Dormire una notte ad Auschwitz in compagnia delle anime morte

Venire qui e restare insonni è un omaggio alla memoria

Dalla finestra della stanza di Auschwitz, al primo piano dell’hotel Galicia, civettano le luci, appese a un albero, che disegnano i contorni di due renne mentre trainano una slitta senza guida e colma di doni immaginari.

Venire qui e restare insonni è un omaggio alla memoria

Dalla finestra della stanza di Auschwitz, al primo piano dell’hotel Galicia, civettano le luci, appese a un albero, che disegnano i contorni di due renne mentre trainano una slitta senza guida e colma di doni immaginari.

La radio alterna qualche pezzo metal con suadenti nenie natalizie, che provocano vampate di malinconia. All’ingresso del ristorante dell’albergo annunciano, fieramente, il menù che era stato preparato in onore del presidente francese Jacques Chirac, in visita nel 2005, e di quello polacco, Bronislaw Komorowski, ospite pochi mesi fa.
Sarà una suggestione, oppure l’effetto perverso di un’improvvisa ipersensibilità olfattiva, perché non può che essere così. Tuttavia le narici sembrano infastidite da un odore penetrante, persistente e sgradevole, che si diffonde nell’aria, di sera, persino negli ultimi chilometri prima dell’arrivo. Un odore, simile a quello della carne bruciata, che è stato descritto con puntigliosa potenza dai sopravvissuti che si sono salvati per caso nei campi di sterminio nazisti, a cominciare da Primo Levi.
Dormire ad Auschwitz, a poche centinaia di metri dal teatro dell’orrore, vuol dire trascorrere, praticamente insonni, le ore della notte in compagnia delle anime morte. Immaginare e ascoltare le loro sofferenze. Rendere un omaggio fraterno a quell’amica che si chiama memoria, e che molti vorrebbero cancellare. E poi collocare realmente, in un angolo d’inferno appena visitato, il racconto di una delle atrocità subite da chi è stato in grado di sopravvivere alla Shoah, e che le ha potute raccontare. Aver camminato sul binario morto che raggiunge la quasi adiacente ma ancor più sinistra Birkenau, provoca sempre uno choc che è difficile descrivere. È come se si udissero, tutte assieme, spinte e amplificate dalla gelida brezza della sera, le voci e i lamenti dei bimbi scaricati dai treni. Bimbi provenienti da Paesi diversi, che parlavano lingue diverse, ma che sembravano indistinguibili. Quelle grida disperate: «Mamma!», «Papà!» , «Nonno!». «Non vi vedo più!». «Non abbandonatemi!», non hanno bisogno di traduzione nè di spiegazione.
Eppure Auschwitz, in queste feste natalizie, sembra persino un nome meno angosciante. Anche perché i suoi abitanti si riparano sempre, cercando protezione, dietro il nome polacco della città: Oswiecim. Un nome che, fuori dalla Polonia, pochi conoscono. Un nome che non fa paura. «Che si parli solo di Auschwitz come città della morte ci fa male», dicono. Oggi, quella che un tempo era poco più grande di un robusto villaggio di provincia, conta 45.000 abitanti e un’importante industria di prodotti chimici. Esiste però il nobile turismo della sofferenza, il convinto tributo alla memoria. In questo caso, però, gli abitanti di Oswiecim sono quasi costretti ad essere grati alla traduzione del nome in tedesco, appunto Auschwitz. Non possono ignorarne la storia incancellabile, anche se è la pagina infame di una delle tragedie più orrende dell’umanità.
Un navigato autista racconta: «Tanti vengono a dormire per una notte, e non tornano più». È comprensibile. Dormire in compagnia delle anime morte non è una prova facile da superare. Eppure, Oswiecim vive con orgoglio tutto polacco, cercando di non lasciarsi schiacciare dal macigno del suo passato. Sabato sera, alla discoteca Ukkad (vuol dire «patto»), in una viuzza assai poco glamour che ricorda certi locali dell’Est europeo ai tempi del comunismo, i ragazzi ballano seguendo il ritmo di una musica ossessiva, bevono birra, flirtano e tirano tardi, come dappertutto.
In questo inverno natalizio di Auschwitz, che non ha ancora conosciuto stabilmente le temperature polari di stagione, altre migliaia di turisti della memoria, pronti a testimoniare il loro dolore, si incolonneranno anche oggi di fronte all’ingresso dell’inferno. Di sicuro non saranno molti coloro che si fermeranno in città per scoprire che, alla fine, «la vita vince sempre», persino davanti alle prove della più feroce banalità dell’orrore .

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