricchisce. Non possiamo permetterci di disperdere le energie di questa piazza. Dobbiamo fornire un’alternativa, un’iniziativa politica innovativa, mai fatta prima».

Un appello rivolto a una sinistra che da tempo non si ritrovava così unita.

* Fonte: Mattia Guastafierro, IL MANIFESTO

Da qualche parte bisognerà pur cominciare a ricostruire la sinistra italiana, che raccoglie voti nei quartieri della buona borghesia, ma che non ha più cittadinanza nelle periferie urbane e sociali. Rifondare è il verbo più ricorrente all’interno di questo mondo politico sconfitto e marginalizzato. Ma a partire da che cosa? Su quali fondamenta costruire un nuovo ruolo sociale e quindi politico per gli eredi di una tradizione legata alla parola «popolo»?

Forse tornando alle origini pre-politiche, proprio «là dove tutto è cominciato», con le forme concrete di associazionismo organizzato e solidale. È questa, almeno, l’idea che sta al centro del libro di Salvatore Cannavò Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).

La prima convinzione da cui muove l’analisi è che l’attuale crisi della sinistra abbia origine dal momento in cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, «ha accettato di gestire un compromesso sociale al ribasso». È la lunga parabola dell’identità che Cannavò riassume con la formula «non più e non ancora»: non più partiti (e sindacati) del proletariato con aspirazioni rivoluzionarie, ma non ancora vere formazioni socialdemocratiche, per esempio sul modello scandinavo.

Il passaggio successivo, dopo una minuziosa analisi storico-politologica a partire dalle cooperative ipotizzate da Karl Marx, è la proposta del ritorno a un mutualismo che l’autore considera «una risorsa ancora inesplorata, anche sul piano politico generale, come strumento per ricominciare a tessere una tela che è stata strappata da troppe parti e da troppi protagonisti».

Ma «oltre ad esercitare forme di solidarietà, il mutualismo ha senso soltanto se assume anche forma di resistenza, se rappresenta centri capaci di organizzare lotte e rivendicazioni». Cioè deve assumere una connotazione conflittuale. E su questo aspetto il libro insiste non poco: «Il mutualismo conflittuale è dunque politico nel senso che mentre esiste rivendica già il nuovo. Esprime una solidarietà “contro” lo stato di cose presente, ma esige anche una solidarietà “per”, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo “l’agire in comune”, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia. L’attuale fase di smarrimento richiede la stessa capacità di inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento».

La conclusione di Salvatore Cannavò è netta: «Se una sinistra vuole avere un futuro dovrebbe avere il coraggio di riscoprire le sue origini».

FONTE: Giampiero Rossi, CORRIERE DELLA SERA

«Con gli occhi per terra la gente prepara la guerra». Mi è tornata in mente, quella strofa lontana, in questi giorni feroci dell’odissea dell’Aquarius, da ieri elevata ufficialmente a sistema – con Salvini che reitera la chiusura dei porti alle ultime navi di profughi in arrivo – in cui tutto, ma davvero tutto, sembra perduto: la politica, l’umanità, l’elementare senso di solidarietà, noi stessi, il nostro rispetto di noi e degli altri cancellato da un ministro di polizia che fa della pratica disumana della chiusura dei porti un metodo di governo… Mi è tornata in mente perché è quello che sento nell’aria, che leggo nelle facce, negli sguardi, nei cattivi pensieri di (quasi) tutti. Odore di guerra, e occhi a terra (lo sguardo del rancore che promette sventura).

Alla velocità della luce, in poche mosse da parte di giocatori cinici e spregiudicati, questione migratoria e logica bellica, politica dei flussi e politica delle armi si sono saldate intorno alla coppia nefasta «amico-nemico». E il confronto impari, spaventosamente asimmetrico, tra l’Italia e quel microscopico frammento di nuda vita in balia delle onde nel Canale di Sicilia si è saldato, come le due facce del medesimo foglio, col confronto muscolare, «di potenza» e «tra potenze».
Con la resa dei conti tra il Governo italiano e gli altri Stati coinvolti, Malta, Francia, paesi «alleati» e paesi «ostili».
Mentre si parla sempre più spesso, e con sempre meno pudore, di azioni militari per il controllo diretto delle coste libiche come «soluzione finale» al problema dei profughi.

