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Ieri mattina assai interessante lettura dei giornali. L’insieme delle notizie dà infatti conto con particolare evidenza non solo dell’attualità, ma di processi innescati da lungo tempo e che ora stanno arrivando a coronamento. Ancorché osservati, ahimè, con colpevole disattenzione anche da chi pure era tutore delle vittime designate: la sinistra, riformisti e neocentristi compresi, e la democrazia. E pensare che l’obbiettivo era stato annunciato persino con clamore.

Inutilmente, perché in molti quel processo l’hanno scambiato addirittura per progresso. Comincio con elencare le notizie:

1) Marco Minniti, ex dirigente del Pci calabrese, da ultimo ministro degli interni paladino della guerra ai migranti, ha abbandonato la poltrona di deputato per sedersi su quella, ben più “modesta”, di presidente della neonata fondazione “Med-Or”, definita “ponte fra l’Italia e il Medio e Estremo Oriente”, che farà capo per il 30% al ministero dell’economia che oggi gestisce le azioni dell’ex Finmeccanica e per il resto – indovinate? – alla Leonardo, azienda pubblica specializzata in armi sofisticate e cybersecurity, oggi assai gettonata, ed è da lì che arriva il ministro Cingolani, scelto (spero solo per disinformazione) da Grillo, e accolto con entusiasmo da non pochi, fieri di aver potuto affidare a uno specialista di nanotecnologie (utile per fare droni, non molto per riparare l’ecosistema) il comando della battaglia contro il disastro della Terra.

Adesso sappiamo che si comincerà la transizione ecologica da quella zona del globo – che il Washington Post, sempre oggi, definisce “il bar di Guerre Stellari” (la battuta, già sulla bocca di tutti, è del vignettista del manifesto, Corvi). Con Minniti e i droni, per l’appunto.

2) Rintraccio anche fra le tante notizie economiche un prezioso documento dell’Eni, la nostra più potente azienda a partecipazione statale, nel quale l’amministratore delegato dell’ente, Claudio Descalzi, informa dettagliatamente gli azionisti del Piano energetico ‘20-’24 in vista della totale decarbonizzazione prevista per il 2050. Un Piano “realizzabile”, precisa Descalzi, per far capire che i manager fanno sul serio gli ambientalisti solo delle chiacchiere.

Non posso entrare nel merito perché si tratta di molte pagine e nei prossimi giorni la nostra TaskForce “Natura e lavoro” fornirà un’analisi più autorevole della mia. Vi basti un punto solo, ma indicativo: il petrolio si continuerà a produrre alla grande (i 14 grandi progetti prevedono un aumento del 70%), e l’energia verrà veicolata via gas e idrogeno verde e blu – la soluzione cui con coraggio e intelligenza si è opposta la sezione Cgil d Civitavecchia, uno degli snodi essenziali – ma in compenso la CO2 verrà stoccata sottoterra (e speriamo che Dio ci assista). E comunque, vengono informati gli interessati, le azioni conosceranno un incremento dell’8 %.

3) A capo della Leonardo regna Alessandro Profumo, già presidente di Unicredit, poi mandato a occuparsi del disastro Monte dei Paschi di Siena, ora in attesa. Insomma: uno del giro di quelli che vengono chiamati “servitori dello stato”.
Vengo alla conclusione che mi costringe a tornare indietro di quasi 50 anni. Nel 1973 venne battezzata a Tokio una nuova formazione, inventata da Kissinger e Rockfeller, la Trilateral, membri gli Stati Uniti, il Giappone, l’Europa. I tre big di allora, la Cina nessuno pensava che sarebbe scesa in capo a rendere più complessa la storia del capitalismo (e, diciamo la verità, anche del socialismo).

Dall’incontro giapponese uscì una solenne dichiarazione che prendeva le mosse dall’analisi di quanto era accaduto nel decennio precedente: grandissime lotte operaie e studentesche in tutto il mondo, i continenti colonizzati per secoli finalmente entrati sulla scena politica: per la prima volta il potere stava avendo paura. E lo disse a chiare lettere: in questi anni si è moltiplicato il disordine, si è diffusa troppa democrazia, il sistema non se lo può permettere. L’economia è cosa troppo delicata per lasciarla nelle mani della politica, dei parlamenti. Serve affidarla agli esperti.

Fu allora che entrò in scena la magica parola “governance”, quella con cui venivano denominati i CdA delle imprese, a differenza dei governi che presuppongono l’esercizio della sovranità popolare, almeno nei paesi democratici. Tanto piacque tuttavia quella parola, che era in realtà ben più di una parola, un concetto, che tutti cominciarono da allora a infilare nei propri discorsi, a proposito e a sproposito. Senza curarsi del fatto che via via le decisioni importanti passavano di mano: non più degli organismi democraticamente designati, cioè della politica, ma in quelle dei manager.

Non è una storia solo italiana, naturalmente. Noi, però, come sempre, istituzionalizziamo le anticipazioni. Questo governo ne è un esempio: abbiamo messo un po’ di ministri e sottosegretari a fare corona, e i managers li abbiamo infilati parte al governo, parte, moltiplicandoli, tenuti fuori ma in realtà promossi. È un passaggio non da poco. I grillini farebbero bene a buttare le poltrone recuperate col taglio dei parlamentari, sul mercato valgono ormai poco.

E forse sarebbe bene non perder tempo a prendersela con la sottosegretaria alla cultura perché non legge o per altri fattarelli analoghi. E invece organizzare sul serio un movimento che esiga da tutti questi extraparlamentari – Minniti, Descalzi, Profumo, eccetera eccetera –che vengano a spiegarci, nei dettagli, cosa intendono fare. (A che serve se no discutere del Recovery Plan, se poi l’Eni, o l’Enel, fanno come gli pare, e noi non sapremo nemmeno dove andrà a sedersi Minniti nel “bar delle guerre stellari”?).

* Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

 

ph by Annika Haas, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

La memoria, specie di questi tempi in cui la verità pare divenuta un’opinione tra le tante, è strumento fondamentale. Si può anzi considerare tra le armi principali a disposizione per chi non si rassegni alla dittatura del presente, all’immodificabilità delle cose e a quel brusio di sottofondo che ha sostituito la comunicazione sociale e lo sguardo critico sulla realtà.

La storia di Forum Droghe e di “Fuoriluogo” sono strettamente avvinte e interdipendenti, oltre che coeve. Cercandone traccia nelle agenzie dell’epoca, la prima menzione riguarda quest’ultimo e in particolare il suo debutto, annunciato il 12 ottobre 1995. «Un giornale per parlare di droga ma non solo, prostituzione, carceri e Aids, immigrati e giovani “disobbedienti”, riduzione del danno e della illegalità», recitava la presentazione. Propositi ambiziosi, a tratti rispettati, ad allargare giustamente il discorso dal solo aspetto evidenziato dal nome scelto per l’associazione. Delimitante eppur centrale, poiché, allora come oggi, rimane indiscutibile – poiché dimostrato dai dati e dai fatti – quanto affermava il documento che annunciava l’assemblea fondativa di Forum Droghe il 13 maggio 1995: «La questione droga diventa cruciale per interpretare l’ipertrofia del sistema penale».

Si era infatti nell’onda (che continua, persino con peggioramenti, a tutt’oggi) della legge sulle droghe varata definitivamente nel 1990, cosiddetta Iervolino-Vassalli, sorta e voluta nel solco e a imitazione della statunitense war on drugs di reaganiana memoria e temporalmente di poco precedente, alla cui linea si adeguarono presto i grandi media italiani, con una campagna ossessiva a sostegno: Guerra mondiale alla droga, titolava in quei mesi il “Corriere della Sera”; Droga, nuovo Vietnam era l’allarme del quotidiano dei vescovi “Avvenire”, per indirizzare a sua volta le comunità terapeutiche, spesso gestite da sacerdoti o gruppi di ispirazione cattolica, che, per fortuna, in molti casi non si allinearono, divenendo invece l’anima di una coalizione dal programmatico nome di “Educare, non punire”.

