Polemiche. Le reazioni al dialogo tra Ignacio Ramonet e Fidel Castro pubblicato dal manifesto, a cominciare da quella di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, dimostrano che le analisi di chi attacca, per dirla con Obama, non sono affatto «creative»
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Discutere su Cuba si può?

Polemiche. Le reazioni al dialogo tra Ignacio Ramonet e Fidel Castro pubblicato dal manifesto, a cominciare da quella di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, dimostrano che le analisi di chi attacca, per dirla con Obama, non sono affatto «creative»

Polemiche. Le reazioni al dialogo tra Ignacio Ramonet e Fidel Castro pubblicato dal manifesto, a cominciare da quella di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, dimostrano che le analisi di chi attacca, per dirla con Obama, non sono affatto «creative»

Nel 2014 si può discu­tere di Cuba senza cadere nel clima da derby Roma-Lazio? Dimo­stra quanto sia dif­fi­cile farlo un arti­colo di Pier­luigi Bat­ti­sta, sul Cor­riere della Sera di ieri, par­ti­co­lar­mente vele­noso con­tro Igna­cio Ramo­net per una con­ver­sa­zione con Fidel Castro ospi­tata da que­sto gior­nale e con­tro il mani­fe­sto per le sue con­trad­dit­to­rie posi­zioni su Cuba.

Lasciamo da parte con­si­de­ra­zioni di tipo gior­na­li­stico (scor­rete goo­gle e vedrete che di quella con­ver­sa­zione Ramonet-Castro si è par­lato da Mel­bourne a Ber­lino e quindi pub­bli­carla è un ser­vi­zio offerto ai let­tori che pos­sono giu­di­care domande e rispo­ste). Andiamo al noc­ciolo poli­tico. Capita spesso di essere schiac­ciati tra inneg­gianti al castri­smo che non vogliono vedere – per citare solo epi­sodi recenti – le con­danne a morte del 2003, il dis­si­dente Orlando Zapata Tamayo morto nel 2010 a causa di uno scio­pero della fame, i limiti di una espe­rienza sto­rica e chi invece pre­dica più duri accer­chia­menti poli­tici ed eco­no­mici che finora non hanno dato i risul­tati spe­rati. Ha scritto Eduardo Galeano: quando si parla di quell’isola, Cuba fa male sia a chi ha cre­duto all’utopia del socia­li­smo, sia a chi – in un mondo total­mente mutato dal 1959, anno della rivo­lu­zione cubana, e dal 1989, quando cadde il Muro di Ber­lino – vede che quell’esperienza non si cancella.

Lo scorso10 dicem­bre c’è stata una stretta di mano tra Barack Obama e Raúl Castro a Johan­ne­sburg, occa­sione i fune­rali di Nel­son Man­dela. L’immagine ha fatto il giro del mondo. Un mese prima Obama si era recato a Miami con l’obiettivo di fare il punto sul «caso Cuba» che dal 1959 costi­tui­sce un pro­blema da cui gli Stati Uniti non rie­scono a venire a capo. In quell’occasione ha pro­nun­ciato frasi non di cir­co­stanza: «Tenete in con­si­de­ra­zione che quando Castro andò al potere io ero appena nato, per cui non ha senso che le stesse poli­ti­che del 1961 siano valide ancora oggi nell’età di Inter­net e Goo­gle». Annun­ciando novità nelle rela­zioni verso l’isola, il pre­si­dente sta­tu­ni­tense ha con­cluso: «Dob­biamo mostrarci crea­tivi e pon­de­rati, con­ti­nuando ad aggior­nare la nostra politica».