È BASTATO che un rozzo capopopolo rionale o regionale come Matteo Salvini irrompesse come un bufalo nella cabina di regia governativa di un Paese non di secondo piano in Europa, perché questa saldatura tra demografia e geopolitica (tra «movimenti di popolazione» e «conflitti inter-statali») si coagulasse istantaneamente. Perché il disagio sociale virasse in nazionalismo… E nel contempo perché si rivelasse in tutta la sua estensione e profondità lo «sfondamento antropologico», chiamiamolo così, o «etico-politico» consistente nella diffusa incapacità di riconoscimento «dell’uomo per l’uomo». Nell’evaporazione di ogni pietas, com-patimento, identificazione nel dolore altrui: le basi della socievolezza che ha permesso la sopravvivenza della specie umana sostituita ora da un mortifero atteggiamento di rifiuto, diffidenza, indifferenza ostile. I cattivi sentimenti, appunto, che da sempre preparano la guerra perché dicono che la guerra è già dentro le persone, e le ha fatte proprie.

CERTO COLPISCE, nella via crucis dell’Aquarius – in questo spettacolo crudele messo in piedi per ostentare, sul palcoscenico grande come il mare, la caduta catastrofica dell’umano nel segno della «politica nuova» – la figura dell’attore protagonista: l’uomo che dopo aver assorbito in sé tutti i ruoli di governo (le gouvernement c’est moi) si permette di prendere in ostaggio centinaia di bambini, donne, uomini per giocarseli sulla scacchiera politica (come strumento di negoziazione all’esterno e di consenso all’interno) indifferente alle loro sofferenze, lasciandoli in balia del mare, come fossero cose e non persone («tortura» è stata definita). Ma colpisce ancor di più – se possibile – questo pubblico che balza in piedi ad applaudire a ogni battuta truce, a ogni dichiarazione di disprezzo, che si emoziona per le vessazioni, l’irrisione dei valori di solidarietà e condivisione, addirittura la messa in stato d’accusa della solidarietà, come colpa o reato. E se si guarda quella platea dal di fuori, non potrà sfuggire che solo in pochi, sparsi qua e là, se ne stanno a braccia conserte, senza unirsi all’orgia. E quasi nessuno si alza per fischiare.

PRENDIAMONE ATTO. Un argine si è rotto, persino tra noi, di quella comunità non grande che si è definita “sinistra”. Siamo diventati irriconoscibili a noi stessi. O meglio: tra noi stessi. Sempre più spesso, se s’incontra un compagno con cui si è condiviso (quasi) tutto e il discorso cade sui migranti e sul caso dell’Aquarius, non scatta immediata, istintiva l’indignazione, ma s’incrocia uno sguardo vacuo. Un cambiar discorso. O addirittura un moto di condivisione della politica dei respingimenti. Una voglia di limiti. Di barriere (perché «così non si può andare avanti»). O perché convertiti a un qualche «neo-sovranismo», nell’illusione falsa che ripristinando i confini possa ritornare il welfare di un tempo, le garanzie, i diritti sociali sottratti anche da parte e per colpa di chi oggi, per lavarsi la coscienza, difende a parole l’«apertura». O perché affascinati da quella vera e propria «troiata» (mi si permetta il temine caro a Cesare Pavese) che è la categoria dell’«esercito di riserva»: l’idea che i migranti siano lo strumento occulto di un qualche piano del capitale per sfondare il potere d’acquisto e la forza negoziale dei lavoratori nostrani, ignorando che quello si chiamava, non per nulla «esercito industriale», appartenente cioè a un’altra era geologica, prima che si affermasse il finanz-capitalismo, che lavora e comanda appunto non con i corpi ma col denaro. E che quella «narrativa» serve solo a giustificare la vessazione dei più poveri tra i poveri, non certo a contrastare i più ricchi tra i ricchi.

