Revisionismo storico

Fiction RAI. I “cattivi” non possono che essere i partigiani comunisti jugoslavi, orchi del terzo millennio. Orchi che, proprio come nelle favole, fanno paura perché non esistono. E così un pubblico infantilizzato è costretto per l’ennesima volta a sorbirsi questa favoletta insensata e ridicola

 

È andata in onda il 10 febbraio in prima serata la fiction Rai dal titolo La bambina con la valigia. Il film racconta la storia di una famiglia di profughi da Pola alla fine della seconda guerra mondiale e ricostruisce in particolare la figura di Egea Haffner, la donna resa celebre da una foto del 1946 che la raffigura bambina con una valigia recante la scritta “esule giuliana”. Un tema storico delicato, dunque, dato l’uso politico spregiudicato che si fa da anni delle vicende delle foibe e dell’esodo.

La Rai peraltro non è esente da tale pratica, anzi potremmo dire che è ne la principale responsabile, se consideriamo l’impatto che i film hanno sull’immaginario collettivo, certo infinitamente più grande delle conferenze storiche o delle commemorazioni istituzionali. La televisione di Stato ha prodotto o coprodotto negli ultimi vent’anni ben tre pellicole sul tema e nessuna brilla per correttezza storica o giudizio equilibrato sui fatti. Ne ho parlato approfonditamente nel mio libro del 2021 “E allora le foibe?” e in un articolo più recente.

Tutti questi film trasmettono sostanzialmente lo stesso immaginario stereotipato e iper-semplificato, che ignora lo stato di guerra e di violenza creato dal fascismo e criminalizza i soli partigiani jugoslavi. È un’operazione di politica culturale che non può passare inosservata a uno sguardo attento. D’altronde nell’ultimo ventennio la Rai ha prodotto o coprodotto diversi film storici di carattere ambiguo (le agiografie di Gabriele D’Annunzio e del comandante di sommergibili fascisti Salvatore Todaro, per esempio), ma nessuna pellicola su partigiani, antifascisti, resistenti, se non per presentarli come malvagi assassini.

Una certa diffidenza prima della visione del film era dunque comprensibile, ma bisogna ammettere che questo ultimo prodotto, nonostante le tante cadute di stile e la consueta piatta recitazione, è meno peggio di quanto ci si potesse aspettare. La vicenda personale della protagonista è di per sé accattivante e la consulenza storica del professore emerito triestino Raoul Pupo ha certamente sortito qualche effetto. Ciononostante la prima parte del film, dedicata specificatamente alla fine della guerra e alla scelta dell’esodo, resta molto discutibile e finisce per ribadire quell’immaginario semplificato di cui si è detto. Ma partiamo dall’inizio.

Nella prima scena del film una famiglia evidentemente molto benestante è riunita a tavola per celebrare la liberazione. “È finita davvero la guerra?”, chiede la bambina: “Sì”, risponde la nonna premurosa, “ora possiamo essere felici”. Eppure “i titini ce l’hanno con gli italiani”, afferma la mamma preoccupata. Un attimo dopo si sente bussare rudemente alla porta e parte un risibile: “Ma chi può essere?”.

Sono passati due minuti dall’inizio del film e lo scenario è già chiaro: italiani innocenti festeggiano la fine di una guerra che non hanno voluto, ma c’è chi è pronto a scatenarne un’altra proprio contro di loro. Chi sarà mai il mostro cattivo assetato di sangue innocente? Già lo sappiamo, ormai è la quarta volta che ce lo raccontano. I “cattivi” non possono che essere i partigiani comunisti jugoslavi, veri e propri orchi del terzo millennio. Orchi che, proprio come nelle favole, fanno paura perché non esistono. E così un pubblico infantilizzato e ridotto a soggetto della propaganda è costretto per l’ennesima volta a sorbirsi questa favoletta insensata e ridicola. Un racconto che dovrebbe servire a “conservare il ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo”, come recita la legge che istituisce il Giorno del Ricordo, ma serve esclusivamente a suscitare terrore verso qualcosa che non c’è e non c’è mai stato, almeno in quella forma.

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La polizia partigiana agisce con la consueta brutalità, paragonabile a quella dei tedeschi dei film di guerra hollywoodiani degli anni Sessanta: i combattenti jugoslavi (o meglio “titini”, secondo l’espressione denigratoria ormai comune) non sembrano in grado di parlare senza gridare ordini a casaccio nella loro lingua incomprensibile. Come incomprensibile appare l’arresto e l’uccisione del padre della protagonista.

È un evidente caso di “resa dei conti”, per di più con risvolti di carattere sociale e ideologico, ma esso risulta impossibile da comprendere senza alcun riferimento all’invasione italiana della Jugoslavia, alle crudeltà commesse in quei territori di confine nei decenni precedenti dai fascisti e dai nazisti. E mai nessuno ci dice che il padre di Egea aveva lavorato fino al giorno prima presso l’amministrazione degli occupanti tedeschi. Non che questo ne giustifichi la condanna sommaria, ma certo la spiega, a differenza dell’assurda ipotesi – che però coincide con lo stereotipo della propaganda – secondo la quale l’uomo sarebbe stato ucciso “solo perché italiano”. Davvero? Anche se si chiama Kurt Haffner, figlio di Julius?

Ma ecco che la spiegazione arriva puntuale, fin dalle prime battute del film: “Il nostro nome sembra tedesco, ma noi siamo italiani”. Ecco risolto magicamente uno dei tanti vulnus della versione propagandistica su esodo e foibe: se buona parte delle vittime aveva cognomi non italiani, come si può affermare che la violenza partigiana avesse caratteri nazionalisti? Semplice: erano italiani anche quelli che non lo erano! Viene così archiviata tutta la questione della complessità etnico-nazionale di quei territori, ignorando le tante ascendenze, le innumerevoli origini, la predominanza di identità miste, come era, in effetti quella degli Haffner. Ma siccome contestualizzare è reato (perlomeno a scuola, come ho evidenziato tempo fa in questo articolo: linee guida??) la storia degli Haffner non si può spiegare altrimenti.

