Razzismo

In una delle sue lettere scritte dal carcere di Skien, il terrorista norvegese di estrema destra Anders Behring Breivik si rivolgeva così a Beate Zschäpe, appartenente alla cellula neonazista tedesca Nationalsozialistischer Untergrund (NSU): «Siamo le prime gocce di pioggia che preannunciano l’arrivo di una tempesta purificatrice in Europa. Nei prossimi anni sempre più europei riconosceranno il nostro sacrificio».

La missiva risaliva al 2012, e da allora le «gocce» del terrorismo di estrema destra si sono intensificate parecchio sia in Europa che nel resto del mondo.

In certi ambienti, poi, lo stesso Breivik è diventato una sorta di «martire» che ha indicato la via e ispirato altri giovani occidentali a prendere le armi per punire i «traditori» della «razza bianca».

Quel che è peggio è che i numeri sembrano dargli ragione. Come ha rilevato l’Institute for Economics and Peace (IEP, un’associazione australiana che traccia e analizza la violenza politica in tutto il mondo) nel suo ultimo Global Terrorism Index pubblicato lo scorso novembre, gli attentati ispirati dall’ideologia di estrema destra sono aumentati del 320% dal 2014 al 2018.

Lo studio conferma indirettamente un altro rapporto sull’estremismo politico negli Stati Uniti, stilato nel gennaio del 2019 dall’Anti-Defamation League.

Secondo l’ong americana, nel 2018 i cosiddetti «terroristi domestici» hanno ucciso almeno 50 persone (in aumento rispetto al 2017) e sono tutti «ascrivibili all’estrema destra o hanno un legame con movimenti riferibili a quell’ideologia».

Nel presentare lo studio dello IEP, il fondatore Steve Killelea ha definito particolarmente «preoccupante» questo incremento, proprio perché parte da numeri più bassi rispetto alla violenza di altre matrici politiche ed è strettamente legato all’aumento di discorsi e crimini d’odio nelle società occidentali.

Per quanto poi non si tratti di un fenomeno inedito nel dopoguerra, sono le sue caratteristiche di base ad essere profondamente mutate. Anzitutto, a contare di più è l’affiliazione ideologica che l’appartenenza a un gruppo strutturato; non a caso gli attentatori dell’ultima decade hanno agito principalmente da soli, pur avendo una rete di contatti – specialmente online – ed essendo inseriti in un determinato ambiente culturale.

Restando negli Stati Uniti, una differenza cruciale rispetto al terrorismo domestico degli anni ‘90 è riscontrabile anche nelle motivazioni e nei bersagli. Come spiega a il manifesto David Neiwert, autore del saggio Alt-America (minimum fax) nonché uno dei massimi esperto di destra radicale americana, quell’ondata di violenza politica culminata nell’attentato di Oklahoma City del 1995 si inscriveva nel cosiddetto «movimento delle milizie».

Tant’è che la preoccupazione principale dell’attentatore Timothy McVeigh – un suprematista bianco che per l’appunto faceva parte di una milizia – era il governo federale, mentre «razza» o «multiculturalismo» rimanevano sullo sfondo. «Voleva colpire il governo e vendicarsi di Waco e Ruby Ridge», dice Neiwert, ossia di due famigerati assedi (risalenti al 1992 e al 1993) da parte delle autorità federali finiti in una carneficina.

Citando invece i recenti casi di Charleston, Charlottesville e Pittsburgh, il giornalista statunitense sostiene che «l’attuale ondata di terrorismo di estrema destra è volta soprattutto a colpire immigrati, attivisti di sinistra ed ebrei. È quindi molto più apertamente razzista e antisemita del vecchio movimento delle milizie. Queste persone vogliono una guerra razziale, e agiscono per farne scoppiare una».

In un riquadro del genere, il massacro alla moschea di Christchurch (Nuova Zelanda) del 15 marzo 2019 è stato davvero uno spartiacque.

Da un lato, in quell’attentato sono confluite molte tendenze dell’estrema destra contemporanea: l’uso di un linguaggio mutuato dall’alt-right, pieno di meme e shitposting; la «gamification del terrore» con la trasmissione in diretta della strage su Facebook; e la pubblicazione di un manifesto volto a sollecitare altri atti di violenza.

Dall’altro, afferma Neiwert, Christchurch ha fatto capire a chiunque che «questo fenomeno è globale»: «ovviamente si manifesta in diverse forme, ma il tratto comune è che questi giovani bianchi sono imbevuti di idee radicali e teorie del complotto prese in giro da varie fonti su Internet, la maggiore delle quali americane».

A tal proposito, il mito della «grande sostituzione etnica» – o del «genocidio dei bianchi» – è saldamente alla base degli ultimi massacri e compare nei manifesti degli attentatori di Christchurch, El Paso, Poway e Halle (in Germania). L’autore americano la descrive come «la paura dei bianchi di perdere le loro posizioni di privilegio, che porta a negare i cambiamenti demografici in Europa e America e non accettare la presenza dei ‘non-bianchi’ nelle nostre società. Di fronte a ciò, queste persone rifiutano di adattarsi e reagiscono violentemente».

Secondo il rapporto dello IEP, un altro fattore che ha contribuito all’incremento della violenza suprematista e di estrema destra è anche la sottovalutazione da parte delle forze di sicurezza, maggiormente impegnate a contrastare il terrorismo jihadista, e anche dei media mainstream.

Per il resto, è difficile prevedere se nel prossimo decennio ci sarà o meno un aumento di questo tipo di attentati di estrema destra. Il vero problema è che il livello di violenza è già alto adesso. Ma se non altro, conclude Neiwert, «ogni massacro aumenta la consapevolezza del pericolo tra le persone comuni. Ci si accorge cioè che c’è qualcosa di sbagliato, che va affrontato con decisione, e che bisogna decisamente cambiare la rotta».

* Fonte: Leonardo Bianchi, il manifesto

Con un singolare parallelismo giudiziario che farà discutere, risultano iscritti sul registro degli indagati anche sedici tra antifascisti e appartenenti ai movimenti per la casa

ROMA. Se ne parlava da giorni, ed ecco che arrivano i primi provvedimenti per le proteste contro la famiglia Omerovic, colpevole agli occhi di alcuni militanti neofascisti aver ottenuto una casa popolare nel quartiere romano di Casal Bruciato.

La procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati 24 persone che si apprende essere appartenenti ai movimenti di estrema destra CasaPound, la sigla dei sedicenti «fascisti del terzo millennio» che aveva pubblicamente rivendicato la sua protesta, e Forza Nuova.

Il procuratore aggiunto Francesco Caporale e il sostituto procuratore Eugenio Albamonte hanno aperto un fascicolo alla luce di una informativa Digos: contestano ai neofascisti, a vario titolo, i reati di istigazione all’odio razziale, violenza privata, minacce, adunata sediziosa, apologia di fascismo. Sarebbe indagato anche l’uomo che aveva minacciato di violenza sessuale Sedana, la donna assegnataria dell’alloggio e che i dirigenti di CasaPound avevano rocambolescamente provato a descrivere come un «cittadino esasperato» invece che come un militante neofascista.

Ci sarebbero invece altre 41 persone sottoposte ad indagine per reati analoghi le proteste che scoppiarono il mese scorso in un’altra zona della periferia romana, Torre Maura: in quel caso contestarono il trasferimento di alcuni rom in una struttura d’accoglienza, ottenendone la chiusura da parte dell’amministrazione comunale.

Contestualmente si apprende che, con un singolare parallelismo giudiziario che farà discutere, risultano iscritti sul registro degli indagati anche sedici tra antifascisti e appartenenti ai movimenti per la casa.

Nel loro caso si procederebbe per il reato di corteo non autorizzato: l’accusa è legata manifestazione che l’8 maggio scorso portò centinaia di persone ad intervenire contro il presidio xenofobo nel condominio di Casal Bruciato, rompendo l’assedio cui erano sottoposti da giorni i rom dentro la casa che gli uffici del dipartimento abitativo del comune di Roma aveva loro regolarmente assegnato. Proprio ieri, peraltro, a pochi metri dal condominio di via Satta in cui si svolsero i fatti, un presidio solidale organizzato da Asia Usb cui hanno partecipato decine di cittadini ha impedito lo sfratto di un’anziana signora dalla sua casa popolare. Inutile dire che in questo caso, quando c’era da difendere un diritto e non da sottrarlo a qualcuno, i neofascisti non si sono presentati.

* Fonte: Giuliano Santoro, IL MANIFESTO

 

Ieri il nostro Mauro Biani in una delle sue preziose «vigne» proponeva di spostare il Salone del Libro a Casal Bruciato. Non accadrà, purtroppo, ma la provocazione è di quelle necessarie. Giacché per noi quel che accade a Roma in queste ore è, se possibile, perfino più grave della vicenda che si è consumata a Torino al Salone del Libro – dove, finalmente, viene avviata l’espulsione della cosiddetta casa editrice fascista Altaforte.

A Casal Bruciato – appena al di là dalla stazione Tiburtina, altro che periferia, è sotto le nostre case – sempre Casa Pound, con lo stesso manipolo impunito che presidiava Torre Maura , attizza all’odio razziale contro una famiglia Rom bosniaca colpevole di essere assegnataria di una casa popolare. La spedizione razzista di Casa Pound imperversa da tre giorni con tanto di gazebo, megafoni e squadristi intoccabili, e ieri è stata capace di contestare duramente la stessa sindaca Raggi, praticamente messa in fuga pure se sotto scorta della polizia, trattata «come una Rom» e prendendosi anche lei la sua dose di insulti. Roma non è solo «fuori controllo»: alcune zone – nonostante i coraggiosi presidi democratrici dei movimenti per la casa – sono nelle mani di Casa Pound. Che di fascisti si tratta basta leggere l’accusa della Procura che ieri ha contestato a 28 militanti di Casa Pound, il reato di «riorganizzazione del disciolto partito fascista e di manifestazione fascista» per l’aggressione a Bari di un gruppo di antifascisti.

Che il 21 settembre 2018 manifestavano a Bari con lo slogan «Mai con Salvini» contro la venuta del ministro degli esteri nel capoluogo pugliese. Certo riguarda «solo» quei 28, ma come giudicare tutti gli altri militanti della stessa organizzazione? A Casal Bruciato infatti le istituzioni democratiche sono sotto scacco. Anzi, sono in fuga. E non è certo bastato che il giorno prima e per tutta la notte l’assessora grillina al patrimonio abitativo di Roma e la presidente del IV Municipio abbiano portato la loro solidarietà e protezione alla famiglia rom assediata, rispondendo «prima i diritti», a chi urlava «prima gli italiani». Tentando, sotto attacco dei fascisti – e sotto tiro del vicepremier Di Maio che ribadisce «prima gli italiani» – di difendere quella modalità politico-amministrativa necessaria all’integrazione, se davvero si vogliono chiudere i maledetti campi nei quali abbiamo colpevolmente recluso i Rom (profittando poi di quella emergenza artificiale); convinti che il nomadismo sia per loro un fatto naturale.

Perfino Salvini a parole diceva di volere «chiudere i campi», ma ora sappiamo che quel che ha in testa, lui e i manipoli impuniti che a lui fanno riferimento, è avviare una nuova pulizia etnica contrabbandata per «sicurezza». Contro un popolo, i Rom, che subisce storicamente lo stigma della diversità, in fuga perché cacciato dai luoghi di origine in Europa e dalle recenti guerre nei Balcani; e che ha subìto lo sterminio nazista negli stessi lager, come Auschwitz, nei quali gli ebrei hanno subìto la Shoah. Abbiamo negli occhi e nel cuore il terrore di martedì sera, quello dei bambini figli della donna rom minacciata di stupro dagli «abitanti», bambini che appena arrivati – pensate – credevano che quell’assembramento, poi rivelatosi ostile e minacciosa, fosse invece stato convocato per la loro gioiosa accoglienza. Che rimarrà alla fine per sempre negli occhi e nella memoria di questi bambini? E dopo i fatti di Torre Maura, per un percorso di violenza fascista che paradossalmente sembra fare a ritroso quello che una volta era a Roma la presenza territoriale della nuova sinistra.

Che cosa bisogna aspettare perché una diffusa, radicata e forte mobilitazione antifascista e antirazzista torni di nuovo ad occupare il tessuto democratico, quasi residuale, di Roma infettata di razzismo e dell’Italia intera? Da Torino a Roma, a questo punto.

