Dopo Genova. Nuovi lavori, nuovi diritti, nuovi soggetti: felicità e contropotere

In occasione dei 90 anni compiuti oggi da Toni Negri, ripubblichiamo un colloquio tra Toni e Sergio Segio, uscito nel marzo 2002 come editoriale dell’Agenzia Testimoni di GeNova, strumento di dibattito e informazione nato a partire dal movimento altermondialista

In occasione dei 90 anni compiuti oggi da Toni Negri, ripubblichiamo un colloquio tra Toni e Sergio Segio, uscito nel marzo 2002 come editoriale dell’Agenzia Testimoni di GeNova, strumento di dibattito e informazione nato a partire dal movimento altermondialista

 

  • Se la CGIL ha tratti pachidermici, non di meno continua a costituire baluardo, magari in extremis, di libertà sociali e diritti democratici fondamentali
  • Il movimento di Genova aveva rivelato il vuoto della direzione della sinistra, la sua assenza politica; il movimento dei “girotondi” ha isolato quella direzione; il sindacato si è risvegliato recuperando l’insieme delle tensioni a un rinnovamento della democrazia
  • Solo uno scarto, una radicale diversità di prospettiva, una fuoriuscita dal paradigma lavorista può rendere possibile un mondo diverso, come recita lo slogan in voga
  • Berlusconi è una vera e propria caricatura di quel “order without law” che i governanti imperiali vogliono imporre al mondo
  • Anche nel movimento vi è scarsa coscienza che il personale è politico, che c’è necessità di una coerenza forte tra il dire, il fare e l’essere, che la verità è rivoluzionaria
  • La decisione politica di creare un nuovo mondo e, perciò, di inserire felicità comune nelle nostre vite e nelle nostre azioni, può diventare la base di una nuova rivoluzione. Non vogliamo prendere il potere ma produrne uno nuovo
  • Mobbing, violazioni di diritti sindacali, precarietà, lavoro nero, assenza di democrazia, leaderismo e verticismo ossessivi, presidenze a vita: sono presenti nelle pratiche di parte non piccola delle associazioni, del mondo del non profit e del forse troppo decantato volontariato
  • Un passaggio essenziale consiste nel porre la povertà al centro del nuovo processo organizzativo: perché essa esprime la radicalità della protesta, rovescia la pervasività degli effetti distruttivi che stanno alla sua base, e produce una generosità estrema (altri parlano di amore) all’interno del movimento

 

 

Sergio Segio: Alla vigilia dello sciopero generale e della manifestazione nazionale della CGIL del 23 marzo a Roma il dibattito sembra avvitarsi su categorie, ritualità e simbolismi novecenteschi, a loro volta eredità di fine Ottocento. È preoccupante che arrivi da destra (pur nelle evidenti strumentalità e inconseguenze pratiche, teoriche e politiche) un discorso o almeno un accenno ai lavori e al nuovo e moderno quadro dei diritti che dovrebbe fotografarne la “costituzione materiale”, anzitutto riconoscendola e poi trascrivendola in nuovo Statuto.

Va detto che la valenza altamente (e prevalentemente) simbolica dello scontro sull’articolo 18 non è perseguita solo e tanto dalla CGIL, pur ovviamente interessata agli oggettivi ed evidenti risvolti politici di ricompattamento, traino e volano del centrosinistra, e in specie dei Ds. E alla propria conseguente autorevolezza nel disegnarne future leadership e strategie.

L’aggressività di Confindustria e l’asse Maroni-Tremonti hanno imposto una simmetrica volontà di misurarsi in queste “Scene di lotta di classe a Jurassik park”. Il disegno di legge delega sul mercato del lavoro e il “Libro bianco” che l’ha preceduto svelano una strategia di destrutturazione delle forme residue di una composizione sociale che, obiettivamente, da tempo non esiste più. Ovviamente, l’intento dell’offensiva contro i diritti acquisiti dai lavoratori non è innocente né ingenuo, e gli effetti – va detto – possono essere devastanti. Perché se la CGIL ha tratti pachidermici, non di meno continua a costituire baluardo, magari in extremis, di libertà sociali e diritti democratici fondamentali. E di ciò bisogna onestamente dare atto.