Eppure una spiegazione ci sarebbe, ed emerge quasi involontariamente. Del contesto di violenza, devastazione, fame, che colpisce l’Istria tra guerra e dopoguerra, gli Haffner non sembrano sapere né vedere nulla. Semplicemente perché sono una famiglia di gioiellieri, tra le più facoltose della città. Questo, insieme alla collaborazione del padre di Egea coi nazisti, potrebbe spiegare il clima di diffidenza che li circonda nell’immediato dopoguerra.

La bambina cresce comunque, fortuna sua, in una condizione iper-privilegiata e la famosa fotografia da “povera esule” le viene scattata sulla porta della stupenda villa in cui ha vissuto dalla nascita. Come viene correttamente mostrato, la famiglia riceverà in seguito un grosso indennizzo per la casa lasciata a Pola, mentre soldi, mobili antichi e gioielli li seguono nell’esilio dorato a Bolzano. E tuttavia, nonostante l’evidenza di una famiglia privilegiata anche rispetto agli standard italiani del dopoguerra, non si rinuncia a ricordare alla bambina cresciuta: “Tu sei un’esule, una sopravvissuta”.

Ma sopravvissuta a cosa? Ovviamente alla violenza cieca, barbara, resa volutamente incomprensibile, dei partigiani jugoslavi. In definitiva in questo film, come negli altri sullo stesso tema che l’hanno preceduto, il messaggio appare chiaro a chiunque lo voglia intendere: i partigiani, che hanno lottato anche per creare una società più equa e più giusta, non erano che volgari criminali. E chiunque provi a combattere contro l’oppressione, nel passato come oggi, è pericoloso e va fermato per tempo.

Diffidate dunque del dissenso, cari bambini-telespettatori, abbiate paura di chi si schiera contro il potere costituito, per la giustizia, in difesa dei diritti umani, contri gli assurdi privilegi di una manciata di super-ricchi; in realtà vi odia e verrà a uccidervi di notte (con le scarpe tutte rotte…). Non vi resta che identificarvi con i ricchi stessi, anche se non lo siete e non lo sarete mai. Eppure è così che vi dovete immaginare, immedesimandovi con i protagonisti di quest’ennesima favoletta morale: super-ricchi gioiellieri, proprietari di una villa meravigliosa, costretti da qualche invasato contestatore a cambiare città per ritornare ad essere più ricchi di prima.

* Fonte/autore: Eric Gobetti, il manifesto

Il Giorno del Ricordo nasce fin dall’inizio in contrapposizione al 25 aprile, nella logica di una presunta “pacificazione nazionale” secondo la quale ognuno degli schieramenti che si erano confrontati nella seconda guerra mondiale avrebbe dovuto avere la sua celebrazione

 

Sono passati vent’anni dalla prima celebrazione del Giorno del Ricordo e due e mezzo da quando le forze politiche che l’hanno voluto governano il Paese. È possibile provare a tirare le somme, capire se questa data memoriale ha raggiunto il suo obiettivo originario.

E qual è il messaggio che sta veicolando nell’opinione pubblica. Fin dalla sua ideazione, il Giorno del Ricordo aveva carattere prettamente ideologico, non storico. La complessità delle dinamiche che hanno portato alla violenza di fine guerra al confine italo-jugoslavo era e rimane sostanzialmente sconosciuta. Ma le forze neofasciste che avevano sempre strumentalizzato tale violenza avevano altri scopi.

L’obiettivo principale era criminalizzare il comunismo in generale e la resistenza jugoslava in particolare. E, indirettamente, riabilitare il regime fascista, rappresentando i suoi fautori come vittime ed eroici difensori dei sacri confini della patria. Il Giorno del Ricordo nasce quindi fin dall’inizio in contrapposizione al 25 aprile, nella logica di una presunta “pacificazione nazionale” secondo la quale ognuno degli schieramenti che si erano confrontati nella seconda guerra mondiale avrebbe dovuto avere la sua celebrazione e i suoi martiri da commemorare.

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L’accostamento al Giorno della Memoria, per vicinanza temporale e linguistica, serviva invece a proporre un’equiparazione, poi ribadita esplicitamente infinite volte, tra le foibe e i crimini nazisti. Con il triplice scopo di relativizzare la Shoah, equiparare le ideologie novecentesche e criminalizzare chiunque metta in dubbio la narrazione ideologica delle foibe attraverso una corretta ricostruzione storica. Chi evidenzia ad esempio le responsabilità fasciste nella spirale di violenza sul confine orientale sta “giustificando” un crimine analogo alla Shoah e finisce quindi nel girone infernale dei “negazionisti”, senza più diritto di parola.

La narrazione vittimista delle violenze al confine orientale (quella dello sterminio anti-italiano e della presunta “pulizia etnica”) era già presente nel testo della legge ed è stata poi veicolata negli ultimi vent’anni da mass media e politici di tutti gli schieramenti parlamentari.

Essa è stata favorita dall’ignavia delle forze politiche non fasciste e da una convergenza di interessi che si è rivelata, a lungo andare infruttuosa se non controproducente. La criminalizzazione dei partigiani jugoslavi ha finito per coinvolgere la Resistenza in sé e l’antifascismo in generale, diffondendo l’idea che gli unici veri patrioti in Italia siano stati, e siano tuttora, i fascisti e i loro eredi. Tra le vittime illustri anche il presidente più amato, Sandro Pertini, a cui il comune di Lucca ha negato due anni fa l’intitolazione di una via perché «è stato un partigiano».

Oggi, a sentire la comunicazione mainstream, il 25 aprile è diventata una data “divisiva”, mentre la vera “festa degli italiani” è il 10 febbraio, quando le istituzioni si recano a Basovizza circondate da gagliardetti della X Mas e i sindaci consegnano onorificenze agli eredi di militi o poliziotti fascisti condannati dalla Resistenza jugoslava a fine guerra.

«Non meritano tutta questa attenzione, la battaglia delle foibe è vinta», twittava un militante di estrema destra all’uscita del mio libro, nel 2021, invitando i camerati a evitare inutili allarmismi. Difficile dargli torto. Ma come sempre ai fascisti non basta vincere; vogliono umiliare gli avversari, negargli diritto di parola, cancellarne il ricordo.