Dovendo usare una metafora storica, diremmo che di fronte all’incendio della storica Libreria di Alessandria da una parte e la vita in pericolo di un solo bambino, non avremmo esitazione a salvare il bambino. Al Salone del Libro di Torino è andata in onda la prepotenza e l’impunità di una sedicente casa editrice apertamente fascista e legata ai seminatori d’odio di Casa Pound che, incredibilmente partecipa del dibattito editorial-culturale più importante d’Italia, proponendo un libro-intervista, una biografia, di Matteo Salvini, il ministro degli interni razzista e anti-migranti, che governa grazie ad una Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista. A Casal Bruciato è invece di scena concretamente, senza mediazioni sedicenti «culturali», l’incendio dell’odio razziale contro i Rom direttamente appiccato da Casa Pound. Entrambe le situazioni corrispondono – ecco la novità e il cortocircuito – alla stessa matrice: essere ispirate dal ruolo governativo del ministro degli Interni in carica, Matteo Salvini, grazie al nefasto «contratto» con il M5S. Per entrambe la sinistra non c’è e la Politica e le istituzioni tacciono. E chi tace…

* Fonte: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO

A costo di ripetermi: era meglio l’Alabama. Quello che è successo a Torre Maura in questi giorni, coagulo massiccio di infiniti episodi sparpagliati in tutta Italia, è una specie di pogrom verso un popolo su cui già è stata sperimentata la «soluzione finale». La distruzione del cibo destinato a famiglie e bambini Rom – «dovete morire di fame» – non è solo un gesto simbolico ma anche un passo concreto verso la loro estinzione.

Come additarli tutti come ladri, solo per appartenenza etnica, solo perché Rom. Era meglio l’Alabama perché a Selma, Alabama, migliaia di cittadini marciarono a rischio della propria incolumità per opporsi alla segregazione e al razzismo mentre qui da noi siamo fermi, se va bene, alle parole e alle proteste rituali.

Era meglio l’Alabama perché, con tante esitazioni e tanti compromessi, comunque alla fine il ministro della giustizia e il governo degli Stati Uniti spedirono la Guardia Nazionale e l’Fbi a dare un minimo di protezione ai diritti civili. Anche da noi ci vorrebbe la Guardia nazionale a Torre Maura e altrove per imporre la legalità. Ma da noi il governo, e i suoi patetici ministri, quello degli interni ma anche quello della giustizia, stanno dall’altra parte.

Le forze dell’ordine costituito caricano, manganellano, arrestano i manifestanti No-Tav, gli antifascisti a Padova, e persino la massa critica dei ciclisti a Torino, mentre non ho mai sentito che nessuno dei «cittadini indignati» che aggrediscono, picchiano, distruggono come a Torre Maura sia stato mai in qualche modo infastidito. Il Comune di Roma si indigna, e cede, dandola vinta ai violenti e ai razzisti: la legalità vale solo per sfrattare i centri sociali, i circoli culturali indipendenti, e la Casa Internazionale delle Donne. Casa Pound naturalmente non si tocca.

La scusa, o almeno l’attenuante, invocata sempre in questi casi, anche a «sinistra», è che le cose sono «più complesse» e che gli aggressori non sono proprio «razzisti, ma…» danno voce a un malessere e un disagio reali delle periferie e reagiscono a decisioni prese senza consultarli (in questo caso, spostare le famiglie Rom di cinquecento metri: nel territorio c’erano già). Sappiamo da sempre che «non sono razzista, ma…» è la formula auto assolutoria del razzismo italiano.

Il malessere delle periferie è vero ma c’entra fino a un certo punto. Ci sono state aggressioni fasciste pure quando don Luigi Di Liegro provò a portare i malati di Aids in una casa famiglia a Villa Glori, in pieno quartiere Parioli; e comunque non è che le periferie e le borgate siano mai state paradisi in terra. Emarginazione, sfruttamento, disagio ci sono da tempo, e la sola novità è la forma che prende oggi la protesta.

Torre Maura è stato uno dei luoghi di maggiore presenza politica e organizzata del Manifesto all’inizio degli anni ’70: una delle prime assemblee cittadine se non la prima, la tenemmo in un locale della borgata, ed era di Torre Maura il compagno Lello Casagrande, primo militante del Manifesto arrestato a Roma. I fascisti c’erano già, e tanti; ma c’erano anche i comunisti, e persino i cattolici: la periferia non era «abbandonata» perché prendeva in mano il proprio destino, si sentiva protagonista.

Se mancavano i servizi, il quartiere si mobilitava in solidarietà per provare a conquistarseli, non covava passivamente una rabbia da rivolgere non verso i responsabili del disagio ma verso gente che sta ancora peggio. Oggi a «sinistra» sentiamo ripetere che «dobbiamo andare» nelle periferie: come se potessero essere solo destinatarie di un discorso calato dall’alto ed emanato dal centro. Non dimenticherò mai il nostro Aldo Natoli che raccontava come invece dovessero essere, e spesso fossero, le periferie e le borgate a invadere il centro. E comunque noi non facciamo veramente né l’uno né l’altro.

Qualche anno fa, quando il mio quartiere di Roma Nord si mobilitò contro il trasferimento in zona di un piccolo nucleo di Rom, una compagna della sezione di Ottavia mi disse: «Questo non è razzismo, è cattiveria». È pura e inutile ferocia calpestare il cibo. Ha ragione Marco Revelli quando dice che «quella che stiamo vivendo oggi è un’emergenza psicotica». “L’Italia l’è malada,” cantavano mondine e braccianti a cavallo del ‘900, e “Sartori l’è ‘l dutur”.

Adesso di «dottori» come Eugenio Sartori, un antico organizzatore di società di mutuo soccorso, non se ne vede neanche l’ombra. E anche io, tutto sommato, non ho altro che parole.