BASTA D’ALTRA parte uno sguardo alla cronologia per vedere che il vero «sfondamento» della forza del lavoro è avvenuto fin dal passaggio agli anni ’80, ben prima che iniziassero i flussi di popolazione, e ha usato come ariete non i corpi dei poveri ma la tecnologia dei ricchi, elettronica, informatica, smaterializzazione del lavoro, frammentazione della componente «manuale» che sopravviveva. Fu allora che si consumò la «sconfitta storica» del lavoro in Occidente. E il conseguente «disallineamento» tra diritti sociali e diritti umani, che invece il movimento operaio novecentesco, almeno da noi, aveva saputo tenere «in asse». Da allora quelle due famiglie di diritti – questione sociale e questione morale (o «umana») – sono andate divaricandosi sempre più, fino a oggi, quando finiscono per contrapporsi, quasi che per stare vicino ai nostri «proletari» occorresse respingere gli altri riconfigurati per l’occasione come «non-proletari». Col risultato che rischiamo di avere oggi «socialisti senza umanità» (sono quelli che stanno squassando la sinistra in Europa, fin dal cuore della Linke tedesca) e «umanitari senza socialità» (senza solidarietà sociale).

UNA SCISSIONE cui si può rimediare solo con un colpo d’ala. Con la consapevolezza, da una parte, che si possono difendere efficacemente le ragioni universali dell’umanità solo se si dimostra di voler difendere con le unghie e con i denti la ragioni sociali locali di chi, nel proprio territorio, è deprivato di reddito e diritti (se si disinnesca la trappola mortale del «perché a loro sì e a me no»). E dall’altra riuscendo a capire che mai come oggi la difesa dei migranti si salda alla difesa della pace, perché la guerra a loro finirà per trasformarsi in guerra tra noi.

FONTE: Marco Revelli, IL MANIFESTO

Primavera europea. Pensiamo si debba arrivare alle elezioni europee del 2019 con una visione chiara, un programma e un candidato comune alla Presidenza della Commissione

Da un lato un governo a trazione leghista che abbandona 600 migranti in mare e propone una flat tax a vantaggio dei più ricchi. Dall’altro l’opposizione screditata di Pd e Forza Italia. Un governo cattivo, un’opposizione pessima. La tenaglia in cui si trova la politica italiana è rappresentativa della falsa scelta più generale che ci troviamo ad affrontare in tutta Europa: Macron e Orbán, Merkel e Salvini. Da un lato un establishment in bancarotta morale e finanziaria e dall’altro una marea crescente di nazionalismi xenofobi la cui crescita è causata proprio del fallimento delle élite continentali e delle politiche di austerità.

Contro entrambi, abbiamo urgente bisogno di una nuova proposta politica capace di rappresentare un punto di riferimento italiano ed europeo. “Primavera Europea”, la lista transnazionale che abbiamo lanciato con il movimento europeo DiEM25, nasce come sforzo di unione tra le forze progressiste europee che si prefiggono questo compito storico.

Crediamo che questa unione sia possibile ed efficace se centrata su azioni comuni e su un’agenda politica credibile, coerente e aperta al contributo di tutti. È per questo che abbiamo appena approvato la versione beta di un programma politico rivoluzionario che sarà presentato a tutti i cittadini europei e a tutti i partiti e movimenti interessati attraverso una fase di consultazione che si estenderà fino ad agosto. Frutto della collaborazione di importanti intellettuali mondiali e di oltre 3.000 contributi fatti arrivare da singoli cittadini, il programma presenta una serie di politiche concrete attuabili già domani – a Trattati europei vigenti – in grado di cambiare radicalmente volto all’Unione europea. Fra queste un piano di investimenti ecologici e di riconversione industriale del tenore di cinquecento miliardi di euro annui, un piano europeo anti-povertà, il rafforzamento dell’autonomia municipale, un dividendo universale di base – coperto attraverso la tassazione delle multinazionali – e un’innovativa politica migratoria comune.