Negli ultimi anni le forze di governo non hanno smesso di implementare costantemente la propaganda su questo tema: dal Museo delle Foibe previsto a Roma, al Treno del Ricordo che dall’anno scorso fa tappa in diverse città italiane; dai film, programmi e documentari continuamente riproposti in televisione, fino ai viaggi del Ricordo organizzati gratuitamente nelle scuole dalle associazioni di esuli monopolizzate dai meloniani e lautamente finanziate con soldi pubblici. E naturalmente aumentano le aggressioni verbali e fisiche, i tentativi di censura, le intimidazioni, le offese, le minacce a chi cerca di raccontare storicamente la vicenda.

Spero di non sbagliarmi, ma ho la sensazione che tutto questo sforzo propagandistico abbia avuto un altro effetto, non sperato né desiderato: una reazione antivirale, la definirei, in difesa della verità storica e dei valori della Resistenza e della Costituzione. Sempre più spesso, in occasione del giorno del Ricordo circoli culturali di vario genere, forze politiche democratiche e sezioni Anpi di tutta Italia organizzano dibattiti, conferenze, mostre per sensibilizzare l’opinione pubblica e contrastare la disinformazione di Stato. Certo si tratta di uno sforzo che difficilmente può competere con la macchina comunicativa governativa.

E tuttavia nasce dal basso, da un impulso verso la conoscenza presente nella società, da una reazione spontanea alla brutalità della propaganda.
Tutto questo lascia ben sperare, ci consente di affermare che se la campagna di disinformazione storica è al suo apice, una parte sempre crescente di opinione pubblica ne sta identificando le crepe e svelando gli scopi. Certo questa resistenza culturale ha bisogno di appoggi, soprattutto politici: perché difendere la verità storica, in questo caso, significa anche difendere i valori fondanti della nostra democrazia.

* Fonte/autore: Eric Gobetti, il manifesto

La posta in gioco delle censure: rimuovere passato fascista e crimini di guerra italiani e riproporre gli anni ‘70 in chiave unilaterale, cancellando il terrorismo nero

 

Prima il caso del libro di Valentina Mira, accusato di aver dissacrato l’immaginario di destra delle vittime del “terrore rosso”; poi la censura al monologo di Scurati che, semplicemente, ripete quello che è scritto nei libri di storia e chiede di conseguenza alla premier di identificarsi con la Costituzione antifascista; prima ancora la censura alla scrittrice Nadia Terranova, per il suo monologo sulle cariche della polizia contro gli studenti di Pisa. Piccole e grandi censure, revisionismi, storture e meschinità che parlano di un tratto cruciale della destra italiana e del suo intreccio con la memoria storica.

Non si capisce ciò che sta accadendo se non lo si riconduce alla costruzione politico-mediatica della memoria storica dell’esperienza del fascismo e, successivamente, alla rappresentazione pubblica del terrorismo di matrice neo-fascista degli anni ‘70. Fenomeni in continuità, tra loro e con la destra italiana (ne scrive Sergio Bologna in Alcune note sulla questione dei ceti medi e dell’estremismo di destra in Italia dal dopoguerra a oggi, Edizione acro-pólis, Trieste, 2023).
La tesi di Bologna è che la memoria della Resistenza sia strabica: mitizzando la Resistenza, l’Italia si è auto-assolta dei crimini che le sue truppe hanno commesso accanto alla Wehrmacht e alle SS. Così si sono anche dimenticati i misfatti commessi nei Balcani, in Africa nelle ex colonie, dalla Libia all’Etiopia. È così che avviene la rimozione dell’esperienza fascista dalla memoria storica del Paese e, appunto, la mitizzazione della Resistenza e degli “italiani brava gente”.
Ben diversa, sostiene Bologna, è la memoria degli anni ’70 che, anche grazie al modo in cui il lavoro degli storici viene portato dai media nello spazio pubblico, sembra prolungare all’infinito uno “stato d’emergenza” nei confronti di un fenomeno, il terrorismo “rosso”, che da decenni non esiste più.
È quindi accaduto il contrario di quello che è capitato con la memoria del fascismo: quanto si è alimentata la rimozione del passato fascista nel dopoguerra, tanto il ricordo delle degli anni ‘70 viene continuamente riproposto in chiave unilaterale.
È questa la vera posta in gioco delle piccole e grandi censure: proteggere il mito degli “italiani brava gente” (pagando il politicamente poco impegnativo e, anzi, in molti modi funzionale, pegno della mitizzazione della Resistenza), continuando a perpetuare la rimozione della memoria del fascismo, la cancellazione del terrorismo nero e la memoria degli anni ’70 come anni del “terrore rosso”. La cosmogonia della destra, la galleria delle intoccabili divinità la cui violazione comporta la censura o peggio.
Il progetto politico della destra di governo è in continuità con lo strabismo di questa memoria storica e, semplicemente, non tollera nulla e nessuno che lo metta in discussione. Non stupisce quindi l’impegno per il controllo politico degli immaginari, per l’occupazione dei ruoli che manovrano il capitale simbolico e per la promozione di una iconografia della classe dirigente in diretta connessione con i modelli identitari semanticamente affini a questa memoria storica: dal gastronazionalismo, all’Italia delle eccellenze rurali, alla maternità come dovere delle donne, alla disciplina come fondamento della scuola pubblica, alla difesa dei confini contro l’invasore straniero.
La sinistra ha pensato di saper fare la televisione perché sapeva fare “Blob”, lasciando alla destra la tv di massa. Un gravissimo errore. Il controllo degli immaginari, Berlusconi docet, è co-essenziale alla costruzione del consenso. Ce lo spiega bene il caso di “Semplicemente Maria”, la telenovela che per oltre dieci mesi, tra il 1969 e il 1970, ha catalizzato l’attenzione di milioni di peruviani e, soprattutto, peruviane.
La telenovela racconta la storia di Maria Ramos, una immigrata dalle aree rurali andine che arriva in città in cerca di una vita migliore. Maria trova lavoro come domestica presso una famiglia benestante e si iscrive a corsi di alfabetizzazione per adulti, tenuti dal “Maestro” Esteban. Ha una storia estemporanea e rimane incinta, per venire successivamente licenziata dai suoi ricchi datori di lavoro. La madre di Esteban, Dona Pierina, le insegna come cucire e Maria inizia a lavorare come sarta, per poi avviare la propria attività di modista. Ben presto la fama di Maria si diffonde e diventa una stilista di grande successo; si trasferisce a Parigi per dirigere la sua nuova impresa e alla fine sposa il Maestro Esteban.
La telenovela ha ispirato le spettatrici, prevalentemente giovani donne di basso status sociale, ad aumentare il loro impegno e stimolandone l’autostima. In seguito a “Semplicemente Maria” le sarte sono aumentate in tutto il Perù e le iscrizioni ai corsi di cucito sulle macchine da cucire “Singer”, quelle utilizzate da Maria, sono cresciute in modo visibile. Il confine tra reale e virtuale si era già incrinato prima dei social media. La destra lo ha capito da tempo e la sinistra dovrebbe affrettarsi per recuperare il terreno perduto.
@FilBarbera

