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Berlinguer, ti volevo bene

FRANCESCO PICCOLO E LA PARABOLA TRISTE DI UNA SINISTRA PERDUTA. Esce “Il desiderio di essere come tutti” dello scrittore e sceneggiatore Un viaggio esistenziale lungo vent’anni negli errori della politica

FRANCESCO PICCOLO E LA PARABOLA TRISTE DI UNA SINISTRA PERDUTA. Esce “Il desiderio di essere come tutti” dello scrittore e sceneggiatore Un viaggio esistenziale lungo vent’anni negli errori della politica

Il libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come TUTTI, è un’autobiografia personale e politica degli ultimi quarant’anni. Quelli della nostra generazione: né giovani né vecchi, la generazione di mezzo. Racconta le illusioni, le debolezze, i dubbi, le felicità di tanti di noi arrivati dalla provincia, da famiglie di gente semplice, pieni di passioni da mettere in campo, gli occhi sgranati a guardare come funziona il mondo. Racconta le cose che abbiamo visto, dice di quel perpetuo senso di estraneità che ci portiamo appresso — ero comunista per mio padre, troppo borghese e superficiale per quelli che avrei voluto fossero i miei amici, troppo impegnato per i miei amici, scrive Piccolo — quell’essere sempre ospite ovunque, sempre dentro a metà. Eravamo ragazzini quando hanno rapito Moro, ragazzi il giorno dei funerali di Berlinguer.
Sentivamo senza saperlo che saremmo diventati adulti nell’epoca dell’Ormai: quando ormai essere comunisti non era più possibile, diceva Occhetto, ormai il progresso e la modernità non appartenevano più alla sinistra ma a nuove spregiudicate bande di attempati festaioli, ormai si doveva assistere al levarsi di scudi, alle opposte trincee in cui si veniva a forza spinti dall’avanzata del pensiero binario, sei maschilista o femminista, forcaiolo o garantista, indiano o cowboy e pazienza per la scomparsa di quel che è complesso e impossibile da dire in 32 secondi in tv, pazienza per lo sparire dei forse, parliamone. Infine era Ormai il tempo, per la sinistra, della minorità triste: il benessere nemico dell’etica (fai il comunista e vai a sciare, sei comunista e ti piacciono le collane), la messa al bando della felicità, roba di destra. Ormai non ci si poteva più sentire a casa in nessun posto, se non a casa nostra.
Dunque mentre racconta i vent’anni decisivi della nostra vita, dalla metà dei Settanta alla metà dei Novanta, e parla di sua madre di sua zia e del terremoto e del colera, Piccolo riscrive la storia politica di questo paese e la parabola triste di una sinistra perduta. La storia grande vista da un luogo periferico, dove sembrava che la storia non dovesse passare mai e invece eccola,
prende nota nel diario dei giorni: la lettura del libro di Camilla Cederna confidata sul letto allo zio Nino, la notizia del rapimento di Moro nello sguardo fiero della compagna di banco, il funerale di Berlinguer dalla porta chiusa della camera da letto del padre.
Momenti fissati da allora per sempre alla propria biografia, dunque al senso che per ciascuno di noi ha la storia. A quello che volevamo essere, a come siamo diventati. A come sono diventati gli altri tutto attorno a noi, quando e perché. I giornali, le sezioni, i circoli letterari e cinefili, per esempio, persino le piazze della sinistra che ammettono al loro interno solo propri simili, se possibile devoti e di qualcosa grati, non leali ma fedeli, voci e volti in grado di confermare, rispecchiare e ribadire l’opinione in quel momento dominante: la linea. Una sinistra così spaventata e spalle al mondo pullula di nemici, Piccolo è stato a lungo uno di loro e fa davvero sorridere il coro di lodi che oggi si leva all’autore da quegli stessi dirigenti di partito che fino a qualche anno fa, quando lo leggevano sull’Unità, protestavano indignati chiedendo la sua testa. D’altra parte così vanno le cose: bastava buttare un occhio giorni fa al parterre dell’ultima Leopolda di Renzi. Si cambia idea, no?, si sta dove conviene.