Lo sappiamo, i Trattati europei attuali sono i principali nemici dell’Europa che abbiamo in mente. Anche per questo proponiamo una strategia di disobbedienza costruttiva che disattenda le regole più inique – così come i sindaci italiani stanno disobbedendo alla politica xenofoba di chiusura dei porti italiani. Ma oltre a entrare nel merito di come i Trattati debbano essere modificati e la disobbedienza organizzata – cosa essenziale – dobbiamo saper presentare proposte di rottura attuabili fin da subito. Perché la crisi sociale non aspetta i tempi di una revisione costituzionale. Una lezione, questa, che Renzi avrebbe fatto bene ad imparare.

Pensiamo si debba arrivare alle elezioni europee del 2019 con una visione chiara, un programma e un candidato comune alla Presidenza della Commissione europea. Per combinare apertura, unità e coerenza, abbiamo deciso di rinnovare il nostro appello a livello europeo e nazionale a tutte le forze di sinistra, ecologiste, ai movimenti sociali e a tutte le forze progressiste per creare una lista comune paneuropea sulla base di un’Agenda politica condivisa. Come parte del nostro rinnovato appello, proponiamo che l’Agenda comune e le figure da candidare alla Presidenza della Commissione Europea vengano scelte attraverso un processo aperto e democratico – delle vere e proprie primarie continentali.

Proponiamo di fare votare tutti gli iscritti di tutti i movimenti che parteciperanno e che questa votazione sia aperta anche a tutti i cittadini che vorranno unirsi attraverso un meccanismo semplice, capace di combinare la partecipazione alle assemblee territoriali alla partecipazione online. In caso di disaccordo su aspetti specifici dell’Agenda, proponiamo che tutte le forze politiche partecipanti accettino di risolverli rimettendo le decisioni al voto dei cittadini. Oggi, da Milano, in un grande evento serale allo spazio Macao, dalle ore 21 lanceremo pubblicamente queste proposte insieme a tanti protagonisti della politica europea e italiana.

Pensiamo sia il momento di fidarci del nostro popolo e rimettere la scelta nelle mani di un grande processo di partecipazione. Un processo aperto che ci impegniamo a portare avanti indipendentemente da quali delle forze politiche decideranno di rispondere positivamente.

Abbiamo il dovere storico di accendere un faro in questi tempi oscuri. È il momento di farlo, insieme. E di farlo con coerenza, fermezza e credibilità.

FONTE: Janis Varoufakis, IL MANIFESTO

photo: By El Desperttador (youtube) [CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)], via Wikimedia Commons

NAPOLI. Al congresso di Dema, il movimento del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, c’erano ieri realtà e rappresentanti politici che non si riconoscono nel governo giallo-verde e neppure nel centrosinistra spazzato via dalle politiche. La novità la dà il sindaco a margine dei lavori: «C’è bisogno di un’alternativa sociale, politica ed economica, assente nel contratto Lega-M5s che è la continuità delle misure liberiste che hanno massacrato la popolazione. Un’alternativa al governo più di destra della storia repubblicana e alla finta opposizione di Renzi e Berlusconi. Apriamo una fase costituente, un’assemblea itinerante che si concluderà in autunno. Siamo disponibili a costruire tutti insieme un nuovo contenitore».