Fare terra bruciata

La filosofia della nuova legge-manifesto era esattamente opposta: prima e in ogni caso punire. Si fondava sulla dichiarata necessità – anzi sul valore – della punizione al fine “pedagogico” di “fare raggiungere il fondo” ai tossicodipendenti, per costringerli poi a risalire. Incurante del fatto che, invece e nel frattempo, molti morivano, costretti sui marciapiedi e nelle celle o infettati dall’AIDS e tutti erano costretti a nascondersi, sfuggendo quindi alle possibilità di aggancio terapeutico e alla prevenzione. Persino i medici venivano costretti alla denuncia, alla faccia del rapporto fiduciario con il paziente. «L’unico modo per costringere il tossico a smettere è fare terra bruciata intorno a lui. Ai drogati deve essere proibito qualunque tipo di attività lavorativa», ammonivano e incitavano i capi delle comunità embedded.

Gli effetti si videro subito e furono drammatici. Nel luglio 1991, nel giro di pochi giorni, tre persone arrestate per droga si suicidarono in carcere. Tra di esse Stefano Ghirelli: 18 anni appena compiuti, incensurato, condotto nel carcere di Ivrea poiché trovato con 25 grammi di hashish, si impiccò dopo il rifiuto del giudice di concedergli la libertà provvisoria per “pericolosità sociale”. Nelle prigioni cominciò presto una tendenza ipertrofica che da allora non si è più arrestata. Il 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti ufficialmente presenti in carcere erano 7.299, sei mesi dopo erano già saliti a 9.623 per arrivare a ben 14.818 il 31 dicembre 1992. In crescita anche le morti: nel 1990, per la prima volta, il numero dei decessi per overdose superò le mille unità, arrivando a 1.161; l’anno seguente giunse a 1.383 e, nel 1992, a 1.217. Ancora più appariscenti le cifre degli ingressi totali annuali in carcere: dopo la Iervolino-Vassalli vedono un’impennata, passando dai 56.076 del 1990 ai 75.786 del 1991, ai 93.328 del 1992, ai 98.119 del 1993, per poi scendere leggermente, anche grazie alla vittoria del referendum abrogativo nel 1993 di alcune parti di quella micidiale legge, agli 88.415 del 1995. In quell’anno, dopo un decremento nel 1993 e 1994, i decessi per droghe sono risaliti ai 1.195, per arrivare l’anno seguente al picco storico dei 1.566.

La progressiva deriva securitaria della sinistra

Insomma, quello era il quadro precedente e motivante la nascita di Forum Droghe/Fuoriluogo. Così come l’associazione nasceva con lo scopo di essere luogo ospitale e aggregatore rispetto a realtà politico-organizzative già esistenti, così la testata intendeva programmaticamente indagare e approfondire i nessi, purtroppo non a tutti evidenti, tra differenti aspetti e problematiche del sociale (e del penale). Lavorando su binari paralleli, e spesso divaricantisi, nel tentativo di renderli invece maggiormente comunicativi, dialoganti e sinergici: quello dei movimenti e quello dei partiti della sinistra, allora ancora presente, anche in modo numericamente significativo, entro il parlamento, le istituzioni e per qualche periodo persino al governo. Meglio precisare: senza alcuno sconto o compiacenze non meritate. Basti qui citare un testo tra i mille possibili. Riguarda un tema in apparenza eccentrico rispetto alla dichiarata ragione sociale di Forum Droghe, forse rimasto troppo trascurato nella ormai lunga storia dell’associazione, quello dell’immigrazione. Scriveva “Maramaldo” nella sua rubrica Facce di bronzo: «“È davvero singolare che il vice presidente Fini si congratuli con Cofferati per la sua fermezza sulla legalità, dimenticando che le norme severe sul contrasto dell’immigrazione clandestina le ha introdotte il centrosinistra”. Così Livia Turco rivendica il primato della tolleranza zero verso l’immigrazione. A differenza di Cofferati, rigorista tutto l’anno, a giorni alterni Turco professa invece la vocazione solidale: questo era un giorno dispari. Speriamo che il programma di governo del centrocentrocentrosinistra (non è un refuso, ma una constatazione) si faccia in un giorno pari».

Pur non essendo ancora i tempi dei Minniti, è ben vero che la questione dei migranti – di nuovo: allora come adesso – risultava tra le più spinose e laceranti anche all’interno del centrosinistra. Più suscettibile di consensi, anche trasversali, era senz’altro la proposta di legalizzazione della cannabis. Oggi può sembrare incredibile, ma una proposta legislativa in tal senso, con primo firmatario Franco Corleone, nel 1996 arrivò a essere sottoscritta da ben 118 deputati, di maggioranza e di opposizione, dai Michele Salvati e Fabio Mussi ai Vittorio Sgarbi e Roberto Maroni. Si era a cavallo del governo Dini, con alla guida del ministero della Famiglia e Solidarietà sociale un galantuomo, ex partigiano, come Adriano Ossicini, cui subentrarono rispettivamente Romano Prodi e, appunto, Livia Turco, mentre Corleone entrava come sottosegretario alla Giustizia.

Seguì, a ottobre 1998, il primo governo D’Alema, con Sergio Mattarella alla vicepresidenza e Oliviero Diliberto alla Giustizia, mentre la Rosa Russo Iervolino della legge sulla droga assumeva il dicastero dell’Interno, prima donna arrivata a guidare il Viminale; la Turco veniva confermata alla Solidarietà sociale, così come Corleone sottosegretario a via Arenula.

Per la prima volta arrivò al governo anche Domenico Minniti detto Marco, con la delega all’Informazione ed editoria. A posteriori, un piccolo indizio che qualcosa stava forse cambiando e che la sinistra securitaria aveva silenziosamente conquistato parecchie posizioni in poco tempo. Nelle aule parlamentari ma anche nel sociale, nelle stesse associazioni, in un progressivo slittamento di baricentro, di priorità, di riferimenti politici e culturali.

E proprio questo è il tema di una lettera che il Forum scrisse al nuovo premier D’Alema all’indomani del suo insediamento, chiedendo in generale nuove politiche sulle droghe e anche sperimentazione dei trattamenti terapeutici con eroina sul modello di quanto avveniva in altri paesi europei, a cominciare dalla Svizzera con la sua strategia dei quattro pilastri. Le città, anche quelle italiane, potevano e dovevano cioè diventare territori di innovazione e integrazione, anziché ripiegarsi in scelte securitarie e di “tolleranza zero”, come in molti casi stava avvenendo.

Non c’è qui modo di ripercorrere tappa per tappa, ma la storia ci racconta che, non solo in Italia, lo Stato penale ha travolto e svuotato quello sociale su tutti i piani e terreni sino ad arrivare al populismo e all’ipertrofia carceraria dei tempi nostri, alla legalità divenuta totem e feticcio, a un’antimafia divenuta in certe sue parti cavallo di troia del sostanzialismo giuridico e della pena ritorsiva.

Fuoriluogo, come sempre

Ce le hanno dunque suonate, ma noi non ci siamo mai stancati almeno di dirgliele, con coerenza, costanza e determinazione lungo un faticoso ma anche a tratti entusiasmante quarto di secolo. Basti ricordare che, proprio in quegli anni, nell’aprile 1998, si arrivò al voto positivo per abrogare l’ergastolo al Senato, salvo poi bloccare la legge alla Camera. L’allora Guardasigilli Giovanni Maria Flick si dissociò da quel voto, salvo poi giungere oggi ad ammettere con sincerità di avere sbagliato nell’opinione di allora e pervenendo anzi, in generale, ad auspicare il superamento del carcere in quanto tale.

Per un soffio mancammo l’abrogazione della pena perpetua. C’è da non crederci, nel momento in cui, nei giorni più acuti della pandemia del coronavirus e del rischio di trasformare le carceri in un esplosivo lazzaretto, una nuova classe politica e improbabili ministri di Giustizia sono arrivati a bloccare con decreto-legge la scarcerazione di qualche condannato per criminalità organizzata, pur se anziano, malato e a fine pena. Naturalmente, in ciò acclamati all’unisono da quasi tutti i media. E anche questo è cupo segno dei tempi, appena rischiarati da un altro fatto che ha dell’incredibile, vale a dire la permanenza e resistenza di quella fragile testata che è “Fuoriluogo”, piccola mosca bianca assediata dai cantori e fautori del populismo penale.