* Fonte: Alessandro Portelli, IL MANIFESTO

«Prima gli sfruttati». È lo slogan della manifestazione promossa dall’Unione Sindacale di Base (Usb) che parte alle 14 di oggi a Roma da piazza della Repubblica e arriva a piazza San Giovanni. Dedicato a Soumaila Sacko, il bracciante maliano e sindacalista Usb, ucciso a fucilate nella piana di Gioia Tauro mentre raccoglieva lamiere per costruire una baracca nella tendopoli di San Ferdinando (Reggio Calabria), il corteo si oppone alla parola d’ordine razzista «prima gli italiani». In negativo, lo sfruttamento restituisce un’unità che va oltre le appartenenze nazionali. Contiene l’elemento unificante in cui possono riconoscersi italiani e stranieri che rivendicano tutele e diritti per tutti. L’indignazione, il dolore e la ricerca di un riscatto dei compagni di lavoro e di sindacato di Sacko, a cominciare dal Aboubakar Soumahoro, hanno reso questa manifestazione una convergenza tra istanze sociali e politiche dopo le elezioni del 4 marzo. Tra gli altri hanno aderito Potere al popolo, Rifondazione comunista, Partito Comunista Italiano, Rete dei Comunisti, Ex Opg e 081 di Napoli, il Cantiere di Milano, i centri sociali Spartaco, Corto Circuito, Sans Papier di Roma. A piazza San Giovanni, dopo l’intervento di chiusura di Aboubakar Soumahoro, si terrà un’assemblea con chi ha partecipato al corteo. Sono previsti pullman dalla Piana di Gioia Tauro e dal foggiano, zona di ghetti grandi e piccoli dove sono concentrati, in condizioni disumane, migliaia di braccianti migranti. Negli ultime ore quasi duemila persone hanno partecipato alla raccolta fondi promossa da Usb per il rimpatrio della salma di Sacko in Mali e il sostegno della moglie e della figlia di 5 anni. Una parte dei 38.103 euro andranno ai braccianti, lo ha deciso il sindacato in accordo con la famiglia. Il prossimo 23 giugno, a Reggio Calabria, si terrà un altro corteo. Quello di oggi è un primo momento di incontro per chi si oppone al governo pentaleghista a trazione Salvini. Per il neo-ministro dell’interno è la prima prova di piazza che lo contesta. Si capiranno subito i metodi che userà nel gestirla. Nelle strade ci saranno migliaia dei migranti per i quali, secondo Salvini, «sarebbe finita la pacchia». Saranno loro i primi ad essere danneggiati se passasse la non meglio precisata «semplificazione» della legge contro il caporalato annunciata dal leader della Lega.

FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO

SAN FERDINANDO (RC). «Al campo di San Ferdinando la notte di domenica è stata di mestizia e rabbia. I maliani volevano sfogare la loro inquietudine. Hanno acceso qualche copertone ed eretto qualche estemporanea barricata di cartone. Nulla più. Quanto basta, tuttavia, per allertare il Viminale che di notte ha cinto la tendopoli di uno spropositato plotone di militari. Si temevano tumulti. Nulla di più esagerato.

LA GIORNATA DI IERI È STATA quella del ricordo e della lotta. Uno sciopero dei braccianti, indetto dalla Usb, e, a seguire, un’assemblea che si è poi trasformata in un pacifico corteo direzione municipio. Il dolce viso di Soumayla Sacko restava impresso nei tanti cartelli che i suoi amici hanno impugnato nel lungo percorso di 5 km che dalla zona industriale porta nel centro del paese. San Calogero, il luogo dell’agguato, invece, sta altrove. Lontano 20 km, un’ora di cammino e in un’altra provincia, Vibo Valentia.

ALL’EX FORNACE, «La tranquilla», la fabbrica dismessa, abbandonata e posta sotto sequestro perché divenuta sede di stoccaggio di tonnellate di rifiuti tossici, Soumayla Sacko era andato insieme ad altri due braccianti per prendere un po’ di lamiere. Servivano per costruire una baracca nella favela di San Ferdinando. Non per lui ma per un altro raccoglitore maliano. Era anche questo Soumayla, un generoso che aiutava tutti. In prima linea nelle mobilitazioni, era alla testa del corteo per Becky Moses, la nigeriana arsa viva nel tragico rogo di qualche mese fa. A queste latitudini, ormai, le tragedie sono rituali. A cadenza continua ci sono stati morti per assideramento, per denutrizione, per incendi dolosi. Ora per fucilate con armi da caccia grossa, di quelle usate per ammazzare i cinghiali. Probabilmente per mano delle ‘ndrine.

SOUMAYLA, 29 ANNI, è stato freddato in pieno giorno nella campagna vibonese davanti a quella fabbrica maledetta. E così, Soumayla sarà nei prossimi giorni «rimpatriato», ma in una bara, destinazione Bamoko. Ad attendere la salma, una bimba di 5 anni e una compagna di 30. «Poteva essere una strage e solo per caso non ci hanno rimesso la vita Madiheri Drame e Madoufoune Fofana. E non ci vengano a dire, come qualcuno ha provato a fare, che si è trattato di un furto visto che si trattava di un luogo abbandonato. E’ stato un agguato premeditato e xenofobo», dice Giuseppe Tiano, del movimento antirazzista della Piana. Gli inquirenti non formulano un’ipotesi precisa, ma le indiscrezioni portano alla criminalità organizzata per cui Soumalya potrebbe aver pagato una «invasione di campo». Il procuratore di Vibo, Bruno Giordano, da poco a capo degli inquirenti vibonesi (prima era a Paola e istruì la pratica sulle navi dei veleni), conferma: «In zona avevamo ricevuto diverse segnalazioni. Più di qualcuno era infastidito dalla presenza dei migranti».

D’ALTRONDE, meno di un anno fa, i carabinieri gioiesi avevano arrestato quattro ragazzi per una lunga serie di aggressioni. Di sera andavano a caccia di neri. Salivano su una Fiat Punto e iniziavano la ronda con i bastoni sotto ai sedili. Stavolta la macchina è una Alfetta, non ci sono bastoni ma una lupara. Ieri, la reazione dei migranti è stata ferma. «Non era un terrorista, non era un criminale, non aveva armi e gli hanno sparato alla testa come una bestia» dice Idris, ivoriano di 40 anni, amico della vittima.