* Fonte/autore: Filippo Barbera, il manifesto

Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia

 

Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia.

Il 24 gennaio 1944, in piena occupazione nazista, due antifascisti condannati a morte evasero dal carcere di Regina Coeli grazie ad una straordinaria operazione della Resistenza socialista. Erano Alessandro Pertini e Giuseppe Saragat e sarebbero divenuti entrambi presidenti della Repubblica, incarnando la catarsi antifascista dell’Italia dopo gli anni del regime.

Dal Quirinale, nel nome della comune esperienza partigiana, i due costruirono un rapporto di amicizia e rispetto con Josip Broz Tito, a sua volta comandante della Resistenza jugoslava, l’unica in Europa a liberare da sola il proprio Paese dall’occupazione nazifascista.

In ragione della necessità di instaurare buoni rapporti tra i due Stati (dopo l’aggressione fascista ed i crimini di guerra perpetrati dal regio esercito italiano nei Balcani) e della strategica collocazione geopolitica tra i «non allineati» di Belgrado nel quadro della Guerra Fredda, Tito venne insignito da Saragat della Gran Croce al Merito della Repubblica italiana il 2 ottobre 1969.

L’avversione dell’estrema destra fu assai vivace e culminò con i due attentati dinamitardi contro la scuola slovena di Trieste e al cippo confinario a Gorizia in occasione del viaggio di Stato di Saragat a Belgrado del 2-6 ottobre 1969. A compierli fu la cellula veneta del gruppo Ordine Nuovo, la stessa che il 12 dicembre successivo realizzò la strage di Piazza Fontana. Nei luoghi dove vennero rinvenute le bombe i neofascisti lasciarono dei volantini firmati da un sedicente Fronte anti-slavo che recitavano «no al viaggio di Saragat in Jugoslavia» e «no alle foibe».

Oggi è il partito Fratelli d’Italia a rivendicare l’intenzione di revocare il riconoscimento a Tito disconoscendo l’operato del primo Presidente partigiano.

La politica di amicizia italo-jugoslava proseguì e, ancora dal Quirinale, fu Alessandro Pertini ad incontrare Tito nell’ottobre 1979 e poi a recarsi in visita ufficiale per i suoi funerali l’anno seguente. Una presenza che scatenò, di nuovo, la reazione scomposta dell’estrema destra la cui eco è risuonata qualche tempo fa attraverso un falso propalato da stampa e social-media che rappresentarono la foto del Pertini affranto ai funerali di Enrico Berlinguer, piegato sulla bara del segretario del Pci, spacciandola per un omaggio al capo di Stato jugoslavo nel giorno delle sue esequie.

Già rivelato dalla scelta del 10 febbraio come data celebrativa (anniversario del Trattato di Pace di Parigi del 1947), in Italia l’uso strumentale della storia praticato dalla destra nel giorno del ricordo (che dovrebbe rievocare le violenze delle foibe insieme alla «più complessa vicenda del confine orientale») finisce per richiamare non solo il passato remoto del fascismo storico, con il suo corollario di crimini di guerra in Jugoslavia rimasti impuniti in ragione della realpolitik della Guerra Fredda anticomunista, ma anche il passato prossimo dell’Italia repubblicana che mantenne nel suo seno un’estrema destra sempre ostile alla Costituzione ed alla sua radice fondativa: la Resistenza.

Dopo aver attraversato la catarsi antifascista negli anni di Saragat e Pertini oggi assistiamo, per mano degli eredi del Msi, ad una rivalsa che disconosce ciò che dal vertice della Repubblica i due presidenti partigiani avevano costruito.

Così l’annunciato museo delle foibe assume le sembianze dell’ennesimo tentativo di riscrittura del passato finalizzata al governo del presente, che trasforma il tempo in cui l’Italia è stata aggressore in un ricordo vittimistico che cancella responsabilità ed eredità del regime fascista. Un passo che allinea sempre più la nostra contemporaneità al disarmo culturale volto a spogliare la Repubblica del suo vestito antifascista e a relegare la discussione pubblica sulla riemersione odierna delle peggiori istanze regressive (largamente presenti nel corpo della società) a un vacuo dibattito sull’applicazione della misura giudiziario/penale della sanzione al neofascismo.

Un approccio che, in tempi di crisi della democrazia, disperde e cancella dalla sfera pubblica quel patrimonio di analisi politico-culturale che permise di individuare le ragioni storiche alla base (in Italia prima di ogni altro luogo) della nascita, dello sviluppo e dell’ascesa di un regime reazionario di massa.

Una lettura dei caratteri di fondo di quel fenomeno che fu il lascito di figure come Piero Gobetti («il fascismo come autobiografia della nazione»), Antonio Gramsci («il sovversivismo delle classi dirigenti») e Aldo Moro («la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia»). Eredità storiche, queste sì, da ricordare

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti

 

Non era difficile prevedere che collocare la Giornata del ricordo, per onorare le vittime delle foibe, a dieci-quindici giorni dal Giorno della memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno come unico denominatore comune l’appartenere tutte all’esplosione, sino allora inedita, di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia.

Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali.

Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione.

Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda.

I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

* Questo testo del grande storico italiano che ci ha lasciato da meno di un anno – legato profondamente alla storia del Manifesto e nostro prezioso collaboratore per decenni – è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco).