Lasciatemi concludere con un pertinente esercizio di memoria, pur se autoriferito. Alzi la mano chi se lo ricorda: “Fuoriluogo” cominciò le pubblicazioni, con il mio coordinamento, in forma cartacea e di supplemento a “Narcomafie”, la prima rivista antimafia (categoria allora meno equivoca dell’attuale) di cui, da poco ammesso a uscire durante il giorno dal carcere, mi occupavo per il Gruppo Abele. Con forte scandalo in prima pagina del Travaglio, che cominciava la sua fortunata carriera ne “Il Giornale”, e con concrete reprimende da parte del presidente del tribunale di sorveglianza, che intentò la revoca del lavoro all’esterno del penitenziario e infine sentenziò non dovessi più scrivere, convenendo con l’esposto pervenutogli dall’associazione vittime del terrorismo: «Anziché restare in silenzio e godere della benevolenza loro concessa attraverso le garantiste leggi penitenziali, “sputano” nel piatto dove mangiano e finiscono per riaprire le “ferite” dei parenti delle vittime. È pure biasimevole che il Sergio Segio (privato dei diritti politici) sia stato nominato coordinatore del giornale Marcomafie [sic!] edito dal Gruppo Abele su proposta di don Ciotti. Su tale giornale scrivono sia Sergio Segio che Susanna Ronconi. Il contenuto è prevalentemente di scelta politica e dubito che possa diffondere scelte errate e forse nocive».

Tiravamo ventimila copie. Ben più del quotidiano che, qualche anno dopo, subentrò nel “cangurarci”. Evidentemente ciò poteva preoccupare, e lo faceva.

Molto tempo è passato e molte cose sono cambiate. Quasi sempre non per il meglio.

Abbiamo perso qualche compagno di viaggio e altri ne abbiamo trovati in questo cammino, che resta ancora lungo e impervio.

* L’articolo di Sergio Segio è stato pubblicato su Fuoriluogo

TRIESTE. C’era stato il grande Concerto dell’Amicizia con il maestro Muti in Piazza Unità a Trieste, con il presidente Napolitano fianco a fianco, per la prima volta, con i presidenti di Slovenia e Croazia. Assieme, avevano voluto testimoniare «la ferma volontà di far prevalere quel che oggi ci unisce su quel che ci ha dolorosamente diviso in un tormentato periodo storico». Era il 2010 e sembrava che finalmente tutti avessero capito che questa è una terra mistilingue dove si vuole, e si può, vivere in pace. La frontiera è luogo privilegiato di scambi, di commistioni, di arricchimento reciproco: questo andrebbe ricordato e tutelato sempre. Invece, anno dopo anno e con furia crescente, in Italia si è cominciato a tentare di riscrivere la storia e di rialzare i muri.

NON C’È CONTESTO, non c’è rispetto per la storia ma è un canto di sirene che sta diventando mainstream. Il risultato è che sono sempre di più quei connazionali che non sanno nulla di cosa sono state le guerre di occupazione italiane, dalle colonie alle conquiste “imperiali” fino alla Jugoslavia, quelli che pensano che nei campi di sterminio sono stati mandati soltanto gli ebrei e soltanto da quei pazzi dei nazisti tedeschi e sempre di più quelli che cominciano a dare per scontato che nelle foibe del Carso ci siano davvero i resti violati di decine di migliaia di «italiani solo perché italiani» e che tutti gli italiani d’Istria siano dovuti scappare per non essere infoibati dalle orde slavo-comuniste. Finisce così che non solo si tradisce la verità ma si fanno crescere nostalgiche ideologie revansciste pericolose per ogni vivere civile, come il secolo breve dovrebbe avere insegnato.

MA VALLO A SPIEGARE a chi pensa di costruirsi un successo politico gridando «Italia!» mentre guarda verso Fiume con la mano appoggiata sulla testa della statua di D’Annunzio messa in una delle più belle piazze di Trieste (architettonicamente proprio asburgica, se si volesse guardare). E adesso, alle cerimonie per il «giorno del ricordo» lunedì prossimo, con l’effetto scenografico del Sacrario alla foiba di Basovizza, arriva a Trieste un tris d’assi: Maurizio Gasparri, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Difficile non immaginare che si sentirà odore di intolleranza e contrapposizione interetnica, il contrario di quel che sarebbe necessario e giusto.

SAREBBE NECESSARIO chiedersi perché quando si onorano le vittime del nazifascismo si pensa al superamento dei conflitti e alla pace mentre le vittime delle foibe sono onorate con tricolori teschiati, saluti romani e tutto l’armamentario tipico del suprematismo da sempre guerrafondaio. Meglio non si potrebbe fare per far suonare un nuovo campanello d’allarme in Slovenia e in Croazia. Meglio non si potrebbe scegliere per ferire ancora una volta gli sloveni, ma anche quei triestini che qui vivono da sempre.

INTANTO IN CONSIGLIO regionale la maggioranza leghista propone una legge che affida la diffusione della conoscenza delle foibe e dell’esodo istriano esclusivamente alla Lega Nazionale, al Comitato 10 febbraio e a un paio di associazioni degli esuli istriani (si accettano scommesse per quale rappresenta con maggior vigore la destra nazionalista). Come dire che solo l’oste può dichiarare la bontà del proprio vino. Il massimo che riesce a fare l’opposizione piddina è chiedere che si possa aggiungere qualcuno che di mestiere studia e insegna la storia ma i sodali di Fedriga sono irremovibili.

SULLA TORTA DI QUESTO 10 febbraio del ricordo, a 75 anni dalla fine della guerra, c’è una ulteriore ciliegina, non bastasse il terzetto di parlamentari presenti a Basovizza, inevitabilmente attorniati da molteplici divise e gonfaloni, compreso quello della X Mas che ormai da mesi fa la spola tra Trieste e Gorizia. Il Comune del capoluogo giuliano ha pensato bene di patrocinare un Convegno che presenterà un vero scoop: il Narodni Dom, la casa degli sloveni dei croati e dei cechi di Trieste che ospitava in un unico grande edificio l’albergo Balkan, le banche, le sedi delle associazioni e delle organizzazioni sportive e culturali, la biblioteca ecc, incendiato dai fascisti capeggiati da Francesco Giunta nel luglio del 1920, in realtà sarebbe stato dato alle fiamme … dagli sloveni.

Non c’è limite allo scempio. Ma questa iniziativa, ospitata in una sala pubblica e pubblicizzata dalle locandine fatte pubblicare dal Comune, è proprio paradossale: il 13 luglio prossimo, a cento anni esatti dall’incendio, alla presenza del nostro presidente della Repubblica Mattarella e del presidente Sloveno Borut Pahor si terrà la cerimonia di restituzione alla comunità slovena dell’edificio, per diritto di proprietà e per correttezza storica «viste le ottime relazioni bilaterali ed i forti legami sul piano politico economico e culturale e le amichevoli relazioni contraddistinte da un elevato livello di cooperazione», come recita il comunicato ufficiale.

EFFETTIVAMENTE È da un bel po’ che a questo confine orientale d’Italia sarebbe il caso di prestare attenzione perché vien da pensare che c’è qualcuno che rimesta nel torbido.

* Fonte: Marinella Salvi,  il manifesto

AVIGLIANA (VAL DI SUSA). «Non in mio nome». Un cartello si alza sopra le teste dei manifestanti che attraversano Avigliana per protestare contro il decreto sicurezza firmato da Salvini. E dice tutto in quattro parole. No a una legge che calpesta i diritti e la Costituzione, no a una legge che crea «insicurezza», come riporta lo striscione tenuto dai sindaci valsusini sul palco di piazza Conte Rosso, a fine corteo.

Ieri, ad Avigliana, all’imbocco della Val di Susa, sono scese in piazza cinquemila persone. E non è un caso che sia successo qui. Perché storicamente è una valle di transito e di frontiera, ma anche di accoglienza. Lo è stata con gli italiani che arrivano dal Sud, con gli albanesi e gli jugoslavi che fuggivano dai loro Paesi negli anni Novanta. E lo è ai giorni nostri per tutti quelli che fuggono dalle guerre e dalla povertà in Africa. Lo è essendo un modello di integrazione con il progetto di micro accoglienza diffusa (Mad), che da tre anni coinvolge diversi comuni e migranti. Anche loro in corteo contro una legge che discrimina gli uomini e le donne in base ai luoghi dove sono nati. «Ma discrimina anche gli italiani, essendoci una norma repressiva nei confronti dei assembramenti, che lede il diritto a manifestare», ha detto, dal palco, uno degli organizzatori, Enzo Merini, sindaco di Vaie, che ha promosso l’iniziativa ed elaborato un documento, approvato dai sindaci valsusini, «contro questo decreto anticostituzionale».