I RAGAZZI IN CORTEO SONO tutti regolari ma vivono una condizione di lavoro irregolare schiavistico. Come braccianti, secondo il contratto nazionale di lavoro, avrebbero diritto ad un alloggio. I più sono invece costretti a vivere nella tendopoli, rinata come una brutta fenice dalle ceneri del vecchio insediamento andato a fuoco. «Bisognerebbe dare le case sfitte a questi lavoratori – s’infervora Maria Francesca D’Agostino, professoressa all’Unical ed esperta di migrazioni – e invece proliferano i megacampi. Il sindaco ci ha avvertiti che nei prossimi mesi sgombereranno la tendopoli. Ma cosa ne sarà di questi lavoratori quando in autunno torneranno per la raccolta delle arance? Le istituzioni procedono in ordine sparso. E’ tutto improvvisato. Dopo la morte di Becky non è cambiato nulla. I braccianti sono costretti a restare perchè in attesa del rinnovo della questura di Gioia e sono domiciliati qui a San Ferdinando, altri sono in attesa di ricorrere contro i dinieghi delle commissioni. Ma c’è anche una responsabilità politica e non solo del Viminale.

Grave è il comportamento della regione Calabria e del presidente Oliverio che avrebbero piena competenza ad attuare politiche di inclusione e invece non fanno nulla. Avrebbero fondi comunitari da investire ma preferiscono le passerelle per le inaugurazioni delle tendopoli». Soumayla viveva proprio nel nuovo campo, la soluzione «temporanea» in attesa di dare il via ai progetti di accoglienza diffusa. Che non si sono mai visti. Il corteo non è imponente perchè non è alta stagione. La manodopera bracciantile in perenne transumanza nelle campagne meridionali ora si è spostata nel foggiano e nell’agro nocerino. «Ci hanno comunicato che in Puglia 2mila raccoglitori hanno incrociato le braccia in onore di Soumalya. Lo sciopero è riuscito» grida al microfono Aboubakar Soumaulo, il leader dei braccianti. La rabbia è contro i giornalisti e organi istituzionali che avevano derubricato il fatto a furtarello di lamiere. Quasi che se la fossero andata a cercare.

«CHI TOCCA UNO, tocca tutti», «mai più schiavi», urlano in corteo. C’è chi porta un mazzo di fiori rossi, chi un drappo bianco in segno di lutto, sono quasi tutti ragazzi giovani, sotto i 40 anni, alcuni indossano magliette di squadre di calcio , un melting pot che trasuda angoscia e disperazione. «Questi lavoratori sono trattati in condizioni disumane, contro le regole, con salari da fame. Le istituzioni proteggono questo sistema – spiega Guido Lutrario – dell’esecutivo nazionale Usb – Queste persone non sono illegali piuttosto sono vittime di illegalità». È quanto andrà a reclamare una delegazione ricevuta dal questore di Reggio Calabria. Al termine, nel primo pomeriggio, il corteo si scioglie, i migranti defluiscono e ritornano nel campo. «La pacchia è finita, ma per il ministro Salvini» dicono mentre vanno via.

FONTE: Silvio Messinetti, IL MANIFESTO

Un centinaio di militanti di estrema destra ha presidiato ieri mattina il colle della Scala, nella regione francese delle Haute Alpes, per protestare contro il passaggio di migranti. Si è trattato per la maggior parte di estremisti francesi ai quali si sono aggiunti anche ungheresi, italiani, danesi, austriaci, inglesi e tedeschi che hanno aderito all’iniziativa «Difendi l’Europa. Missione Alpi» messa in campo da Generazione identitaria, gruppo razziasta di estrema destra che la scorsa estate noleggiò una nave per «fermare i migranti» nel Mediterraneo, missione fallita miseramente e anche in maniera ridicola in seguito a un guasto al motore principale dell’imbarcazione. Ieri i manifestanti hanno steso un grande striscione con la scritta: «Frontiere chiuse. Non farete dell’Europa la vostra casa. Tornate a casa vostra», mentre un elicottero «sorvegliava» dall’alto la situazione. Il Colle della Scala è uno dei princicpli passaggi utilizzati dai migranti che tentano di arrivare in Francia dall’Italia, «un punto strategico di passaggio dei clandestini», come l’ha definito Romanin Espino, un portavoce di Generazione identitaria. I manifestanti hanno anche innalzato un muro simbolico srotolando una rete rossa, di quella solitamente utilizzata per delimitare i cantieri. Nel mirino dell’inizitiva anche il presidente francese Emmanuel Macron: «Piuttosto che sbloccare fondi per creare nuovi centri d’accoglienza per i migranti clandestini – hanno spiegato i manifestanti – dovrebbe rafforza il budget della polizia di frontiera».

FONTE: IL MANIFESTO

Il contesto euro-mediterraneo è oggi segnato dalla criminalizzazione della solidarietà e da crescenti episodi di razzismo. In nome della lotta congiunta al terrorismo e alle migrazioni “irregolari” si moltiplicano interventi arbitrari delle forze di polizia e di frontiera, come l’irruzione armata di agenti della dogana francese nei locali della stazione ferroviaria di Bardonecchia.

L’istituzionalizzazione della criminalizzazione della solidarietà non si limita allo spazio dell’Unione Europea. L’esternalizzazione delle frontiere europee e la repressione del diritto di fuga sono nei fatti già operative, con la cooptazione dei paesi africani nella politica di controllo delle migrazioni e i respingimenti dalla Grecia alla Turchia – considerata “un paese sicuro” – e, ancor peggio, dalla Turchia verso la Siria, con sistematiche violazioni dei diritti che contribuiscono alla costruzione dello stato autoritario turco, con la complicità dell’UE.

Criminalizzando la solidarietà si reprimono accoglienza e soccorso prestati al di fuori dei circuiti ufficiali della gestione delle migrazioni, cioè le alleanze trasversali – tra migranti e non – scaturite da tali pratiche. Il sequestro del vascello umanitario di Proactiva Open Arms ha portato alla luce le contraddizioni della politica emergenziale in difesa della “Fortezza Europa”: neanche l’adesione al “codice di condotta” adottato da Minniti nel 2017 ha consentito di sottrarsi alla repressione delle autorità giudiziarie italiane. Anzi, è stata utilizzata dalla Procura di Catania per motivarne la criminalizzazione.