Fonte/autore: Enzo Collotti, il manifesto

 

 

 

ph by Roberta F., CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Ieri la conferenza stampa in Parlamento – insieme all’Anpi – delle Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia e di Bologna

 

La proposta di Fratelli d’Italia di istituire una «commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza politica negli anni 1970-1989» rappresenta l’ennesimo tentativo di ricerca di catarsi repubblicana dei post-fascisti al governo. Un irricevibile e maldestro tentativo di riscrittura della storia del Paese finalizzato a riabilitare una destra impresentabile che porta con sé tutto il peso dei fatti di cui fu protagonista in negativo in quei decenni.

Se da un lato, con la conferenza stampa tenuta ieri in Parlamento congiuntamente all’Anpi, le Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi si sono già mobilitate per contestare tale commissione (nel fondato timore che intralci lavoro e risultati raggiunti dalle ultime inchieste per gli eccidi di Piazza della Loggia e della stazione di Bologna) dall’altro non si può non sottolineare come decenni di rimozione, vuota retorica celebrativa e narrazioni qualunquistiche bipartisan abbiano dissodato il terreno in favore della malapianta revisionista.

L’USO CONTINUATO di una grammatica storica sbilenca ha consentito di eliminare significato e ragione dei fatti. Su questo la formula della «violenza politica» riveste una funzione distorsiva e fuorviante e per questo da scomporre. La violenza operaia emerse nel 1969 dentro il processo produttivo, ovvero come forza di massa in opposizione al regime tayloristico di fabbrica ed al modello di sviluppo su questo centrato.

La violenza studentesca, successiva e non contestuale alla nascita di un movimento nato come urto all’autoritarismo del processo formativo, si manifestò come difesa sia dalla gestione aggressiva dell’ordine pubblico sia dallo squadrismo fascista. La violenza dei gruppi extraparlamentari di sinistra si espresse in origine come forma di rottura di fronte alla crisi dei partiti e della rappresentanza tradizionale, tentando di intercettare l’autonomia operaia e sociale dei soggetti conflittuali emergenti.

Un’impostazione che, nel gennaio 1970, sarà criticata come «spontaneistica, restrittiva e superficiale» dal periodico del Collettivo Politico Metropolitano da cui nacquero le Brigate Rosse.
LA VIOLENZA NEOFASCISTA si sviluppò come reazione contro i movimenti sociali, in un processo che per gruppi come Ordine Nuovo sarebbe deflagrato nello stragismo ovvero nella contrapposizione paramilitare allo spostamento a sinistra degli assetti del Paese.

Dall’uso strumentale della «violenza politica» emerse -come disse nel 1974 il ministro della Difesa Luigi Gui- il «grande equivoco» della «aberrante» formula degli «opposti estremismi» che, per la sua intrinseca ambiguità, fu contestata dalle sinistre e da Aldo Moro ed in ultimo disconosciuta dai suoi stessi teorici.

Paolo Emilio Taviani ricorda nelle sue memorie: «la strategia degli opposti estremismi sbagliava, perché poneva sullo stesso piano da un lato le efferate azioni delle Br incapaci di generare una svolta dittatoriale di sinistra e dall’altra la galassia dell’estrema destra che -al contrario- rischiava di portare realmente a una svolta autoritaria. La strategia degli opposti estremismi prolungò gli anni di piombo». Acceso fautore dell’uso della «violenza politica» come declinazione degli «opposti estremismi» fu il capo dell’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato. L’ultima inchiesta lo indica, in compagnia dei neofascisti, come responsabile della strage di Bologna del 2 agosto 1980.

I POST-FASCISTI invitano a studiare chi critica la loro proposta e allora riportiamo alcuni dati. Uno studio dell’Istituto Cattaneo (Della Porta-Rossi) sugli anni 1969-1975 indica 2.528 episodi di violenza di cui 196 con matrice di sinistra e 1.671 di destra, mentre di 1.708 attentati non rivendicati 175 sono riconducibili alla sinistra e 1.339 alla destra.

Il «Rapporto sull’eversione e sul terrorismo di estrema destra» redatto nel 1982 dal SISDE riferisce di 176 morti e 577 feriti causati dai neofascisti e si aggiunge alle relazioni pubblicate dalle Giunte regionali di Lazio, Lombardia e Piemonte che censirono le migliaia di violenze perpetrate dai gruppi dell’estrema destra negli anni 1969-1975.
CON TALI DATI SI POTREBBE affrontare la questione della correlazione tra violenza e consenso elettorale al Msi. Infatti «fra il 1969 ed il 1972 -ha scritto il politologo Marco Tarchi- l’aumento della violenza di piazza e la crescita della predisposizione al voto missino è strettissima».

Tutto questo al netto delle stragi neofasciste degli anni 1969-1980 realizzate con il decisivo apporto di apparati militari, ceti proprietari e parti affatto marginali della classe politica.
L’INIZIATIVA degli eredi missini rappresenta un fine esplicito di uso pubblico della storia finalizzato al governo di un presente che si vuole proteso al superamento delle radici resistenziali della Repubblica cui i post-fascisti sono estranei. «La teoria degli opposti estremismi -insegna lo storico Enzo Santarelli- costituisce una precisa deformazione dello spirito e della lettera della Costituzione mirando ad un continuo riaggiustamento dell’equilibrio di un potere di classe e di rapporti sociali disuguali che nulla hanno a che vedere con l’antifascismo».

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

GORIZIA. Un convegno per rivendicare l’antifascismo, la ricerca storica, l’esigenza di non approfittare di una giornata che dovrebbe essere dedicata alla storia drammatica del confine orientale e che da subito, invece, è stata occasione per rinfocolare divisioni, propagandare il nazionalismo più odioso ammiccando a nostalgie irredentistiche e addirittura riabilitando il fascismo storico. La Giornata del Ricordo celebrata in Italia come memoria di una sola parte che si autoassolve nonostante sia stata origine e protagonista di quelle tragedie.
«L’Italia è un Paese che ancora non è capace di confrontarsi seriamente con il proprio passato» ha detto Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi e promotore di una grossa iniziativa ieri a Gorizia assieme al suo omologo sloveno Marijan Krizman, presidente della ZZB-NOB.
«La storia insieme» il bel titolo del convegno tenutosi al Kinemax davanti a cento persone, basato sulla relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena che per anni aveva visto lavorare assieme personalità autorevoli italiane e slovene per raggiungere una sintesi condivisa su quale fosse stato il rapporto storico fra i due popoli e quali drammi erano maturati nel trasformarsi di questa zona di confine da punto di incontro tra culture diverse – tedesche, slave, italiane – a punto di scontro sanguinoso con l’avanzare dei nazionalismi.