«Questa piazza – ha sottolineato il sindaco di Avigliana, Andrea Archinà – è la testimonianza di una nuova umanità che pone l’accoglienza di chi ha bisogno al centro del proprio agire. E mette al centro pure la pace, perché prima di tutto dobbiamo restare umani». Alla vigilia della Giornata della memoria, l’Anpi ha listato a lutto la propria bandiera: «In questi tempi cupi sentivamo la necessità di ritrovarci e manifestare il nostro dissenso. Il mio pensiero va alle persone ancora in balia delle onde a bordo della Sea Watch», ha dichiarato Daniela Molinero, presidente locale dell’associazione partigiani.
Una legge che impedisce il rinnovo della protezione umanitaria, per chi ne aveva diritto, produrrà decine di migliaia di irregolari e tanti problemi. «Si decide di spostare altrove i fondi per l’accoglienza seminando odio», ha precisato Lucrezia Riccardi, responsabile del progetto Mad, che consente di accogliere nei paesi valsusini, 152 richiedenti asilo: 100 in bassa valle, in 20 comuni, e 52 in alta valle, in 16 comuni.

In corteo anche i componenti del «Coro moro», la band di rifugiati che cantano esclusivamente in piemontese. Provengono da Gambia, Ghana, Costa d’Avorio e Senegal; il coro era nato nel 2014 nelle Valli di Lanzo. Hanno sfilato, inoltre, l’assessore regionale Monica Cerutti, l’europarlamentare del Pd Daniele Viotti e il presidente del consiglio regionale Nino Boeti. E, poi, la comunità cattolica e valdese. Sparse tra la folla, le bandiere dei No Tav, del Prc, dell’Arci, di Libera e della Cgil.

Non pervenuti i Cinque stelle, che di questa Valle avevano fatto un fortino. O, almeno, così credevano. Ieri, il loro alleato di governo, Matteo Salvini, ha ripreso a esternare sul Tav, neanche ventiquattro ore dopo aver detto di essere in possesso di un contro dossier che smonterebbe il lavoro della Commissione incaricata dal ministro Danilo Toninelli a elaborare l’analisi costo-benefici sull’opera. «Stiamo lavorando a un progetto che come da contratto di governo tagli sprechi, opere sovrastimate. Se uno vuole un’Italia che cresce e aiutare le imprese e difendere l’ambiente deve togliere i Tir e le macchine dalle strade e dalle autostrade e far viaggiare merci e uomini in treno e quindi non è un derby sì o no». La prossima settimana il vicepremier leghista, padre del decreto contestato ad Avigliana, sarà a Chiomonte, non si sa con quale divisa, per visitare il cantiere dell’alta velocità: «Perché l’Italia sia collegata con il resto del mondo», ha concluso.

* Fonte: Mauro Ravarino,IL MANIFESTO

 

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Genova accogliente, in 10mila in corteo

Corteo in solidarietà con i migranti. In piazza scout, giuristi, medici, scuole. Megu Chionetti: tutti insieme per smantellare le leggi di Salvini. La galassia delle inziative verso “people-prima le persone”, la manifestazione a Milano il 2 marzo

* Fonte: IL MANIFESTO

TRIESTE. In un insolito sabato d’autunno, Trieste si è svegliata progressivamente blindata e in alcuni tratti deserta. I commercianti hanno abbassato le serrande e tra i cittadini circolava un certo malcontento. Nel primo pomeriggio la città si riempita di due anime contrapposte, mentre il Comune invitava a rimanere «in casa fino alle 20».

Da un lato, in pieno centro, Largo Riborgo ospitava il raduno nazionale di Casapound. Tra la folla, ancora limitata a qualche centinaio di persone, dominava il colore nero. Al balcone di un palazzo era appesa la scritta «Trieste Pro Patria» e, da lassù, alcuni esponenti del partito neofascista hanno salutato la folla, sventolando le loro bandiere. A breve sono arrivati alcuni bus che trasportavano altri militanti provenienti da diverse parti d’Italia: in tutto meno di 2000, alla faccia della «mobilitazione nazionale». Il corteo di Casapound era pronto a partire, accompagnato dalla musica di Wagner.

DALL’ALTRO LATO, in cima al colle di san Giacomo, anche il corteo antifascista si stava preparando. L’atmosfera era più variopinta. Singoli, famiglie e diverse istanze sociali. Più di 10.000 secondo i promotori. Riccardo Laterza, in rappresentanza della rete Trieste Antifascista e Antirazzista che aveva organizzato la manifestazione, ha aperto con un intervento. «Viste le tante presenze anche internazionali, chiederei un favore a chi ne è in grado: provate a riportare ai vostri vicini queste parole, che dopo di me saranno lette anche in sloveno, in più lingue possibili: facciamo in modo che questa sia una manifestazione di tutte e di tutti».

PRESENTI, nel lungo serpentone antifascista, il mondo culturale italiano e sloveno, il mondo sindacale, il mondo laico e cattolico, il mondo femminista e il mondo Lgbt della città.

«Prendo posizione contro questa scelta infelice sia da parte del sindaco che del prefetto – ha dichiarato lo scrittore Pino Roveredo – Sono sollevato perché ci sono molti giovani e vuol dire che c’è una presa di coscienza». Stefania Grimaldi, presidente della Cooperativa La Collina di Trieste, ha così motivato la sua presenza: «Noi rappresentiamo un pezzo della cooperazione sociale, crediamo nei valori della convivenza, dell’inclusione e dell’uguaglianza».

PRESENTE anche Antonio Parisi della comunità Lgbt di Trieste. «Sono qui per accogliere nella maniera più refrattaria possibile l’idea (e non tanto le persone) che gruppi fascisti possano prendere in mano la città», spiega. Un unico momento di tensione si è registrato quando alcuni esponenti di Potere al Popolo hanno contestano i rappresentanti del Partito democratico, presente a livello comunale, regionale e nazionale.

Dall’opposizione in Comune sono scesi in piazza alcuni consiglieri, tra cui Sabrina Morena di Sel. «Sono qui per difendere i valori della Costituzione e dell’antifascismo e trovo indecente che si commemori così la prima guerra mondiale: con un corteo fascista nel centro della città, al quale è stata data più visibilità di quello antifascista», con una critica esplicita al ruolo del Comune guidato dalla destra. Nel frattempo Casapound è sembrata rallentare ma poi ha proseguito tagliando perpendicolarmente via Carducci, luogo più vicino all’altro corteo. Non si è sentita più la musica e i passi dei manipoli neofascisti hanno continuato silenziosi e ordinatissimi, diretti verso il Giardino pubblico. Ma nessuno ha più parlato del concerto previsto per la serata a Fiume (Croazia).

NEL TARDO pomeriggio, Simone di Stefano di Casapound ha dato il via al suo provocatorio e delirante comizio. «Di certo noi oggi non siamo venuti qui per prendere voti… Siamo venuti qui semplicemente per onorare il sacrificio di 600.000 e più italiani che erano i nostri nonni e i nostri bisnonni che nella grande guerra si sono battuti come leoni scrivendo col sangue i confini di questa nostra nazione. Noi oggi siamo qui per celebrare una vittoria».

Qualche centinaio di metri più in là, risuonava una voce opposta. «Mi chiamo Lidia, nome di battaglia Bruna e ho fatto la staffetta partigiana a Novara – ha raccontato Lidia Menapace- Io credo che il successo di questa straordinaria giornata viene dal fatto che non siamo tutti in cattedra a raccontare grandi valori, giudizi ed eroismi ma siamo davvero popolo, tutti e tutte, giovani e meno giovani».