L’esperienza di Proactiva Open Arms dimostra che la disobbedienza è una scelta obbligata a disposizione di movimenti e forze che si mobilitano a sostegno dei migranti. Costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione” delle “crisi” dei flussi migratori e aprire spazi comuni di lotta e di permanenza, in risposta alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei diritti negli spazi di emergenza umanitaria. Come ha sottolineato Ada Colau, le amministrazioni locali possono farsi promotrici di reti di solidarietà e di opposizione alla militarizzazione delle frontiere e alla politica di paura e odio che incombe sulla sfera pubblica europea. Città e metropoli sono spazi in cui già oggi si osserva una moltitudine di esperienze e mobilitazioni a difesa dei diritti umani, della democrazia e del bene comune. Il loro ruolo può diventare ancor più decisivo: un più incisivo e consapevole sforzo di valorizzazione del loro potenziale politico può generare nuovi spazi costituenti di democrazia post-nazionale, mettendo in discussione l’indirizzo sovranista oggi dominante nell’Unione Europea. È a partire da città e metropoli, ma anche da luoghi di frontiera come la Val di Susa, che è possibile sfidare la criminalizzazione della solidarietà cui oggi si assiste e avviare un processo costituente capace di ridefinire l’idea e l’esperienza stessa di Europa e di globalizzazione.

(La versione integrale di questa sintesi del manifesto-appello promosso da Euronomade è pubblicata su www.euronomade.info, insieme all’elenco completo e aggiornato delle firme. Per adesioni scrivere a appelloeuronomade@gmail.com)
* * * COLLETTIVO EURONOMADE, Ugo Rossi, Carla Stoppani, Martina Tazzioli, Yasmine Accardo, Giuseppe Acconcia, Giuseppe Allegri, Giso Amendola, Marco Assennato, Gennaro Avallone, Marco Bascetta, Moira Bernardoni, Corrado Borsa, Beppe Caccia, Vincenzo Carbone, Sandro Chignola, Roberto Ciccarelli, Girolamo De Michele, Alisa Del Re, Graziella Durante, Luigi De Magistris, Nino Fabrizio, Ludovica Fales, Giovanna Ferrara, Omid Firouzi Tabar, Glenda Garelli, Dario Gentili, Federica Giardini, Chiara Giorgi, Gaetano Grasso, Alessandro Guerra, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Orazio Irrera, Marcello Lorrai, Maria Rosaria Marella, Costanza Margiotta, Nicolas Martino, Ugo Mattei, Miguel Mellino, Sandro Mezzadra, Yoan Molinero Gerbeau, Toni Negri, Vincenzo Ostuni, Maia Pedullà,  Livio Pepino, Simone Pieranni, Giacomo Pisani, Roberta Pompili, Gabriele Proglio, Judith Revel, Michele Spanò, Federico Tomasello, Giulia Valpione, Benedetto Vecchi, Simone Veglio, Carlo Vercellone

FONTE: IL MANIFESTO

Tra le donne lavoratrici e le donne provenienti da facoltose famiglie di classe media erano sicuramente le operaie quelle che avevano più diritto a fare confronti con lo schiavismo. Sebbene nominalmente libere, le loro condizioni di lavoro e le loro paghe richiamavano automaticamente, per le condizioni di sfruttamento, il paragone con la schiavitù. Tuttavia, furono le donne abbienti a invocare nella maniera più letterale l’analogia schiavista nel tentativo di esprimere la natura oppressiva del matrimonio.
Durante la prima metà del diciannovesimo secolo l’idea che la secolare e consolidata istituzione del matrimonio potesse essere oppressiva era in qualche modo insolita. Le prime femministe potevano descrivere il matrimonio come una forma di «schiavitù» dello stesso tipo di quella patita dal popolo Nero innanzitutto per il valore scioccante del confronto, temendo che la serietà della loro protesta potesse altrimenti cadere nel vuoto. In tal modo però ignoravano che, identificando le due istituzioni, si affermava che la schiavitù in fondo non fosse peggio del matrimonio. Ad ogni modo l’implicazione più importante di questo confronto fu che le donne bianche di classe media sentivano una certa affinità con le donne e gli uomini Neri, per i quali la schiavitù voleva dire frustate e catene.

NEL TERZO DECENNIO del diciannovesimo secolo le donne bianche – sia le casalinghe che le lavoratrici – furono attivamente coinvolte nel movimento abolizionista. Le operaie contribuivano col denaro dei loro magri salari e organizzavano mercatini per raccogliere fondi, mentre le donne di classe media divennero agitatrici e organizzatrici della campagna anti-schiavitù.
Quando nel 1833 nacque la Philadelphia Female Anti-Slavery Society, sull’onda del congresso che dette origine alla American Anti-Slavery Society, un discreto numero di donne bianche manifestò il proprio sostegno alla causa del popolo Nero, fissando le basi per un legame tra i due gruppi oppressi (per la precisione la prima associazione femminile contro la schiavitù fu formata da donne Nere a Salem, nel Massachusetts, nel 1832). Quell’anno, in un evento ampiamente conosciuto, una giovane donna emerse come modello esemplare di coraggio femminile e di militanza antirazzista: Prudence Crandall era un’insegnante che sfidò gli abitanti bianchi della sua città, Canterbury, nel Connecticut, accettando nella propria scuola una ragazza Nera.
La sua presa di posizione inflessibile in quella controversia divenne il simbolo della possibilità di forgiare una potente alleanza tra la lotta per la liberazione dei Neri, già organizzata, e l’embrionale battaglia per i diritti delle donne. I genitori delle ragazze bianche che frequentavano la scuola di Prudence Crandall espressero la loro unanime opposizione alla presenza della studentessa Nera e organizzarono un boicottaggio ben pubblicizzato, ma l’insegnante del Connecticut rifiutò di capitolare di fronte alle loro richieste razziste. Seguendo il consiglio di Charles Harris – una donna Nera che aveva assunto nella scuola – Crandall decise di accogliere altre ragazze Nere e, se necessario, di trasformare la propria scuola in una scuola solo per Nere.

DA ESPERTA ABOLIZIONISTA la signora Harris presentò Crandall a William Lloyd Garrison, che pubblicava su Liberator – il giornale antischiavista – articoli sulla scuola. I cittadini di Canterbury si opposero facendo passare una risoluzione contro i suoi progetti secondo la quale «il governo degli Stati Uniti, la nazione con tutte le sue istituzioni di diritto, appartengono agli uomini bianchi». Senza dubbio parlavano di «uomini bianchi» nel senso letterale di maschi, perché Prudence Crandall non solo aveva violato il loro codice di segregazione razziale, ma aveva anche sfidato le norme tradizionali di condotta delle signore bianche.