L’idea è aprire una fase di ascolto tra realtà autonome, che stanno facendo percorsi differenti, per convergere su un nuovo movimento, inserire Dema (un acronimo che sta per Democrazia e autonomia e che richiama il cognome del sindaco) in una realtà più ampia, de Magistris propone il nuovo nome: «Potrebbe chiamarsi Demos, non dovranno esserci “tutti quelli che non stanno a destra” ma militanti, amministratori, associazioni, comitati che hanno dimostrato di voler fare la rivoluzione, che è il coraggio di prendere decisioni. Siamo una realtà che resiste, che non ha privatizzato i servizi di rilevanza costituzionale. Questa è la nostra dote che offriamo a tutti a parità di condizione».
Oggi si eleggeranno gli organismi: de Magistris è candidato alla presidenza, lo stesso sindaco vorrebbe che venisse affidato il ruolo di responsabile nazionale al suo assessore al Bilancio, Enrico Panini, con il mandato di radicare il movimento in tutta Italia. «Per le prossime politiche ci saremo, anche se si dovesse votare tra tre mesi – spiega il sindaco -. Daremo un contributo a unire le forze per le europee, dialoghiamo con Varufakis, Melanchon, Iglesias». E sul governo: «Sono pronto a cooperare con il premier Conte, il nostro però è un progetto alternativo. C’è chi dice “prima gli italiani” ma un paese non si costruisce sulla paura. La principale forza politica, che ha avuto un voto straordinario dal Mezzogiorno, si è alleata con Salvini».
Tra gli ospiti del congresso i No Tav e i No Terzo Valico. Il sindaco di Messina, Renato Accorinti, è tra i più fotografati: «Il governo giallo-verde è una caduta nel baratro. Molta gente delusa dal Pd ha fatto questo voto di rabbia, a cosa può servire stare con i nazifascisti?». Laura Boldrini, parlamentare Leu, ha mandato un videomessaggio: «Gli elettori 5S sono stati traditi, motivo in più per lavorare insieme, tutti noi che abbiamo a cuore la giustizia sociale. Nel loro contratto non si parla di diseguaglianze, di occupazione femminile, di Sud».
C’è Maurizo Acerbo, segretario di Rifondazione: «Non vedo perché non possiamo metterci insieme per costruire un movimento popolare in Italia e in Europa». Rifondazione è nel percorso di Potere al popolo, che oggi e domani terrà la sua assemblea nazionale a Napoli. Ad ascoltare le relazioni c’erano anche le realtà di movimento. Napoli direzione opposta, con Dario Oropallo, spiega: «La somma dei ceti politici non può essere la via per ricostruire l’opposizione. Partiamo dai territori». Viola Carofalo, per l’Ex Opg Je so’ pazzo, commenta: «Bisogna costruire l’alternativa al governo e pure all’opposizione, schiacciata sui diktat europei». Interviene anche il dem Marco Sarracino, area Orlando: «Serve un’autocritica, spogliarci dai pregiudizi e cambiare, tutti insieme. Il vecchio è morto, elaboriamo una proposta collettiva alternativa e credibile».

FONTE: Adriana Pollice, IL MANIFESTO

photo: Di Santino Patanè from Caslino d’Erba (CO), Italy (Luigi De Magistris) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

Da oggi, come si suol dire, «le chiacchiere stanno a zero». Nel senso che le nostre parole (da sole) non ci basteranno più. D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente, più “di persona”: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che stanno sotto gli ultimi – le prime e vere vittime di questo governo che (forse) nasce.

Dovremmo anche piantarla con le geremiadi su quanto siano sporchi brutti e cattivi i nuovi padroni che battono a palazzo. Quanto “di destra”. O “sovranisti”. Forse fascisti. O all’opposto “neo-liberisti”. Troppo anti-europeisti. O viceversa troppo poco, o solo fintamente. Intanto perché nessuno di noi (noi delle vecchie sinistre), è legittimato a lanciare fatwe, nel senso che nessuno è innocente rispetto a questo esito che viene alla fine di una lunga catena di errori, incapacità di capire, pigrizie, furbizie, abbandoni che l’hanno preparato. E poi perché parleremmo solo a noi stessi (e forse non ci convinceremmo nemmeno tanto). Il resto del Paese guarda e vede in altro modo. Sta già altrove rispetto a noi.

Forse resta dubbioso sulla realizzabilità dei programmi, forse indugia incerto per horror vacui, ma non si sogna neppure di usare le vecchie etichette politiche del Novecento per qualificare un evento fin troppo nuovo e nel suo contenuto sociale inedito, come inedita è la struttura della società in cui è maturata la svolta.

IL FATTO è che questo governo è la diretta espressione del voto del 4 di marzo. E che quel voto ha costituito e rivelato non un semplice riaggiustamento negli equilibri politici, ma un terremoto di enorme magnitudine, una vera apocalisse culturale, politica e sociale. Piaccia o non piaccia (a me personalmente non piace) ma questa coalizione giallo-verde esprime – per quanto sia esprimibile – il messaggio emerso più che maggioritariamente dalle urne. Traduce in termini istituzionali l’urlo un po’ roco che veniva dalle due metà dell’Italia, e che diceva, con toni e sotto colori diversi, che come prima non si voleva e non si poteva più continuare. Che non se ne poteva più. E che quegli equilibri andavano rotti.