* Fonte: Emily Menguzzato, IL MANIFESTO

A luglio ho deciso di tornare in Italia, assalita dal bisogno di capire. Da Parigi, dove vivevo da dodici anni, seguivo Salvini in tv e mi prendeva vergogna per quel che vedevo. “È anche colpa mia, colpa della nostra parte”, mi ripetevo. Avevo passato la vita a fare politica e reputavo la mia lontananza come un abbandono del campo. Mio marito è scomparso tre anni fa, non avevo più nessuno in Francia, qui a Roma i compagni di una vita non ci sono più, Lucio Magri, Luigi Pintor, Valentino Parlato sono tutti morti, e anche io sono molto vecchia ormai».
Rossana Rossanda, 94 anni, giornalista, scrittrice, partigiana, “la ragazza del secolo scorso”, come titolò la sua famosa autobiografia, sta sfogliando nel salotto di casa i primi numeri della collezione de il manifesto, il giornale da lei fondato nel 1969. «Voglio rileggermi le cronache delle lotte operaie di allora, i lavoratori si sono battuti per i loro diritti e hanno vinto».
Che Italia ha trovato?
«Un Paese irriconoscibile, senza spina dorsale. Mi fa paura vedere quel che sta diventando».
Le fa più paura Salvini o Di Maio?
«Salvini, perché sa quello che vuole, Di Maio è sempre lì che ride».
Cosa la spaventa in Salvini?
«La prepotenza. Ho studiato a fondo il decreto sulla sicurezza, non capisco come Mattarella abbia potuto firmarlo».
Le sembra razzista?
«Lo è. Il migrante è visto soltanto come un potenziale criminale».
Che potere è questo al governo?
«È la deriva razzista del populismo. Di Maio e Salvini sono entrambi populisti, ma in maniera diversa, perché nel governo prevalgono soprattutto le idee del leghista. I Cinquestelle non riesco a prenderli sul serio».
Hanno avuto il 32 per cento, come fa a dire che non vanno presi sul serio?
«Forse è un modo sbagliato di dire. Voglio dire: non riesco a capirli. Mi dicono che molti di sinistra hanno votato per loro, ma i Cinquestelle di sinistra non hanno proprio niente».
Moltissimi ex extraparlamentari hanno votato per l’M5s. Come lo spiega? Con una proposta di radicalità che la sinistra riformista non offriva più?
«Mi sembra evidente. Hanno cercato un cambiamento vendicativo dopo che le loro speranze sono andate deluse».
Cosa ci dice questo della sinistra italiana?
«Milioni di persone votavano a sinistra perché nel suo Dna c’era la difesa dei più deboli. Questo non lo pensa più nessuno».
Questa mutazione quando avviene?
«Direi che inizia con il cambio del nome di Occhetto. Cambiare nome significa mutare la propria identità. Da allora di nomi ne hanno cambiati tre o quattro e ogni volta si sono allontanati un pezzetto dalla loro base. Veltroni è arrivato a dire che non era mai stato comunista».
Lei è ancora comunista?
«Io sì».
Per chi voterebbe oggi?
«Non saprei. Prenda i candidati segretari del Pd: Zingaretti, Minniti, Martina, Boccia, Richetti. Non li distinguo. Mi dicono che Delrio è bravo. Non dubito. Ma qual è la sua visione del mondo? Quando ero giovane a Milano ho conosciuto bene la sinistra dc, quella di Marcora e Granelli: le loro voci si distinguevano nettamente da quelle delle altre correnti.
Prenda il democristiano Fiorentino Sullo, le sue battaglie contro le speculazioni edilizie si ricordano ancora adesso».
È stupita che gli operai votino per la Lega?
«Quella è un’altra storia, più vecchia. Succedeva già 15 anni fa. Tessera Cgil e voto per la Lega».
Perché è accaduto?
«La Lega forniva spiegazioni semplici. “Se perdi il lavoro te l’ha portato via l’immigrato, e prima ancora il meridionale, il terun. Non è colpa tua. Non è colpa del sistema”. Si è offerto allo stesso tempo un nemico e una consolazione».
Lei è preoccupata dello spread?
«In sé non mi pare un’indicazione di rovina, mi pare più grave fare una manovra che non porterà alcuna crescita, non porterà lavoro».
È favorevole al reddito di cittadinanza?
«In linea di principio sì, è giusto sostenere i poveri, ma poi cosa resterà? Bisogna creare lavoro. E qui sono d’accordo con quel proverbio cinese che dice: dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita».
Come si schiererà alle Europee?
«Darò un voto pro Europa, contro i pericoli fascisti che vedo in giro. Il fascismo me lo ricordo bene, perciò mi fa paura».
Ma che strade restano alla sinistra stretta tra populismo e austerità?
«A quelli che dicono che non ci sono alternative, dico guardate Sanchez e Podemos in Spagna o il piccolo Portogallo: fate come loro».
È colpita dalla semplificazione del dibattito politico?
«Sono colpita dalla volgarità.
L’altro giorno ho visto in tv una trasmissione dove tutti ripetevano “non me ne frega un cazzo”, se parlavo così mio padre mi mollava come minimo una sberla».
Rimpiange di non avere avuto figli?
«Sì. Adesso mi sentirei meno sola e soprattutto avrei la percezione di avere tramandato qualcosa di me».
Perché non li ha avuti?
«Avevo molto da fare».
Come sono stati i suoi due matrimoni?
«Grandi amori. Erano entrambi molto simpatici. C’era sempre tra noi la voglia di stare assieme, non c’è niente di più bello, non trova?».
Come guarda al futuro?
«So che non ne ho più molto e in fondo non mi dispiace. Ho avuto una vita molto fortunata, ho conosciuto gente interessante».
Le figure più importanti?
«Mio suocero, il mio maestro Antonio Banfi, Sartre».
Com’era Sartre?
«Un raro caso di francese disponibile, aperto. Veniva a Roma tutti gli anni, amava l’Italia, era curioso, la de Beauvoir era più rigida».
Qual è l’ultimo libro letto?
« Le assaggiatrici di Rosella Postorino, interessante. Vorrei leggere Scurati su Mussolini».
Non sta sui social?
«Li detesto. Voglio passare all’altro mondo senza aver dato un solo euro a Zuckerberg».
Nel bilancio della sua vita prevalgono più le ragioni o i torti?
«Ho cercato di fare prevalere le ragioni, ma ho avuto grandi torti, del resto chi può negare di sé di non averne avuti».
Qual è il torto più grande?
«Non glielo dico. Lo dico con fatica anche a me stessa».

* Fonte: CONCETTO VECCHIO, LA REPUBBLICA

L’articolo di Erri De Luca che segue apre una nuova campagna contro l’obbligo di obbedienza, a difesa dei cinque licenziati di Pomigliano che culminerà il 30 settembre con un evento (convegno-spettacolo) al Maschio Angioino con la partecipazione del sindaco Luigi De Magistris, di Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Franca Fornerio, Erri De Luca, Daniela Padoan, Paolo Maddalena, alcuni dei quali prenderanno parte allo spettacolo (oltre che al convegno) insieme ai cinque operai licenziati. Sarà un grande evento.

Il 6 giugno 2018 la Cassazione ha stabilito l’obbligo di fedeltà dei dipendenti nei confronti del datore di lavoro, anche fuori del turno e del luogo. La sentenza riguarda cinque operai della Fiat di Pomigliano D’Arco, che in appello avevano prevalso sull’azienda che li aveva licenziati.
L’obbligo di fedeltà spetta ai cani e alle altre specie animali addomesticate.
La specie umana si distingue per il conquistato diritto alla libertà di opera e parola.
La storia sacra narra l’esordio della coppia prototipo, piantata in un giardino del quale potevano disporre. Una sola pianta era esclusa dalla loro portata. Proprio da quella vanno a cogliere il frutto e che frutto: la conoscenza di bene e male.
La conoscenza: si spalancano i loro occhi, s’ingrandisce la loro facoltà di percepire, si accorgono di essere nudi. Nessuna specie vivente ha questa notizia. La coppia prototipo si è staccata dal resto delle creature, inaugurando le piste desertiche e inesplorate del libero arbitrio.
La loro libertà inizia dall’infedeltà non solo a un obbligo, ma al legislatore di quell’obbligo, la divinità in persona.
Alla Cassazione spetta l’ultima parola di un procedimento giudiziario. Vuole essere tombale e definitiva. Ma si sa che le lapidi mentono spesso. Perciò dissento. Questa sentenza della Cassazione va ridotta a penultima parola. L’obbligo di fedeltà di chiunque riporta indietro alla storia di un giardino, di una pianta proibita e di un ammutinamento.
Se quella coppia non avesse forzato l’obbligo di fedeltà, la specie umana starebbe ancora imbambolata e nuda nel giardino incantato dell’infanzia.
Sottolineo che l’iniziativa spettò alla donna. Lei osò l’impensabile, imitata da Adàm dopo aver visto che in seguito all’assaggio non era morta, anzi era più bella.
La coscienza civile di questo paese ha oggi il compito di cassare la Cassazione, sentenza del 6/6/2018.
Fuori dall’aula a porte chiuse di una corte, all’aria aperta delle piazze e delle assemblee si casserà l’obbligo di fedeltà, che va contro natura e civiltà.
Nella specie umana inalienabile è il diritto al dissenso, alla critica, allo spirito di contraddizione verso i poteri pubblici e privati. Ne siamo confermati dall’articolo 21 della Carta Costituzionale.
Aggiungo a conclusione del diritto della specie umana all’ammutinamento, che per me e per chi esercita quest’attività di pubblica parola si tratta anche di un dovere.