«NONOSTANTE LE MINACCE Prudence Crandall aprì la scuola (…). Le studentesse Negre stavano coraggiosamente al suo fianco. E allora accadde uno degli episodi più ’eroici’ e vergognosi della storia degli Stati Uniti. I commercianti si rifiutarono di vendere i loro prodotti a Miss Crandall (…). Il dottore del paese si rifiutò di visitare i suoi studenti indisposti. Il farmacista negò le medicine. Al vertice di tanta bestiale disumanità, dei facinorosi ruppero i vetri della scuola, sporcarono di letame i muri e tentarono di incendiare in diversi punti l’edificio» (dal libro di Samuel Sillen, Women against Slavery, Masses and Maistream, New York, 1955).
Questa giovane quacchera dove trovò la sua straordinaria forza, e come sviluppò questa sorprendente capacità di perseverare in una situazione pericolosa, sottoposta a un assedio quotidiano? Probabilmente l’aiutarono i legami con i Neri la cui causa difendeva tanto ardentemente. La scuola continuò a funzionare fino a quando le autorità del Connecticut ordinarono il suo arresto. Ma, a quel punto, Prudence Crandall aveva ormai lasciato un segno nella sua epoca al punto che, nell’apparente sconfitta, emerse come un simbolo di vittoria.

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Prudence Crandall e la sua scuola

GLI EVENTI DI CANTERBURY del 1833 eruppero all’inizio di una nuova era. Come la rivolta di Nat Turner, come la nascita del Liberator di Garrison o la fondazione della prima organizzazione nazionale contro lo schiavismo, annunciavano l’avvento di un’epoca di intense lotte sociali. La salda difesa del diritto allo studio anche per i Neri da parte di Prudence Crandall è stata un drammatico esempio – più potente di quanto si potesse immaginare – per quelle donne bianche che stavano soffrendo il travaglio di una nuova consapevolezza politica.
In maniera lucida ed eloquente le sue azioni illuminavano ampi spazi di possibilità per la lotta di liberazione se le donne bianche avessero solidarizzato in massa con le proprie sorelle Nere. «Facciamo tremare gli oppressori del sud, facciamo tremare i loro apologeti del nord. Facciamo tremare tutti i nemici dei Neri perseguitati. Non ho bisogno di usare la moderazione in una causa come questa. Parlo seriamente, non mi sbaglio, non mi scuso, non torno indietro di un millimetro. Mi farò ascoltare».
Questa dichiarazione priva di compromessi era firmata da William Lloyd Garrison e comparve sul primo numero del Liberator. Nel 1833, due anni dopo, questo pionieristico giornale abolizionista si era creato un pubblico significativo formato da un ampio gruppo di abbonati Neri e da un sempre crescente numero di bianchi.

PRUDENCE CRANDALL e altri come lei erano fedeli sostenitori del giornale. Ma anche le operaie bianche erano tra coloro che concordavano facilmente con la posizione antischiavista militante di Garrison. Inoltre, una volta organizzatosi il movimento abolizionista, le donne di fabbrica portarono un decisivo supporto alla causa. Tuttavia, le donne bianche più in vista nella campagna contro la schiavitù erano quelle che non erano obbligate a lavorare per un salario. Erano le mogli dei dottori, degli avvocati, dei giudici, dei commercianti, dei proprietari degli opifici, in altre parole le donne della classe media e della nascente borghesia.
Nel 1833 molte di queste donne della classe media avevano probabilmente iniziato a rendersi conto che qualcosa nelle loro vite era andato storto. Come «casalinghe» in una nuova era di capitalismo industriale, avevano perso ogni importanza nelle loro stesse case, e il loro status sociale in quanto donne aveva patito una conseguente svalutazione. Nel frattempo avevano però guadagnato tempo libero da dedicare alla lettura, che consentiva loro di diventare riformiste sociali od organizzatrici attive della campagna abolizionista. A sua volta l’abolizionismo conferiva loro l’opportunità di lanciare una protesta implicita contro l’oppressione dei propri ruoli domestici.
Solo quattro donne furono invitate a partecipare all’assemblea di fondazione della American Anti-Slavery Society. Gli organizzatori maschi di questo meeting di Philadelphia decretarono inoltre che potessero partecipare solo nelle vesti di «ascoltatrici e spettatrici», senza quindi una piena partecipazione.

QUESTO NON IMPEDÌ a Lucretia Mott – una delle quattro – di rivolgersi coraggiosamente agli uomini dell’assemblea in almeno due occasioni. Nell’apertura dei lavori si alzò con baldanza dalla galleria (il posto per ascoltare da spettatrice) e argomentò contro una mozione che voleva posticipare l’incontro a causa dell’assenza di un importante uomo di Philadelphia: «I giusti princìpi sono più forti dei nomi. Se i nostri princìpi sono giusti, perché mai dovremmo essere codardi? Perché mai dovremmo aspettare chi non ha mai avuto il coraggio di sostenere i diritti inalienabili degli schiavi?».
Senza dubbio Lucretia Mott – che era anche pastore quacchero – stupì quel pubblico maschile, perché in quei giorni le donne non prendevano parola negli incontri pubblici.
Nonostante gli applausi del pubblico, che aprì i lavori seguendo la sua proposta, in chiusura dell’assembela né lei né le altre donne furono invitate a firmare la Déclaration of Sentiments Purposes.