Al Convegno hanno partecipato anche alcuni dei membri di quella Commissione: Nevenka Troha, Gorazd Bajc, Fulvio Salimbeni, concordi nel sottolineare la fatica e la puntigliosità della loro ricerca e del loro confrontarsi, sicuri di avere ottenuto un risultato importante, di avere stilato un documento inconfutabile che pensavano diventasse una pietra miliare per la conoscenza della Storia ma anche per l’amicizia tra i popoli. Un documento che, invece, è rimasto nascosto ai più mentre cresceva una narrazione distorta che esagerava, quando non inventava, soltanto episodi legati alle foibe e all’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia, decontestualizzando e strumentalizzando una storia complessa che andrebbe invece vista e compresa senza ignorare “l’altra parte”. «Non una storia delle guerre» ha ricordato il Prof. Salimbeni «ma una storia delle culture e delle civiltà che hanno fatto l’Europa».

Il lavoro della Commissione era stato voluto dai Ministri degli Esteri di entrambi i Paesi, la nostra Camera dei deputati aveva chiesto unanimemente la pubblicazione della relazione finale ma tutto è rimasto sottotraccia, quasi non si trattasse di un atto ufficiale condiviso da due Stati. «La politica che l’aveva voluta» ha detto Eric Gobetti, molto applaudito «l’ha subito dimenticata. Poi l’istituzione del Giorno del Ricordo, una legge che non pensava alla pacificazione, che di ignora, che incentra tutto su un proprio ruolo di vittima. Chi ha votato quella legge evidentemente aveva come obiettivo solo una pacificazione interna: quella tra ex fascisti ed ex comunisti». Resta che nei libri di testo scolastici, oggi, c’è mezza pagina per le stragi naziste in Italia, mezza per le foibe e l’esodo e nessuno studente sa che l’Italia ha invaso la Jugoslavia nel 1941.

Forte, sentito, lungo, l’intervento finale di Gianfranco Pagliarulo che, nel ribadire la ferma determinazione dell’Anpi a continuare sulla strada dell’incontro e di una memoria integrata, ha annunciato una prossima iniziativa con le associazioni di ex partigiani croati, sull’isola di Rab dove, in un campo di concentramento per sloveni, croati e serbi, i fascisti italiani occupanti fecero morire di stenti centinaia di donne e bambini slavi, una «razza inferiore» per nazisti e fascisti.

 

* Fonte/autore: Marinella Salvi, il manifesto

Si è svolto oggi alle 18 ad Affile (Roma) un flash mob promosso dall’ANPI – con la presenza del Presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo e del Presidente dell’ANPI provinciale di Roma Fabrizio De Sanctis – in occasione dell’84esimo anniversario della strage di Debra Libanos (Etiopia).
Dal 21 al 29 maggio 1937 nel monastero di Debra Libanos furono trucidati monaci, diaconi, pellegrini ortodossi, più di 2.000, per opera degli uomini del generale Pietro Maletti, dietro ordine di Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia. Ad Affile è situato un monumento dedicato proprio a Graziani.
In un passaggio del suo intervento così si è espresso Pagliarulo:
“Siamo qui per denunciare una grande ignominia: un monumento intitolato non al soldato affilano più rappresentativo, come incautamente affermato, ma all’uomo delle carneficine, delle impiccagioni, dei gas letali. Perché questo fu Rodolfo Graziani. E le due parole sulla pietra del monumento, Patria e Onore, suonano come il più grande oltraggio alla Patria e all’Onore. Onore è parola che significa dignità morale e sociale. Quale onore in un uomo che sottomette un altro popolo in un’orgia di sangue? Patria. La nostra patria è l’Italia. La parola Italia è nominata nella Costituzione due sole volte: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, L’Italia ripudia la guerra. Tutto il contrario di un Paese fondato sul razzismo imperiale. Perché, vedete, le stragi di Graziani furono certo l’operato di un criminale di guerra, e non fu certo l’unico. Ma furono anche stragi dello Stato fascista, di una macchina di violenza e di costrizione verso l’altro “.
Era presenta anche una delegazione dell’Associazione della Comunità etiopica di Roma.

 

* Fonte: il manifesto, Ufficio stampa Anpi

Nella vicinanza di date, intenzionale, voluta dalla destra, dal giorno della Memoria in ricordo della Shoah, gli italiani sono stati chiamati dalle autorevoli parole del presidente Mattarella a celebrare con il giorno del Ricordo l’orrore e la tragedia delle Foibe. Vale la pena sottolineare che nei due casi gli italiani furono vittime non innocenti. Se nello sterminio degli ebrei furono complici dei nazisti, per le foibe furono coinvolti da un insieme di circostanze più complesse, che solo la memoria corta della politica e l’ipocrisia di buona parte della classe dirigente hanno espulso dalla memoria collettiva.

Stavolta c’è un motivo di rammarico in più. Il presidente Mattarella nel suo discorso di ieri sembra avere dimenticato perfino la sua stessa iniziativa istituzionale, quando solo nell’estate scorsa ha sentito il bisogno di riparare ad una visione nazional-unilaterale della tragedia, andando in Slovenia a celebrare i martiri del fascismo, stavolta dimenticati – insieme al presidente sloveno Pahor. Che senso ha augurarsi «il reciproco riconoscimento, il dialogo e l’amicizia…» se non vengono denunciati ogni volta anche i crimini commessi dagli italiani? Quale futuro condiviso si può costruire se la memoria sui crimini non è condivisa? E come si può affermare che «i crimini contro l’umanità scatenati in quel conflitto non si esaurirono con la liberazione dal nazifascismo, ma proseguirono nella persecuzione e nelle violenze perpetrate da un altro regime autoritario, quello comunista»?