Per leggere e sottoscrivere l’appello “Obbligo di fedeltà: per la libertà di parola e l’eguaglianza di fronte alla legge”qui 

oppure inviare mail a: ellugio@tin.it

* Fonte: Erri De Luca, IL MANIFESTO

Per la prima volta i ciclo-fattorini che lavorano per le piattaforme digitali parteciperanno in maniera organizzata al primo maggio a Milano, Torino e Bologna. A Milano i «rider» del sindacato sociale che opera in città – Deliverance Milano – apriranno il corteo del pomeriggio, a Bologna la «Riders Union» faranno una critical mass al mattino e una festa al pomeriggio. E anche a Torino i rider si stanno organizzando.

Le rivendicazioni, ribadite domenica scorsa nella prima assemblea nazionale a Làbas a Bologna, sono: riconoscimento dello status di lavoratori mentre oggi sono considerati «freelance»; abolizione della paga a cottimo e dei sistemi di valutazione aziendale; riconoscimento di un’assicurazione per la salute e contro gli incidenti; dotazione di biciclette e di attrezzatura aziendale come gli elmetti.

Il primo maggio dell’«orgoglio Rider» sarà anche europeo. Negli ultimi due anni, infatti, con lo sviluppo tumultuoso delle piattaforme digitali nel settore della consegna a domicilio sono emerse le prime lotte e i tentativi di auto-organizzazione del nuovo lavoro digitale dei fattorini. La connessione europea tra i gruppi e i sindacati auto-organizzati, dalla Spagna all’Italia fino all’Inghilterra, potrebbe essere uno degli obiettivi della giornata. Tra le ipotesi discusse nell’assemblea bolognese c’è anche «CoopCycle», una piattaforma francese di consegna utilizzabile dalle cooperative di ciclo-fattorini. Al momento è in fase di prova e la si può testare sull’omonimo sito. Si tratta di «un bene comune digitale». Diversamente dagli algoritmi proprietari che oggi eterodirigono le prestazione dei rider per conto delle aziende private (Deliveroo, Foodora ecc) CoopCycle apparterrebbe a tutti coloro che vi contribuiscono (sviluppatori) e che la utilizzano (corrieri, ristoratori). Il software è concesso dalla Peer-to-peer Foundation e il suo uso commerciale è limitato alle cooperative di lavoratori.

A Bologna il comune ha siglato con la «Riders Union» e i sindacati confederali una «Carta dei diritti del lavoro digitale nel contesto urbano». In questi giorni sta contattando le piattaforme per sottoscrivere il documento. Vedremo quante e quali aderiranno al primo esperimento di «negoziazione metropolitana» nella «gig-economy» in Italia. Per il primo maggio i rider bolognesi stanno studiando varie forme di astensione dal lavoro.

FONTE: roberto ciccarelli, IL MANIFESTO

Le mois dernier, nous publiions un appel parisien aux « amis dispersés de par le monde ». Il s’agissait d’une proposition pour fêter dignement le cinquantenaire de mai 1968. Nous venons de nous signaler cet écho paru sur le site Les Pavés en trois langues.

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(En anglais et en allemand.

UNE EFFERVESCENCE RÉVOLUTIONNAIRE

Aujourd’hui, certains journalistes, intellectuels, artistes et politiciens souhaitent commémorer l’année 68 et ses révoltes, qu’ils présentent comme animées uniquement par le désir de démocratie capitaliste, de plaisir individualiste et libéral. Une fois encore, il s’agit de vendre, de l’audimat, des torchons littéraires et des bulletins de vote ; il s’agit en fait de neutraliser et de mettre à distance ce qui a pu se jouer de politique lors de l’une des années les plus subversives, violentes et offensives de l’après-guerre. Analyser l’histoire pour marteler sa fin, évoquer la fougue et la révolte d’une génération pour mieux enfermer et pacifier la suivante.

Les étudiants parisiens entament le mois de mai en occupant la Sorbonne, les revendications singulières explosent, le refus d’un monde s’exprime sur les murs des villes et s’incarne dans les barricades nocturnes. Les ouvriers rentrent rapidement dans la danse et déclenchent une grève générale sauvage qui paralyse le pays. En deux semaines, le gouvernement plie et accorde des concessions sociales historiques, concessions rejetées par les grévistes…

A Mexico, pendant plusieurs mois, un mouvement pour la liberté d’organisation et contre la répression politique alterne manifestations de centaines de milliers de personnes, occupations des universités et lycées, et affrontements de rue. L’État mexicain achèvera le mouvement en assassinant plus de deux cents personnes lors du massacre de Tlatelolco.

Derrière le rideau de fer, un nouveau gouvernement lance un processus de libéralisation politique, soutenu par le peuple qui accélère sa mise en œuvre : liberté d’expression et de réunion, fin de la censure, ouverture des frontières vers l’Ouest, limitation du pouvoir de la surêté d’État. Il faudra que des chars investissent les places pour mettre fin au printemps de Prague.

Les Viêt-Congs lancent l’offensive du Têt contre les principales villes du Sud. Si les assaillants sont globalement repoussés après quelques semaines, cette offensive montre au monde les capacités de l’armée populaire vietnamienne, annonçant les débuts de la défaite américaine.

En Italie, le mouvement étudiant entre dans sa deuxième année. Partant d’une critique du système universitaire, de son autoritarisme et de sa fonction capitaliste, le mouvement déborde ce cadre, se mêle de politique internationale et de questions domestiques, enchaîne les grèves, quitte les campus pour se fondre dans les villes, et connaît ses premiers affrontements victorieux contre les flics. L’année 68 s’inscrit dans les débuts de la longue séquence rouge italienne, douze années d’expérimentations et de conflits politiques, d’occupations, de grèves, d’émeutes, de lutte armée, de radios pirates, d’expropriations, de quartiers en rébellion. Un bouleversement de tous les aspects de la vie…

Ailleurs aussi, au Japon, aux Etats-Unis, en Allemagne, au Sénégal, un mouvement d’émancipation sans précédent secoue la planète : libérations sexuelle et politique, luttes contre toutes les formes d’autorité, mouvement féministe et dissidence politique ; refus du travail, du monde de l’économie et de ses diktats ; vies communautaires et illégalismes ; naissance de l’écologie radicale et rejet du système académique, réappropriation de savoirs ; rébellion contre l’impérialisme, l’institution militaire et les guerres coloniales.

Les femmes et les hommes qui ont porté ces luttes en ont payé le prix fort, des dizaines de milliers de blessés et de morts, de prisonniers et d’exilés. Mais ils ont aussi connu des victoires et des puissances nouvelles, expérimenté des formes de vie et de combats inédites ; fissurer le monde pour en faire émerger d’autres, inconnus et fous… Partout, ce sont des alliances entre ouvriers et étudiants, entre hommes et femmes, entre immigrés et citoyens nationaux qui ont forgé l’ampleur et l’intensité de ces mouvements, l’altérité comme puissance commune, une manière de désarçonner l’adversaire, de se réinventer, d’apprendre à se battre, et à gagner.