FOSSE PER UN DIVIETO esplicito sulle firme femminli, o perché agli uomini non venne in mente di far firmare le donne, ad ogni modo si mostrarono molto miopi. Il sessismo impedì loro di coinvolgere nel movimento abolizionista un vasto potenziale di donne. Lucretia Mott, che non era affatto miope, organizzò l’assemblea inaugurale del Philadelphia Female Anti Slavery Society nei giorni successivi al congresso maschile. Era destinata a diventare una figura pubblica di primo piano del movimento antischiavista, una donna ammirata ovunque per il suo coraggio e per la sua tenacia di fronte alla furiosa teppa razzista. «Nel 1838 questa donna dall’aspetto fragile, vestita con gli abiti sobri e inamidati dei quaccheri, affrontava con serenità la folla tumultuante favorevole alla schiavitù che aveva distrutto col fuoco la Pennsylvania Hall con la connivenza del sindaco della città»

  • Il testo è estratto dal capitolo 2 («Il movimento abolizionista e l’origine dei diritti delle donne») del volume che sarà nelle librerie da domani 8 marzo (edizioni Alegre, trad. Marie Moïse e Alberto Prunetti, prefazione Cinzia Arruzza, pp. 304, euro 18) e sarà presentato il 10 all’interno di «Feminism», fiera dell’editoria delle donne, alle ore 12 (Casa internazionale delle donne, Roma). Uscito negli Usa nel 1981, il libro sviluppa un saggio scritto in carcere nel 1971, uno studio sulla condizione delle afroamericane durante lo schiavismo volto a riscoprire la storia dimenticata delle ribellioni delle donne nere contro la schiavitù. Racconta episodi tragici degli Stati Uniti, frutto di miti ancora in voga come quello dello «stupratore nero» e della superiorità della «razza bianca», ma anche momenti di resistenza, attraverso  alcune figure chiave della lotta per i diritti delle donne, delle nere e dei neri, e della working class americana

 

FONTE: Angela Davis, IL MANIFESTO

Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, che ne ha reso spettrale il centro storico. Nonostante il catechismo sospeso e le chiese chiuse da un vescovo poco cristiano. Nonostante gli allarmi, i divieti, le incertezze della vigilia. Nonostante tutto.

Un’umanitá variopinta, consapevole e determinata, l’ha avvolta in una fiumana calda di vita, ritornando nei luoghi che una settimana prima erano stati teatro del primo vero atto di terrorismo in Italia in questo tormentato decennio. Un terrorismo odioso, di matrice razzista e fascista, a riesumare gli aspetti più oscuri e vergognosi della nostra storia nazionale.

Era un atto dovuto. La condizione per tutti noi di poter andare ancora con la testa alta. Senza la vergogna di una resa incondizionata all’inumano che avanza, e rischia di farsi, a poco a poco, spirito del tempo, senso comune, ordine delle cose.

Un merito enorme per questo gesto di riparazione, va a chi, fin da subito, ha capito e ha deciso che essere a Macerata, ed esserci in tanti, era una necessità assoluta, di quelle che non ammettono repliche né remore. A chi, senza aspettare permessi o comandi, nonostante gli ondeggiamenti, le retromarce, le ambiguità dei cosiddetti «responsabili» delle «grandi organizzazioni», si è messo in cammino. Ha chiamato a raccolta. Ha fatto da sé, come si fa appunto nelle emergenze.

Il Merito va ai ragazzi del Sisma, che non ci hanno pensato un minuto per mobilitarsi, alla Fiom che per prima ha capito cosa fosse giusto fare, ai 190 circoli dell’Arci, alle tante sezioni dell’Anpi, a cominciare da quella di Macerata, agli iscritti della Cgil, che hanno considerato fin da subito una follia i tentennamenti dei rispettivi vertici.

Alle organizzazioni politiche che pur impegnate in una campagna elettorale dura hanno anteposto la testimonianza civile alla ricerca di voti. Alle donne agli uomini ai ragazzi che d’istinto hanno pensato «se non ora quando?». Sono loro che hanno «salvato l’onore» di quello che con termine sempre più frusto continua a chiamarsi «mondo democratico» italiano impedendo che fosse definitivamente inghiottito dalla notte della memoria. Sono loro, ancora, che hanno difeso la Costituzione, riaffermandone i valori, mentre lo Stato stava altrove, e contro.

Tutto è andato bene, dunque, e le minacce «istituzionali» della vigilia sono alla fine rientrate come era giusto che fosse.
Il che non toglie nulla alle responsabilità, gravi, di quei vertici (della Cgil, dell’Arci, dell’Anpi…) solo parzialmente emendate dai successivi riaggiustamenti.

Gravi perché testimoniano di un deficit prima ancora che politico, culturale. Di una debolezza «morale» avrebbe detto Piero Gobetti, che si esprime in una incomprensione del proprio tempo e in un’abdicazione ai propri compiti.

Non aver colto che nel giorno di terrore a Macerata si era consumata un’accelerazione inedita nel degrado civile del Paese, col rischio estremo che quell’ostentazione fisica e simbolica di una violenza che del fascismo riesumava la radice razzista, si insediasse nello spazio pubblico e nell’immaginario collettivo, fino ad esserne accolta e assimilata; aver derubricato tutto ciò a questione ordinaria di buon senso, o di buone maniere istituzionali accogliendo le richieste di un sindaco incapace d’intendere ma non di volere, accettando i diktat di un ministro di polizia in versione skinhead, facendosi carico delle preoccupazioni elettorali di un Pd che ha smarrito il senno insieme alla propria storia e rischiando così di umiliare e disperdere le forze di chi aveva capito…

Tutto questo testimonia di una preoccupante inadeguatezza proprio nel momento in cui servirebbe, forte, un’azione pedagogica ampia, convinta e convincente.

Un’opera di ri-alfabetizzazione che educasse a «ritornare umani» pur nel pieno di un processo di sfarinamento e di declassamento sociale che della disumanità ha ferocemente il volto e che disumanità riproduce su scala allargata. Quell’ opera che un tempo fu svolta dai partiti politici e dal movimento operaio, i cui tardi epigoni ci danzano ora davanti, irriconoscibili e grotteschi.

Negli inviti renziani a moderare i toni e a sopire, mentre fuori dal suo cerchio magico infuria la tempesta perfetta, o nelle esibizioni neocoloniali del suo ministro Minniti, quello che avrebbe voluto svuotare le vie di Macerata delle donne e degli uomini della solidarietà allo stesso modo in cui quest’estate aveva svuotato il mare delle navi della solidarietà, quasi con la stessa formula linguistica («o rinunciate voi o ci pensiamo noi»).

Il successo della mobilitazione di ieri ci dice che di qui, nonostante tutto, si può ripartire. Che c’è, un «popolo» che non s’è arreso, che sa ancora vedere i pericoli che ha di fronte e non «abbassa i toni», anzi alza la testa. Ed è grazie a questo popolo che si è messo in strada, se del nostro Paese non resterà solo quell’immagine, terribile e grottesca, di un fascista con la pistola in mano avvolto nel tricolore.

FONTE: Marco Revelli, IL MANIFESTO

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