Tra il rischio di opposti simbolismi, la domanda diventa: è possibile un deciso scarto sul piano dei contenuti, degli obiettivi e dei soggetti coinvolti?

E anche: è possibile, c’è spazio e ascolto, per dire – ad esempio – una piccola verità? Ovvero che la difesa dell’articolo 18 è simulacro di un diritto già svuotato dalle infinite modalità di precarizzazione del rapporto di lavoro cresciute e radicatesi nella giungla del mercato nel decennio scorso, con sindacato e sinistra che troppo spesso facevano come le famose tre scimmiette?

Alcuni (ad esempio, il “Comitato per le libertà e i diritti sociali” di cui pubblichiamo alcuni materiali in questo dossier dell’Agenzia di informazione Testimoni di GeNova), consapevoli di questa verità nascosta dietro una classica e ipocrita foglia di fico, rilanciano propositivamente l’estensione dell’articolo 18 attraverso alcuni quesiti referendari. Mossa politica intelligente ma, mi sembra, ancora tutta interna a un paradigma “lavorista”, alla logica del +1 anziché a quella dello scarto e dell’innovazione (termine questo divenuto parolaccia impronunciabile, di cui pure andrebbe però recuperato il senso, vale a dire l’intenzionalità del cambiamento e la centralità della comunicazione).

 

Toni Negri: Sono d’accordo con te. La difesa dell’articolo 18, e solo di quello, rappresenta una linea residuale. Tuttavia sembra che questa difesa stia sollevando un movimento positivo. Lo si vede quando si considera con quale imbarazzo la direzione del centro-sinistra ha dovuto accettare di stare al gioco sindacale. Stiamo assistendo a un concatenarsi positivo di azioni e reazioni che costituiscono una linea d’attacco.

Il movimento di Genova aveva rivelato il vuoto della direzione della sinistra, la sua assenza politica; il movimento dei “girotondi” ha isolato quella direzione; il sindacato si è risvegliato recuperando l’insieme delle tensioni a un rinnovamento della democrazia che attraversano il Paese.

È vero che non c’è uno scarto di programma, ancora. V’è tuttavia uno scarto soggettivo che non deve essere sottovalutato. Il concatenamento politico potrà svolgersi fino a diventare significativo sul piano programmatico? Fino a sviluppare, ben oltre la difesa dell’articolo 18 e della capacità di contrattazione del sindacato, una vertenza sociale, per esempio, sul “reddito di cittadinanza” e a invertire i processi di smantellamento di tutte le condizioni/strutture dell’organizzazione comune della vita?

Io ricordo la lotta degli impiegati dei trasporti pubblici urbani e dei ferrovieri in Francia (e a Parigi in particolare) nell’inverno 1995-96. Anche quella lotta era iniziata per bloccare la mobilità extra-contrattuale della forza lavoro. Ma nel suo corso la lotta diventò una gigantesca rappresentazione non più solo di resistenza ma di espressione di nuovi diritti: nel caso, il diritto a considerare i trasporti urbani bene comune, inespropriabile, non privatizzabile, e neppure esposto alle incertezze budgetarie dell’amministrazione pubblica… Il trasporto urbano, dicevano i parigini, è nostro, è la condizione prima, interna, al nostro vivere. Così, lo sviluppo della lotta aveva subito uno scarto decisivo. Io non so se questo oggi sarà possibile, ma confido nel fatto che un filo, tanto importante quanto quello che lo sciopero generale indica, possa essere dipanato.

 

Segio: La monetizzazione del potere di licenziamento, voluta dal governo, è ovviamente odiosa; ha però un merito: quello di togliere infingimento al carattere di merce del lavoro, consentendo di cogliere e svelare i processi capitalistici di valorizzazione. E dunque anche quelli, in potenza, di autovalorizzazione.