ILS COMMÉMORENT, ON RECOMMENCE

Malgré toutes ces tentatives révolutionnaires, le régime capitaliste a continué sur sa lancée, de mutations en récupérations, de pics de croissance en crises mondiales, le monde est plus malade qu’il ne l’a jamais été :

Les citoyens européens sont supposés être au sommet de la liberté, leurs vies regorgent de choix palpitants. Le choix de liker ou pas, le choix de cette marchandise de merde, ou de la suivante, le choix de ce parti ou d’un autre, qui mèneront de toute façon la même politique, et, évidemment, le choix du type de cancer qui nous fera crever… Une abondance de trajectoires vides de sens pour nous faire oublier notre absence de destin, voilà ce que le capitalisme offre aux « privilégiés » de notre époque. Quant aux autres, les millions de migrants fuyant les guerres, la pauvreté ou les destructions climatiques, ils sont condamnés à l’errance et à la mort aux portes de l’Europe, ou, lorsqu’ils arrivent à passer, à devenir la main d’œuvre exploitée du patronat, ainsi que la chair à canon sur laquelle les polices occidentales expérimentent leurs techniques répressives.

Sur le plan de l’égalité, certaines femmes blanches et cultivées peuvent aujourd’hui devenir des managers comme les autres, et même parfois les dirigeantes de grandes puissances mondiales. Mais le nombre de viols et de féminicides ne diminue pas pour autant, et les femmes racisées continuent à être le ciment inavouable de nos sociétés : laver, soigner, assembler, éduquer, et surtout rester invisibles.

Le travail est plus que jamais imposé comme la valeur cardinale de notre société. Les chômeurs sont traqués, méprisés et éradiqués. Uber, Amazon et leurs armées de managers « créatifs » entreprennent de ré-inventer le fordisme et un mode d’être au monde où chaque seconde est comptée et contrôlée : le culte de l’instant, un présent perpétuel ne laissant aucune place au passé ni à l’avenir…

Au niveau global, on ne peut plus compter le nombre d’espèces animales disparues ou en voie de disparition, pas plus que le nombre d’écosystèmes détruits ou le degré de pollution des océans. Le monde de l’économie continue d’imposer toujours plus la domination de la planète, et la destruction de toutes les formes de vie.

Dans cet univers merveilleux émergent heureusement une forme de conscience lucide, des tentatives de subversions et de confrontations. Un peu partout, la désertion progresse, le capitalisme vert et les politiciens professionnels ne font plus rêver que les idiots ou les salauds. Des alliances se tissent, des migrants occupent des places et des bâtiments, rendent visibles leurs existences et leurs expériences, des femmes s’organisent ensemble pour faire valoir leurs droits, leurs voix et leurs vies. A une échelle plus large, des réformes politiciennes ou des meurtres policiers peuvent entraîner des éruptions politiques massives et inattendues, des grands projets d’infrastructure donnent parfois naissance à des communes libres et à des transformations sensibles de territoires entiers, certaines réunions des dirigeants de ce monde finissent par la mise en échec de milliers de policiers et le saccage en règle de métropoles hyper-sécurisées.

Dans le cadre de ces tentatives, un appel à se rendre à Paris pour un mois de mai sauvage a été lancé par des camarades français. Par ce texte, nous souhaitons répondre positivement à cette invitation, et la relayer auprès de tous nos complices et amies, en devenir ou éprouvées.

Nous nous rendrons à Paris parce que nous pensons que, tout autant que l’état du monde, les mots et l’histoire méritent eux aussi un combat. Il ne s’agit pas de fétichisme ou d’idéalisation d’une période révolue, mais de se nourrir, de rendre vivantes une mémoire, une histoire, des vies et des luttes, ainsi que les désirs et visées qui les ont traversés. Il y a cinquante ans, des milliers de compagnons se sont lancés à l’assaut du ciel. Qu’ils aient finalement échoué à abattre le capitalisme n’est pas l’important. Ce qui nous importe, ce sont les questionnements, les gestes et les élans qu’ils ont posés et comment leur faire écho, comment les respirer, les interroger, les réitérer peut-être. Comme le disent nos amis zapatistes, l’avenir est dans notre passé…

Nous nous rendrons également à Paris pour ce qui s’y joue actuellement, pour soutenir nos camarades français et présenter nos meilleurs vœux à Macron. Elu sur le rejet de la classe politique traditionnelle et se présentant comme « apolitique », Macron met en œuvre depuis un an une politique néolibérale à un rythme frénétique : destruction des droits sociaux, autoritarisme assumé, accroissement du contrôle étatique. Sa première erreur pourrait être de mener actuellement de front des réformes du baccalauréat, de l’accès à l’université et de la SNCF, tout en ayant rendu clair qu’il s’apprête à démolir le secteur public français. Les cheminots, connus comme étant les ouvriers les plus combatifs, ont initié un mouvement de grève qui affectera fortement les transports à partir de début avril. De nombreux lycéens et étudiantes ont commencé à bloquer et occuper leurs écoles et universités. Dans la fonction publique, les travailleurs comprennent que les cadences infernales et le management agressif auxquels ils sont soumis ne feront qu’empirer. Bien sûr le gouvernement double ses attaques politiques d’attaques médiatiques contre les cheminots et les fonctionnaires, alors que les occupations de lycées et d’universités font face à une répression policière et administrative féroce.

Mais la journée de grève et de manifestations du 22 mars 2018 a laissé voir une combativité et une détermination qu’on n’avait plus vu depuis le mouvement contre la loi travail de 2016 : 180 manifs dans toute la France, les systèmes ferroviaires et aérien durement touchés, des cortèges de tête massifs et offensifs. Personne ne peut dire comment ce début de mouvement évoluera dans les semaines à venir, mais il y aura un enjeu certain à créer des ponts, multiplier les rencontres et les mondes à partager : envahir les gares en manif, ouvrir les assemblées, occuper des lieux, trouver des cibles communes… Essayer de sentir et de combattre ensemble, pour que le printemps qui vient dépasse l’histoire et libère enfin un temps dont on s’éprenne.

Rien n’est fini, tout commence…

 

lundimatin

Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul manifesto un corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.

Nei giorni successivi piovvero critiche, e rispose con questo articolo più lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di famiglia». 

Non soltanto la politica e la lotta di classe sembrano fuori corso di questi tempi, ma perfino il buonsenso. Non avessi mai osservato che la requisitoria delle Br contro la dc, nel loro secondo messaggio, ricalca stilemi veterocomunisti, mirando a trovare consensi nello spazio lasciato aperto dalla cessazione d’una analisi seria e d’una seria lotta del partito comunista alla democrazia cristiana.

Su questo si sono gettati come leoni tutti i partiti dell’unità nazionale. Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché. L’uno e gli altri strumentalizzano e falsificano allegramente.

Vediamo.

Non parlerò del Giornale, perché sono una veterosettaria e voglio morire senza parlarne. Il Popolo mi fa dire che non solo è veterocomunismo, ma che «affonda le radici nelle trame internazionaliste del Cominform». Povero Cominform, fiacca e spiacevole larva della defunta internazionale: scommetterei che della dc non ebbe neppure tempo di accorgersi, nella breve vita impiegata ingloriosamente a cercare di abbattere Tito.

Il Corriere fa scrivere a Ronchey che l’abbandono da parte del Pci di quel giudizio sulla dc coincide con la fine del suo leninismo.

E perché? Intanto, va a vedere come, se, quando, e in che senso Togliatti abbandonò il leninismo davvero. E poi, perché Lenin dovrebbe essere il simbolo dello schematismo? I suoi giudizi politici sono lucidamente articolati. E quanto alla dc, solo una veggente avrebbe potuto informarlo di questo squisito e tardivo prodotto del secolo.

Soltanto Enzo Forcella sembra aver letto le nostre righe sull’album di famiglia, del resto poco originali, con la consueta lucidità.

il manifesto, fin dall’uccisione di Calabresi, ha negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo

QUESTA È MANCATA davvero ai compagni comunisti. Lasciamo andare l’editoriale odierno di Tortorella, dove mi accusa nientemeno che di aver detto che il terrorismo è figlio di Marx, Lenin, Gramsci e Togliatti: qui siamo proprio nella polemica deliberatamente falsificatoria, giacché Tortorella sa benissimo che il manifesto ha, fin dall’uccisione di Calabresi, ricordato come esso sia una pratica veneranda della piccola borghesia, e più recentemente abbia negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo.

Ma vediamo il lungo articolo di ieri del compagno Macaluso. «Non so quale album conservi RR. È certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti, né l’immagine di milioni di lavoratori e comunisti che hanno vissuto le lotte, travagli, contraddizioni di questi anni».