La caccia al nemico interno è stata del resto in questi anni il principale alleato della vocazione alla sconfitta, divenuta in qualche caso un auspicio. La sinistra «preferiva perdere», scrive Piccolo. A volte per astruso calcolo, altre per inerzia elitista: «Non bisognava trovare una soluzione ma tenere alta l’indignazione ». Lo dice usando il noi: noi, la sinistra. «Mai nessuno che metta in dubbio le idee, che si chieda se c’è qualcosa che non funziona, si domandi perché gli altri riescano a penetrare i desideri di una quantità di gente superiore alla nostra. Mai che andiamo a curiosare chi sono, cosa fanno, se nascondono una virtù che non abbiamo. Siamo assolutamente sicuri di aver ragione e che gli altri hanno torto, ma si ravvederanno».
È un libro, questo, che finge di tessere un elogio della superficialità — la vocazione al benessere che ti salva la vita, quel sentimento per cui tutto quello che succede nel mondo non sta succedendo proprio a te, puoi smettere la maschera del lutto, che sarà mai — mentre perora una causa impopolare e decisiva: quella della corresponsabilità. «Ho smesso di firmare qualsiasi appello così ho trovato il metodo concreto di ricordare a me stesso che io c’entro, che non sono innocente, che non posso tirarmi fuori. Che tutto quello che accade in Italia è anche un po’ colpa mia». E dunque non basta il sentimento etico e antipolitico da moralizzatori per sentirsi in salvo, non serve la presunzione di purezza e infine la violenza judoka di chi in perpetuo dice solo di no sottraendosi alle responsabilità della condivisione, guardatevi attorno e capirete di chi parla. Se è successo quel che è successo e siamo dove siamo è perché lo abbiamo lasciato succedere, perché non abbiamo offerto alternative credibili, perché abbiamo smesso i panni di Berlinguer quando diceva l’alternativa democratica è la condivisione dei rischi, è un compromesso ma è l’unica strada perché il progresso sia di tutti, di TUTTI, come diceva il titolo dell’Unità il giorno dei funerali di Berlinguer: dell’Italia intera non di una parte sola.
Mirabili le pagine sul sequestro Moro, sui guasti di fare pubblico ciò che è privato (a partire dalla lettera di Moro a Cossiga fino alle cronache e alle docufiction su Berlusconi) rendendo così inessenziale ciò che invece è decisivo. E poi, a cascata, il rinchiudersi a tutela della presunta purezza (Bertinotti che fa cadere Prodi), del potere come bene supremo (il governo di D’Alema con Cossiga, e il danno permanente che ne discende), il cinismo, la superiorità morale, il disprezzo degli altri, l’estraneità che ti fa sentire in salvo e invece ti «rende impermeabile alla conoscenza e senza conoscere le ragioni degli altri non si può combatterle». Ti rende migliore, pensi, e corresponsabile, invece. Al centro della scena sempre il circolo dei “giusti”, continuamente indotti ad estendere a chiunque il loro modo di pensare e probabilmente di agire. Qualunque cosa tu faccia è evidente che lo fai perché ti conviene: perché qualcuno ti paga, perché fai un favore a un amico, perché te ne verrà un tornaconto.
Poi ci sono zio Nino e zia Rosa, in questo libro. Vittorio Gassman nella Terrazza e quel racconto di Carver, Elena che ti ha lasciato il giorno di San Valentino perché le avevi regalato un peluche e Craxi del decreto di San Valentino, di nuovo, anche quella una fine, i fischi del palasport di Verona, la tracotanza di Craxi e Milan Kundera che, l’avesse saputo, parlava di Grillo. Ci sono un padre un po’ fascista e un soppalco un po’ abusivo, un po’ di Berlusconi dentro ciascuno: non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me. Ma poi siccome gli uomini delle caverne uscivano a rischiare la vita non solo per procacciarsi la carne da mangiare ma anche i coralli
per fare le collane ecco, qual è il momento esatto in cui uscire a cercare coralli è diventato una colpa? Perché se la sinistra non sa fare entrambe le cose, procurarsi cibo per sopravvivere e coralli per essere felice, «diventa elitaria e dispregiativa». L’Italia diventa un paese da cui andarsene per salvarsi e Francesco Piccolo un corpo estraneo da eliminare. «Ma io invece resto qui. Perché non mi voglio salvare », scrive in epilogo. In mezzo c’è tutto il resto. Tutti, anzi TUT-TI quanti noi. Tutti quanti voi, persino quelli che col sopracciglio alzato pensano di no.
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IL LIBRO
Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi, pagg. 272 18 euro)

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