Per giocare un po’ con le semplificazioni: come tu hai insegnato, i processi lavorativi hanno scavalcato la fabbrica e investito la società, permeandone ogni interstizio, esportandovi la propria disciplina, al contempo ibridando lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione. La disciplina di fabbrica, a sua volta, era mutuata da quella dell’istituzione totale e da quella militare in specifico. La società-fabbrica, che è basilare nella globalizzazione, in certo senso è galera globale; l’operaio-sociale è una specie di recluso che fruisce dell’articolo 21 (il “lavoro all’esterno” dell’ordinamento penitenziario), carceriere di se stesso, incapace di pensarsi come lavoro vivo in grado di riappropriarsi del proprio tempo, sottraendolo al valore di scambio e all’imperativo del consumo. La semilibertà carceraria (per quanto apparente contraddizione in termini) associa alla parola libertà la parte di giornata dedicata al lavoro, ma almeno separa il tempo e il luogo della libertà da quello della non-libertà. “Il lavoro rende liberi” è invece un truffaldino ossimoro, oltre che un pertinente e sinistro richiamo storico al lager e al gulag, che assume e riassume la dimensione totalizzante della comunità dei produttori come universo conchiuso in sé e “realizzato” nella forma estrema e originaria del lavoro salariato, dove il massimo di libertà coincide con la schiavitù.

Se ciò è in qualche misura vero, la domanda è: come si evade da una galera globale, da uno spazio chiuso che non ha, e non prevede, un suo “fuori”?

Di nuovo, mi sembra che è solo uno scarto, una radicale diversità di prospettiva, una fuoriuscita da quel paradigma a rendere possibile un mondo diverso, come recita lo slogan in voga. Ma sono un po’ scettico sulla attualità e plausibilità dello slogan conseguente, vale a dire sul fatto che un mondo diverso sia effettivamente in costruzione. Perché siamo ancora troppo dentro i luoghi, anzi, i non-luoghi comuni.

 

Negri: Sono meno pessimista di te. Meglio, penso che si debba essere assai pessimisti sul terreno pratico (e cioè quando si considerano materialmente i passi da fare e si valutano quelli che fanno gli avversari) ma che una linea di trasformazione radicale stia invece ragionevolmente definendosi. Rovesciando l’aforisma gramsciano direi: «ottimismo della ragione, pessimismo della volontà».

La crisi del lavoro come misura dello sviluppo e parametro di valorizzazione della vita è andata troppo avanti perché la stessa violenta reazione capitalistica possa aver successo. Dalla disciplina, al controllo sociale, alla guerra: così viene svolgendosi l’attività ordinatrice del governo imperiale. Nelle nostre società ciò è sempre più palese. Berlusconi è una vera e propria caricatura di quel “order without law” che i governanti imperiali vogliono imporre al mondo. Procedure, stralci, mobilità… dappertutto, in ogni luogo e in ogni tratto di tempo… Un mondo insensato e feroce viene configurandosi. Ma c’è resistenza!

Tu dici: «ma non c’è più “fuori”». Dove andiamo a cercare un nuovo luogo di liberazione? Io credo che non ci sia. Penso, tuttavia, che la decisione politica di costruire, meglio, di creare un nuovo mondo e, perciò, di inserire felicità comune nelle nostre vite e nelle nostre azioni, possa diventare la base di una nuova rivoluzione. Non vogliamo prendere il potere ma produrne uno nuovo.

Nel “movimento dei movimenti” queste passioni cominciano già a vivere: e questo (quando cioè il movimento non è più solo un mezzo ma anche un fine, non solo potenza ma anche felicità) ci conferma nell’agire.

 

Segio: Veniamo dunque al “movimento dei movimenti” (è curiosa questa crescente necessità di surdeterminazione: ormai ci sono solo reti delle reti, associazioni delle associazioni, movimenti dei movimenti), tornando anche ai temi del 23 marzo. Una delle gambe più robuste del nuovo movimento, o almeno una delle più visibili (i Cobas), ha un’identità costitutiva col tema del lavoro, ma anche con tutte le sue contraddizioni e polverosità. Altre gambe rimandano all’associazionismo più tradizionale che, magari soi malgré, conserva nel proprio corredo genetico una vocazione di cinghia di trasmissione dei partiti e, funzionale a questa, la tendenza a inglobare e rappresentare a 360 gradi. Altre componenti ancora, forse più laterali (o lateralizzate), insistono, anche giustamente, sul metodo (orizzontalità, trasparenza, collegialità, rotazione) ma non hanno alternative di merito e di proposta che non siano la semplice, e sia pure apprezzabile, “riduzione del danno” delle ingiustizie sociali. Anche qui, nessuno scarto, nessuna progettualità, nessuna ambizione di vera alternativa all’ordine vigente delle cose. Nessuna coscienza che il personale è politico, che c’è necessità di una coerenza forte tra il dire, il fare e l’essere, che la verità è rivoluzionaria…