Che importa che io abbia scritto che non tutta la politica del Pci stava in quelle formule? Che fortunatamente c’era l’intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una diversa pratica di massa, insomma la «doppiezza» di cui più tardi Togliatti avrebbe parlato? No. La Rossanda parla come il Giornale, come gli esponenti della Dc, come i redattori del Popolo.

Diavolo. Mi domando perché il Pci si sia tenuto in seno per quasi trent’anni un serpente come me.

Ma usciamo da una polemica miserevole e ragioniamo.

PERCHÉ IL PARTITO comunista è così agitato? Perché si sente sulla difensiva? Perché sembra volersi disperatamente scrollare di dosso una paternità dell’estremismo, che nessuno, in Italia, gli attribuisce?

Galloni non spara sulla segreteria o sulla linea comunista, ma se mai su una retrovia sociale, su una base operaia non cedevole, sul sindacato. Anche Carli, a suo tempo, cercò di individuare una continuità fra insorgenza operaia, nel senso di non accettazione del patto sociale, ed eversione.

È una vecchia trappola.

Il Pci non solo farebbe bene a rispondere per le rime a chi cerca di stabilire un filo fra terrorismo e lotta di massa, ma avrebbe anche facile gioco.

Glielo offrono sia le Br, che fanno il contrario d’una lotta operaia di massa sia la risposta operaia, che le isola.

Le Br fanno il contrario d’una lotta operaia di massa. Anzi gli operai le isolano

Che cosa fa imbarazzata la replica comunista, che cosa ne spinge due esponenti ad attaccare più noi che Galloni? Indebolisce il Pci l’incertezza della sua collocazione nei confronti della democrazia cristiana.

Questa «lo fa codardo» rispetto al mio e suo album di famiglia, che è un album niente affatto da buttare.

In esso sta (e non potrebbe essere diversamente) il variare della stessa definizione del nemico storico che si oppone al partito comunista fin dalla rottura dell’unità antifascista, e la democrazia cristiana.

Nella quale esso vide, giustamente, il fronte principale, anche rispetto al fascismo.

COMPAGNO MACALUSO, prendiamo un anno qualsiasi della collezione di Rinascita, per esempio il 1952.

Siamo in piena restaurazione capitalistica. Chi la dirige? La dc. Siamo in piena guerra fredda. Chi ne è lo strumento in Italia? La dc. Siamo in pieno tentativo di mutare la rappresentatività popolare nel paese. Chi ordisce la legge truffa? La dc.

In quella fase si attenua la complessità del giudizio togliattiano su De Gasperi e la sua scelta «democratica».

Felice Platone scrive che la fascistizzazione del tempo nostro sta nel tipo di società americana, e in quel particolare unanimismo bloccato, e che «l’americanizzazione » della vita italiana è il vero veicolo d’un pericolo fascista, e il veicolo dell’americanizzazione è la dc.

Togliatti torna, a proposito di Gramsci, due mesi dopo sullo stesso giudizio: «Non nei gruppi che vivono di nostalgia» ma nel maggiore partito di governo sta il pericolo più grave, «nei rapporti sociali non svecchiati, nelle oligarchie economiche risorgenti e risorte, nella tracotanza dei ceti privilegiati, nella prepotenza e corruzione» che esso garantisce. Poco dopo, una risoluzione del Comitato centrale contro il totalitarismo clericale afferma che la dc vuole fondare «un vero e proprio regime totalitario, in connessione con manovre internazionali, appoggiandosi a forme di eccezionalità».

Gli esempi possono moltiplicarsi, ma a che vale? Vale chiedersi se quel giudizio, che forse appiattisce una ricerca iniziata durante e subito dopo la resistenza, è negli anni cinquanta giusto o sbagliato. E perché si forma.

È giusto, io credo, anche se si giovò di qualche forzatura nella propaganda e nella formazione dei quadri; la denuncia che il partito comunista faceva della dc, anche mettendo da parte l’interrogativo sulla sua natura «popolare» che pur anche allora esisteva, bloccò una svolta reazionaria nel paese e in qualche modo costrinse la stessa democrazia cristiana a quella sempre imperfetta scelta «democratica», che avrebbe fatto precipitare con la crisi prima del centrismo, poi di Fanfani, poi di Tambroni, tutte le contraddizioni interne d’una borghesia che in una società mutata e in mutati rapporti di forza cercava la sua espressione politica.

Senza questa denuncia il movimento delle masse sarebbe gravemente arretrato.

PERCHÉ TORTORELLA si giustifica: «Fummo settari, ma difendemmo sempre la costituzione»? Dovrebbe dire «Fummo settari perché dovemmo a tutti i costi e in condizioni internazionali terribili difendere la costituzione e impedire la sconfitta del movimento».

E Macaluso dovrebbe riproporre le pagine di questo album all’Unità: sono state ingiallite da una storia che il Pci ha potentemente contribuito a fare, mutando realtà e quindi schemi di interpretazione, una grande storia.

Il giudizio sulla dc che allora si venne formando non mutò finché non mutarono la fase internazionale e i rapporti di classe interni, nella seconda metà degli anni cinquanta.

Ancora nel 1956 – dove Ronchey collocherebbe, penso, l’abbandono del leninismo – il giudizio sulla dc così suona nelle Tesi: «Cedendo alla duplice pressione (dell’imperialismo e dell’unità delle classi abbienti, ndr) il partito democristiano, presentatosi all’inizio con un programma di rinnovamento, diventò lo strumento politico d’un piano di conservazione sociale all’interno e di asservimento a interessi stranieri in campo internazionale».

Anzi, allora «la democrazia cristiana diventa partito politico dirigente della borghesia».

Sono definizioni del 1956, quando si lancia la via italiana al socialismo. Che per la prima volta, contraddittoriamente all’affermazione sicuramente forzata d’una avvenuta «totale clericalizzazione della società», aggiunge la questione della dc come partito popolare, e vede in questa sua natura un principio di possibile squilibrio.

In verità, lo squilibrio sarebbe venuto dalla impossibilità della vecchia dc di integrare, nello sviluppo capitalistico, il movimento operaio italiano e da tutto il rinnovamento del quadro, e della strategia, che ne deriva agli inizi degli anni sessanta.

Allora, anzi, la questione della dc diventa un perno della discussione nel partito comunista, luogo dove si confronta una visione «democratico-laicista» e una visione di classe, che mette l’accento e sui soggetti di dominio di classe e sul tipo di aggregazione sociale che il partito cattolico rappresenta; e vede in questa aggregazione una specificità del «caso italiano», il luogo su cui passare per una ricostruzione del blocco storico.

TUTTO QUESTO, nel corsivo che ha suscitato tanti allarmi, lo abbiamo ricordato, ma sta scritto nei testi di anni recenti.

Perché così accesi nervosismi, nella dirigenza comunista, al solo ricordarlo?

Il fatto, ho scritto e ripeto, che quella fu l’ultima analisi seria della democrazia cristiana che il Pci abbia compiuta. Con la morte di Togliatti cessa.

L’ambiziosa operazione del compromesso storico è partita su concetti approssimativi (le grandi correnti, i grandi filoni) separata da un’analisi appena complessa della collocazione della democrazia cristiana nel contesto delle forze politiche borghesi, italiane e non, e della sua impossibilità a separarsi dal ruolo di «partito di fiducia della borghesia».

È PARSA VICINA a perderlo qualche anno fa, perché per un momento la borghesia ha puntato altrove; ma la conversione di tendenza s’è subito verificata. Quando già era tornata ad esserlo in modo inequivocabile e centrale il Pci è andato – in piena crisi – a un accordo politico con un corpo sociale, storico, ideologico, clientelare che non sa più bene come definire, se avversario o amico.

Che non sa «leggere» più. Che non analizza più. Che spera «diverso».

Questa debolezza presente gli fa scrollare violentemente la criniera di fronte al ricordo del passato, gli fa gridare «al terrorista» contro chiunque dica che, sì, la democrazia cristiana era ed è il partito della borghesia italiana e che il Pci, smettendo di dirlo, porta una responsabilità anche dell’oscurarsi del fronte di lotta, dell’intorbidarsi della vita politica.

Sono verità sgradevoli. Non è detto che, nei momenti difficili, bisogna astenersi dal dirle.

da «il manifesto» del 2 aprile 1978, ripubblicato sull’edizione in edicola il 17 marzo 2018

FONTE: Rossana Rossanda, IL MANIFESTO

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