Ecco che siamo ad un lascito di memoria che oscura gli attori della Liberazione, del resto in perfetta sintonia con la vergognosa risoluzione dell’Europarlamento che nel 2019 ha equiparato il comunismo al nazismo. Ma, signor presidente, perché non ricordare le violenze del nazifascismo stesso e la scia di sangue lasciata in quelle terre, come pure ha avuto il coraggio di fare il presidente della Camera Fico? Come dimenticare le responsabilità dello squadrismo e del regime fascista poi nella snazionalizzazione degli sloveni e dei croati che dopo il 1918 vennero a trovarsi entro i confini dello stato italiano?

Quest’anno poi, altra «piccola» sua dimenticanza, è l’80° anniversario dell’invasione nazifascista della Jugoslavia. Nel 1941 l’aggressione dell’Italia alla Jugoslavia e l’annessione violenta della provincia di Lubiana a Regno d’Italia contribuirono in modo decisivo alla dissoluzione dello stato Jugoslavo e alla apertura della fase storica che sfociò nella Jugoslavia di Tito. Ricorda lo storico Enzo Collotti: «In ciascuna di queste fasi le autorità politiche e militari italiane, al di là di ogni problema geopolitico, si mossero nel presupposto che le popolazioni slave rappresentassero, come ebbe a dire Mussolini, “una razza inferiore e barbara” nei cui confronti fosse possibile e lecito imporre il pugno duro e purificatore dei dominatori».

Quella occupazione, ricorda in lo storico Davide Conti, costò la vita a circa un milione e mezzo di persone travolte dalle misure draconiane della famigerata “Circolare 3C” che istruiva i soldati italiani alla repressione di civili e partigiani, firmata dal generale Roatta: perché questo crimine non «colpisce le nostre coscienze»? Le foibe si inseriscono in questo contesto.

Al di fuori di questo quadro non c’è la possibilità di comprendere le ragioni degli orrori dei quali parliamo e dei quali rischiamo di tornare a rimanere vittime. Nessuna menzogna potrebbe capovolgere questa realtà della storia o avvelenare la nostra memoria, impedendo la consapevolezza e le nefandezze di un passato che dovremmo considerare ormai alle nostre spalle. Se così non è, dobbiamo tornare a riflettere sulla superficialità con la quale i politici di turno si sono impossessati di una questione di forte impatto emotivo per alterare la storia e la memoria con la retorica patriottarda.

Il rischio, che ogni anno si perpetua, è che la questione delle foibe serva proprio a coprire il vuoto di consapevolezza sulla vera realtà della sconfitta del Paese, ma anche della capacità della popolazione di rialzare la testa e di affrontare i sacrifici che hanno consentito la ricostruzione. Mettere al centro dell’attenzione le foibe non serve a sottolineare le offese subite ma a perpetuare uno sterile vittimismo che non contribuisce a fare i conti mancati con il passato, né a consolidare il consenso a questa nostra democrazia minacciata da tante insidie. Una di queste è la negazione della verità.

L’enfatizzazione delle foibe ha ritardato la riconciliazione con le vicine popolazioni slave – che senso ha parlare di «aperture» a quel mondo se non si ricordano sempre le nostre responsabilità? – rendendo più difficile la cicatrizzazione delle ferite della guerra, oscurando i drammi veri delle popolazioni costrette a lasciare le loro case e la loro terra, le uniche che abbiano pagato, per tutti gli italiani. le malefatte di un regime criminale senza che ci siano stati gesti ufficiali da parte dello Stato democratico di rottura e di risarcimento verso un passato da condannare senza riserve.

La prassi tutta italiana di coprire con l’oblio passaggi storici che avrebbero meritato un forte impegno di autocritica e di verità, si è alleata alla rimozione di memorie scomode e alla loro banalizzazione.

Così, nel coro dei media, si ripete la litania del «silenzio» che sulle foibe ci sarebbe stato per responsabilità di una sinistra omissiva: in realtà nel 1945 vennero istituiti processi ed emesse condanne, ma ad evitare la riapertura di quella pagina furono i governi De Gasperi nella convinzione che sollevare la questione avrebbe comportato per l’Italia l’obbligo morale di rispondere sia per i crimini commessi in Jugoslavia (e nei Balcani) ma anche in Libia, Etiopia e Unione sovietica, sia per i risarcimenti economici previsti dal Trattato di Pace di Parigi del 1947. Così nessun criminale di guerra italiano è mai stato giudicato da nessuna Norimberga.

L’orrore delle foibe deve servire a richiamarci alle nostre responsabilità storiche. E certo non deve essere volta a volta strumentalizzato ai fini di corroborare, come in questi giorni, il clima politico unanimista in corso per il nuovo governo.

* Fonte: Tommaso Di Francesco, il manifesto

Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe.

Avevo otto anni quando i partigiani di Tito, il 1 maggio del 1945, proprio sotto casa mia fermarono la loro avanzata per non esporsi al tiro della guarnigione tedesca, asseragliata nel Castello di San Giusto. Erano scesi dall’altipiano del Carso in due colonne, una si era diretta all’edificio del Tribunale dove i tedeschi avevano installato il Comando e l’altra al Castello di San Giusto, dove il vescovo Santin svolgeva il ruolo di mediatore tirando le trattative per le lunghe in modo da dare il tempo ai neozelandesi, avanguardia dell’esercito alleato, di arrivare ed evitare in tal modo che la resa venisse consegnata nelle sole mani dell’esercito di liberazione yugoslavo. Così la guarnigione tedesca si arrese il 2 maggio, presenti anche gli anglo-americani, giunti a marce forzate dalla litoranea. Ma sul Carso, a vista d’occhio dalla città, si combatteva ancora. La cosiddetta “battaglia di Opicina” è costata molti morti, in gran maggioranza tedeschi, e si sarebbe conclusa solo il 3 maggio.