La stessa decantata Tobin tax, alla fin della fiera, altro non è che un modestissimo prelievo (nella proposta di legge di iniziativa popolare lanciata da ATTAC, lo 0,02%) sui 1.587 miliardi di dollari che, ogni giorno, vengono scambiati sui mercati valutari, nel 90% dei casi unicamente a fini speculativi, con la finalità di disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine e il cui principale risultato sarebbe quello di ridurre l’instabilità dei mercati, assai più che non quello di redistribuire ricchezza. Paradossalmente, gli effetti sarebbero anche di rafforzamento degli organi di governo mondiale e dello stesso controllo delle banche centrali: in certo modo, un rafforzamento della globalizzazione neoliberista. Certo, meglio l’introduzione di controlli sul flusso imponente di denaro sporco e opaco che l’impero dei paradisi fiscali. Ma nulla di rivoluzionario. Semplicemente l’introduzione di una regola stabilizzante per un mercato messo a rischio della sua stessa selvaticità.

Un po’ come la legge sul rientro dei capitali varata dal governo Berlusconi che, per coerenza, dovrebbe incontrare lo stesso entusiasmo dei sostenitori della proposta del liberale Tobin. Naturalmente esagero volutamente, ma credo dobbiamo tenere alta e aperta la preoccupazione per il conformismo e il politicismo senz’anima, poiché sono malattie, infantili ma potenzialmente letali, del movimento allo stato nascente.

 

Negri: Sono d’accordo nella valutazione che dai sugli obiettivi, sempre parziali, spesso francamente inutili o errati che varie frazioni del movimento esprimono. Detto questo, tuttavia, occorre insistere sul fatto che questo movimento non solo c’è, ma è anche riuscito ad aprire un ciclo di lotte all’interno dei singoli Paesi e su base planetaria. Siamo con ogni probabilità entrati in una fase di costruzione di una nuova internazionale comunista. Questo passaggio va oltre i limiti delle rivendicazioni e delle singole forze presenti nel movimento. La tensione alternativa esiste come totalità: la miseria delle singole espressioni può essere sottolineata e deve essere combattuta, ma a me sembra che qui si sia già oltre il livello artigianale nella costruzione del movimento. È dentro la sua alta spontaneità e a fronte della sua attuale potenza che si tratta di valutarlo.

Quanto alla Tobin tax: sono d’accordo che si tratta di un espediente riformistico… eppure non credo che sia facilmente accettabile dalla finanza mondiale. La Tobin tax, per il momento, è nel flusso di un progetto di trasformazione, è indicativa di un obiettivo a scala globale. Insomma, funziona per il movimento, non ne costituisce ancora un argine.

 

Segio: Manca, mi sembra, la poliedrica moltitudine di Genova. Manca – almeno nella rappresentazione e nella gestione – un’abbondante metà dei 300.000. Mancano le donne. Manca ciò che costituiva effettivamente il nuovo, nel senso di nuova soggettività in cerca di luoghi e di pratiche, più che di rappresentanti.