FORSE SOLO l’asse tra Cinque stelle e un Pd de-renzizzato avrebbe potuto corrispondere a quegli umori (e malumori), ma la presenza ingombrante del cadavere politico di Matteo Renzi in campo dem l’ha reso impossibile. Non certo un governissimo con tutti dentro, avrebbe potuto farlo. O un governo del Presidente. Che avrebbero finito per generare una gigantesca bolla di frustrazione e rancore da volontà tradita, velenosa per la democrazia quant’altra mai. Cosicché non restava che questo ibrido a intercettare i sussurri e le grida di una composizione sociale esplosa, spaesata e spaventata come chi abiti un paesaggio post-catastrofico, geneticamente modificato da una qualche mutazione di stato.

ED È QUESTO il secondo punto su cui riflettere. Questo nostro trovarci a valle di una «apocalisse» come l’ho chiamata, pensando all’accezione in cui Ernesto De Martino usava l’espressione «apocalisse culturale». Cioè una «fine del mondo» (questo era il titolo del suo libro). Anzi, la fine di un mondo. Che è appunto la nostra condizione. Perché un mondo è davvero finito. È andato in pezzi: il mondo nel quale si sono formate pressoché tutte le nostre categorie politiche, e si sono strutturate tutte le nostre pregresse identità, dalla destra alla sinistra, e si sono formalizzati i nostri linguaggi e concetti e progetti. Nessuna di quelle parole oggi acchiappa più il reale. Nessuno di quei modelli organizzativi riesce a condensare un qualche collettivo. Nessuna di quelle identità sopravvive alla prova della dissoluzione del “Noi” che parte dal default del lavoro e arriva a quello della democrazia.

CONTINUIAMO testardamente a cercar di cacciare dentro il cavo vuoto dei nostri vecchi concetti i pezzi di una realtà che non vuol prenderne la forma e si ribella decostruendosi prima ancor di uscire di bocca. Continuiamo a sognare la bella unità tra diritti sociali e diritti umani universali che il movimento operaio novecentesco aveva miracolosamente realizzato, e non ci accorgiamo che non sono più “in asse”. Che oggi i primi sono giocati contro i secondi, da questo stesso governo che a politiche feroci sul versante della sicurezza – alla negazione dei diritti umani – associa un’attenzione alle politiche sociali (per lo meno per quanto riguarda il loro riconoscimento nel programma) sconosciuta ai precedenti.

LIQUIDIAMO come «il più a destra, in tutta la storia della Repubblica» questo governo (non è che il governo Tambroni nel 1960 o quelli Berlusconi-Fini della lunga transizione scherzassero…), senza riflettere sul fatto che i due partiti che lo compongono hanno in pancia una bella percentuale di elettorato “di sinistra” (un buon 50% i cinque stelle, un 30% o giù di lì la Lega). Mentre pressoché tutta la stampa “di destra” (da Vittorio Feltri a quelli del Foglio e del Giornale), i quotidiani mainstream, gli opinion leaders “di regime” (pensiamo a Bruno Vespa), le agenzie di rating, i Commissari europei, ostenta pollice verso. Qualcosa evidentemente si è rotto nei meccanismi della nostra produzione di senso.

D’ALTRA PARTE nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente la ricerca su «Chi è il popolo» realizzata da un gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata sabato scorso a Firenze: il tratto comune a tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso condiviso della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.

SE UN NOME vogliamo dargli, è “moltitudine”, non tanto nel senso post-operaista del termine, come nuova soggettività antagonistica, ma in senso post-moderno e post-industriale: l’antica «classe» senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni precedenti. In qualche misura «gente»… Cosicché anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza popolo.

Per questo è bene rimetterci in gioco «in basso». Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere neppure rappresentazione.