Secondo certe ricostruzioni (Leone Veronese, 1945. La battaglia di Opicina, Luglio Editore, 2015) i primi a essere gettati nelle cavità carsiche furono soldati dell’esercito tedesco, fucilati dopo la resa. La versione secondo cui gli infoibati sarebbero stati in maggioranza cittadini inermi che avevano il solo torto di essere italiani è falsa. La grande maggioranza di quelli che poi furono gettati nelle foibe erano membri dell’apparato repressivo nazifascista, in mezzo ci saranno state anche persone che non avevano commesso particolari crudeltà ma c’erano anche quelli che avevano torturato o scortato i treni che portavano ebrei e combattenti antifascisti nei campi di sterminio. Così come non regge la versione che vorrebbe la città di Trieste sottoposta a una dittatura sanguinaria durante i 40 giorni dell’occupazione yugoslava. Se non altro per la presenza delle truppe anglo-americane.

Peggiori delle false ricostruzioni sono le amnesie. Infatti si dimentica (o si ignora) che l’apparato repressivo nazifascista a Trieste non era di ordinaria amministrazione, aveva un suo carattere di eccezionalità perché ne facevano parte personaggi che hanno avuto un ruolo centrale nella politica di sterminio di Hitler. Christian Wirth era uno di questi. Si legga il curriculum terrificante di questo individuo su Wikipedia: responsabile del programma di eutanasia, prelevava le vittime dalle prigioni, dagli ospedali psichiatrici, tra gli zingari. Comandante del lager di Belzec, riorganizzatore di quello di Treblinka, di Sobibor, fu il primo a usare il monossido di carbonio per gasare i deportati. Arriva a Trieste nel 1943. Un anno dopo i partigiani lo individuano e lo uccidono (non è vero, come scrive Wikipedia, che fu ucciso in combattimento presso Fiume, il suo certificato di morte è apparso in rete non più tardi del 2017, dice: von Banditen erschossen, morto in un agguato organizzato dai partigiani mentre passava su una macchina scoperta, nei pressi di Erpelle (Hrpelje) a pochi chilometri da Trieste). Ma ce n’erano altri di personaggi dalla pasta criminale analoga a Wirth, che si erano fatti i galloni nei peggiori Lager del Reich e venivano a Trieste dove gente importante li accoglieva a braccia aperte e dove trovavano anche il modo di non perdere certe abitudini, visto che a portata di mano avevano la Risiera di San Sabba, un forno crematorio che la mia città ha avuto la vergogna di ospitare. Proprio a Opicina la salma di Wirth ricevette gli onori militari.

Trieste e zone circostanti, assurte a provincia del Reich, erano diventate un ricettacolo di criminali di guerra, l’angolo di un continente dove la risacca della storia aveva deposto i suoi rifiuti più immondi. I partigiani di Tito hanno liberato l’umanità da alcuni di questi individui, hanno spento quel forno crematorio. Dovremmo essere loro grati per questo, pensando quale tributo di sangue è stato da essi versato per compiere quella missione. Ora però vengono ricordati come un’orda di barbari assetati di sangue, non di sangue nemico, no, di sangue di povera gente inerme che non aveva alzato un dito contro di loro.

Ciò che accadde in quelle tragiche giornate di aprile/maggio 1945 impedì alla memoria storica di mettersi subito al lavoro. Quello che sarebbe stato l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia si costituì senza i comunisti. Enzo Collotti diede un contributo fondamentale all’impostazione della ricerca e l’Istituto divenne uno dei luoghi dove cominciai a capire in che razza d’inferno ero cresciuto. Il primo periodo d’attività fu dedicato a “mettere in sicurezza”, come si dice in termine aziendale, la storia dei movimenti di liberazione nella regione, storia tormentata e perciò fonte di drammatiche divisioni (un esempio per tutti l’eccidio di Porzus, ripreso anche nell’ampia pubblicazione, Atlante storico della lotta di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Una resistenza di confine 1943-1945, 2005). Tra tutti gli Istituti della Resistenza italiani quello di Trieste fu l’unico dove la presenza comunista o fu assente o svolse un ruolo decisamente secondario. Del resto il comunismo è finito ormai da 30 anni e i suoi seguaci di allora sono in genere i più accaniti nell’infierire sul suo cadavere, ma a leggere certe vaneggianti uscite di quotidiani come “Il Giornale” o “Libero Quotidiano” nel Giorno della Memoria  sembra che orde di “trinariciuti” riescano ancora a dettare legge in Italia.

Negli Anni ’90 la dissoluzione dell’ex Yugoslavia ha investito in pieno il senso d’identità nazionale di croati, sloveni, serbi, macedoni; i nazionalismi hanno fatto a pezzi l’esperienza socialista, la guerra di liberazione non è stata più l’epopea fondativa dello Stato federale, l’immagine di Tito è stata strappata dal piedestallo e se si voleva trovare gente che gettava fango sulla sua figura e sul suo ruolo la si trovava soprattutto tra i suoi compatrioti. L’orrore di quella guerra degli anni Novanta, che così bene Paolo Rumiz ha decodificato nei suoi meccanismi oscuri, ha cancellato ogni traccia di orgoglio per l’eroica ribellione alla dittatura nazifascista. Le falsità, le deformazioni, le mistificazioni che oggi dilagano avrebbero potuto diventare communis opinio in quel contesto, invece gli storici triestini legati all’Istituto colsero l’occasione dell’apertura di certi archivi per intensificare la ricerca della verità.

Perché questo va detto con forza: le ispezioni nelle cavità carsiche, le esumazioni, le ricerche per dare un nome ai morti, il recupero e l’attento esame dei registri, di qualunque documento in grado di fare luce sulle circostanze, sulle vittime e sui carnefici, tutto questo lavoro ingrato e difficile fu opera di storici che si riconoscevano pienamente nei valori della Resistenza posti alla base della nostra Costituzione, come Roberto Spazzali, Raoul Pupo e molti altri. Sono loro che hanno dimostrato rispetto per gli infoibati, che hanno contestualizzato quegli avvenimenti, mentre alla canea revanscista e neofascista il destino di quei morti non interessava per nulla, era solo pretesto, strumento, per aggredire gli avversari politici di turno e oggi per fare pura e semplice apologia del fascismo. Come mai nel Giorno della Memoria un Presidente della Repubblica invece di rivolgersi ai primi per impostare un discorso con un minimo di rigore storico si rivolge ai secondi?

 

Si legga anche la seguente documentazione (da Angelo Del Boca, Italiani brava gente)

Fonte: Sergio Bologna, Volerelaluna

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