Anche qui, sorge una domanda: c’è una terza via possibile tra l’atteggiamento un po’ schizzinoso di chi giudica il movimento rivolo destinato a rinseccarsi o a confluire in alvei tradizionali, o a esplodere sotto la pressione ingovernata della contraddizione locale-globale, e chi finge, magari pro domo sua, di pensare rappresentati e rappresentabili nei Social forum i 300.000? Magari senza interrogarsi sui bisogni, diritti e caratteristiche che essi esprimono. Magari fingendo di non vedere e di non alimentare i fuscelli e le travi (mobbing, violazione di diritti sindacali, precarietà, lavoro nero, assenza di democrazia, leaderismo e verticismo ossessivi, presidenze a vita) che pure albergano negli occhi, negli statuti e nelle pratiche di parte non piccola delle associazioni, del mondo del non profit e del forse troppo decantato volontariato, specie se visto e voluto come figura alternativa, e finalmente costruttiva, post-ideologica, rispetto al militante del Novecento.

Io ho la sensazione, non so quanto esatta poiché fondata su una conoscenza di situazioni geograficamente limitata, che vi sia un paradosso in corso. Questo movimento è carsico: mobilita sui grandi temi e sui forti sentimenti, ma non ha significativa pratica territoriale. I Forum locali, che dovevano fondare la nascita, e la legittimità, del Forum sociale italiano hanno vita grama ed esistenza nominalistica (con apprezzabili e innegabili eccezioni).

Non sarà forse che, tanto per cambiare, alla praxis, all’esserci, all’indignarsi occorre intrecciare un’analisi, un progetto? Non sarà forse che più che di una teorizzazione del localismo c’è bisogno di radicamento reale nelle cose, nei territori, nelle condizioni sociali?

Ecco: in definitiva mi pare che questo movimento, o meglio la sua rappresentazione, prema per andare a parlare sul palco il 23 a Roma per certificare la propria esistenza. Mentre vi sarebbe bisogno che andasse per fare irrompere in quelle tematiche e quei luoghi il peso dei nuovi lavori e dei nuovi diritti. Lavori atipici, diritti innominabili. Anche qui, e di nuovo: dei tossici, dei carcerati, degli immigrati, dei senza patria e senza diritti, come delle tute arancioni o dei lavoratori in affitto si rischia di parlare molto poco. Noi, come singoli compagni, come operatori sociali e di SERT, come Rete autoconvocata “La libertà è terapeutica”, come gruppi di tossici e di carcerati, come associazioni di base, sabato (ora 8,30 piazza Esedra-angolo via Orlando) saremo alla manifestazione di Roma sotto lo striscione “Soggetti deboli, diritti forti”. Ci sembra un piccolo ma necessario contributo affinché la sinistra, ma anche i Social Forum, si facciano maggiormente carico di alcune problematiche dell’esclusione sociale, degli ultimi tra gli ultimi, dei più poveri.

 

Negri: Di nuovo mi sembra di non poter che darti ragione. Ma è solo nella sperimentazione continua di nuove forme di organizzazione che riusciremo a riconquistare la poliedrica potenza dei 300.000 di Genova. Quando cominciammo a organizzare Genova ci si proposero gli stessi ostacoli che oggi di nuovo denunciamo. Quelli che io chiamo i “grunf-grunf”, che protestano a ogni iniziativa e tutto vedono come inutile . I grunf-grunf dominavano la scena. Eppure, le Tute bianche, Ya basta! e tutti gli altri compagni seppero costruire un percorso corretto che non si interruppe neppure davanti alla forsennata risposta poliziesca. Quale forma di organizzazione dobbiamo costruire per continuare quel percorso? Credo che un passaggio essenziale consista nel porre la povertà al centro del nuovo processo organizzativo: perché essa esprime la radicalità della protesta, rovescia la pervasività degli effetti distruttivi che stanno alla sua base, e produce una generosità estrema (altri parlano di amore) all’interno del movimento.

Hai ragione quando parli degli esclusi al centro dei processi di liberazione: la povertà sola, infatti, è capace di suscitare, con l’indignazione, la resistenza e di dar corpo a un progetto di democrazia assoluta. Oggi anche gli operai sanno di abitare a un passo dalla povertà: ecco dunque dove si porranno i luoghi, i territori di organizzazione, quel locale dal quale necessariamente l’iniziativa globale deve prendere le mosse. L’analisi, il progetto, il potere costituente nascono qui.

[* Editoriale di Toni Negri e Sergio Segio, numero 5 dell’Agenzia Testimoni di GeNova, marzo 2002]

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