FONTE: Marco Revelli, IL MANIFESTO

Dall’incontro nazionale della “Rete delle città in comune” la decisione di presentare programmi elettorali omogenei, con un processo aperto alle realtà in costruzione, nel segno della difesa del patrimonio e dei servizi pubblici, e della disobbedienza civile ai vincoli di bilancio che strangolano gli enti locali. Pisa capofila della Rete, mentre sotto la Torre Pendente il Pd diviso viene commissariato.

FIRENZE. “Che obiettivo ci diamo? Quello di resistere e avanzare, sui territori, dove il nostro ‘lavoro politico’ quotidiano è visibile, e ottiene dei risultati che ci vengono riconosciuti”. Le parole di Tommaso Grassi (Firenze riparte a sinistra) offrono una prima chiave di lettura dell’incontro nazionale della “Rete delle città in comune”. Organizzato per mettere a confronto, e spingere all’unità di intenti, le liste di cittadinanza e di sinistra presenti da un capo all’altro della penisola. Con risultati non disprezzabili, visto che fra la sessantina di partecipanti all’incontro fiorentino – ma con adesioni ben più corpose – ci sono perlopiù consiglieri comunali ma anche qualche amministratore di comuni più piccoli. Lì dove una politica di sinistra sta avendo ancora un senso, almeno agli occhi degli elettori.

Nell’imminenza del voto amministrativo di giugno, il primo risultato della giornata è stata la decisione di darsi supporto reciproco, facendo tesoro dei programmi e delle esperienze comuni. “Ai tavoli di lavoro abbiamo elaborato uno schema di linee guida programmatiche – sintetizza il pisano Francesco Auletta – da mettere a disposizione delle liste già costituite o che si costituiranno in queste settimane. Sia delle realtà che già fanno parte della Rete, che di quelle che ancora ne sono fuori ma ci seguono con interesse. Con la discriminante, doverosa, di essere alternativi alla destra ma anche ai cinque stelle e al Pd”. Insomma una scelta, chiara, di campo.
Di fronte al dato di fatto che gli enti locali sono stati le principali vittime delle politiche di austerità, al termine dell’incontro è stato preparato un documento congiunto che, pure in bozza, fa capire bene al direzione di marcia: “Presenteremo programmi politico-elettorali con la richiesta agli enti locali di ‘disobbedire’ ai vincoli che li stanno stritolando. Vincoli che non sono solo quelli della legge di bilancio. Ad esempio, come è possibile che per contrarre mutui la Cassa depositi e prestiti, che è pubblica, presti i soldi a tassi di mercato, quando li riceve dalla Bce a costo zero o quasi?”.
A seguire il tema della “re-internalizzazione” dei servizi, concretamente perseguibile anche secondo il principio “a parità di lavoro, parità di salario” fra gli addetti diretti e quelli in appalto o esternalizzati. Un’operazione da svolgere in parallelo, e in salutare controtendenza, al recupero di un patrimonio pubblico che da anni viene (s)venduto pezzo per pezzo, così come sta accadendo per le “public utilities”. Infine la battaglia civile contro le derive securitarie, dai daspo urbani alla legge Minniti-Orlando, cui contrapporre il recupero di spazi di socialità e di democrazia sostanziale. Nel segno di quelle politiche di cooperazione, solidarietà e mutualismo che ancora danno un senso alla parola “sinistra”.
Fra le città che hanno dato una spinta alla Rete spicca Pisa, dove le elezioni del giugno prossimo stanno dando l’ennesima riprova della crisi del Pd. Con l’arrivo di un commissario, il primo cittadino pratese e presidente dell’Anci Toscana, Matteo Biffoni, il cui mandato è quello di “espletare tutti i tentativi possibili per arrivare a una candidatura unitaria del centrosinistra”. Oppure convocare le primarie il 29 aprile per scegliere il candidato. Richiesta, quest’ultima delle primarie, fatta “a norma di Statuto del Pd” dall’assessore uscente e candidato in pectore Andrea Serfogli, che ha mezzo partito al suo fianco ed è appoggiato anche dalle liste civiche attualmente in maggioranza sotto la Torre Pendente. Ma non è gradito da Mdp e dal suo uomo forte, ed ex sindaco, Paolo Fontanelli.

FONTE: Riccardo Chiari, IL MANIFESTO

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