La stampa inter­na­zio­nale ha inter­pre­tato quelle parole di Obama come l’annuncio del pos­si­bile annul­la­mento in tempi ragio­ne­voli dell’embargo eco­no­mico verso Cuba in vigore dal lon­ta­nis­simo 1962. A pro­po­sito di embargo, il 29 otto­bre gli Stati Uniti hanno intanto rice­vuto l’ennesimo segnale poli­tico dall’Assemblea delle Nazioni unite: 188 voti a favore della mozione che pro­po­neva la fine delle misure di discri­mi­na­zione eco­no­mica, 2 voti con­trari e 3 asten­sioni. È la ven­ti­due­sima volta che l’Onu si espime con­tro il blo­queo. Unico paese a votare insieme agli Stati Uniti è stato Israele. I tre aste­nuti occorre cer­carli con la lente d’ingrandimento sul map­pa­mondo: Palau, Micro­ne­sia, Isole Mar­shall. Tutto que­sto non è «una logora pel­li­cola del pas­sato», per citare Bat­ti­sta: è quello che accade nei nostri giorni intorno a Cuba.

Tor­nando al viag­gio di Obama a Miami, erano pre­senti all’incontro con il pre­si­dente sta­tu­ni­tense Berta Soler, lea­der del gruppo delle Dame in bianco (le mogli e le parenti dei dete­nuti poli­tici), e Guil­lermo Fariñas, famoso per alcuni scio­peri della fame in nome dei diritti umani e Pre­mio Sakha­rov 2010 rice­vuto da parte del Par­la­mento euro­peo a Bru­xel­les. Va sot­to­li­neato che sia Soler, sia Fariñas risie­dono a Cuba: quindi, hanno rice­vuto un visto per lasciare l’isola e farvi ritorno. Se ne deduce che al dia­logo con Washing­ton non sono disin­te­res­sate le auto­rità dell’Avana.

Il discorso di Obama a Miami non è l’unico segnale di disgelo.A set­tem­bre 2013 le rispet­tive diplo­ma­zie si erano incon­trate per ripri­sti­nare «la comu­ni­ca­zione postale diretta» inter­rotta – pen­sate un po’ – dal 1963: let­tere e pac­chi, nelle due dire­zioni, pas­sa­vano dal Canada prima di andare a desti­na­zione. In pre­ce­denza, l’amministrazione Obama aveva fatto ripar­tire il dia­logo sui flussi migra­tori che si era spez­zato nel 2011. Merito di Obama è anche aver can­cel­lato alcune norme volute dal suo pre­de­ces­sore George Bush junior che limi­ta­vano i viaggi a Cuba dei cuba­noa­me­ri­cani e gli invii di denaro alle fami­glie di ori­gine. L’Avana è ormai piena di turi­sti ame­ri­cani che aggi­rano l’embargo aereo via Gia­maica o Messico.

Cuba, a sua volta, non sta ferma. Almeno sul ver­sante eco­no­mico. Alcune libe­ra­liz­za­zioni avan­zano, sep­pure non a ritmo di salsa. Sareb­bero oltre 500 mila i lavo­ra­tori por cuenta pro­pia (cioè, non dipen­denti dello Stato) nei set­tori dell’artigianato e dei ser­vizi incen­ti­vati dal governo. Il loro numero cre­sce perio­di­ca­mente. Aziende pub­bli­che e coo­pe­ra­tive pos­sono fal­lire, se i loro bilanci risul­tano in defi­cit men­tre se pro­du­cono gua­da­gni pos­sono assu­mere e aumen­tare le retri­bu­zioni dei pro­pri dipen­denti (il socia­li­smo tutto sta­ta­liz­zato del pas­sato non con­tem­plava com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che). Regi­sti, musi­ci­sti, can­tanti e ope­ra­tori cul­tu­rali pos­sono assu­mere col­la­bo­ra­tori senza la media­zione di enti sta­tali. Mossa posi­tiva pure in campo spor­tivo: via libera agli atleti che vogliono diven­tare pro­fes­sio­ni­sti all’estero alla sola con­di­zione che paghino le tasse a Cuba. Ancora: il pre­si­dente Raúl Castro ha annun­ciato a metà otto­bre l’avvio del pro­cesso eco­no­mico che por­terà al supe­ra­mento del sistema della dop­pia moneta in vigore sull’isola dal 1994 (peso e dol­laro prima, peso e peso con­ver­ti­bile negli ultimi anni). Cuba acce­lera dun­que i pro­pri cam­bia­menti eco­no­mici men­tre resta timida sul fronte poli­tico. Gli ana­li­sti sta­tu­ni­tensi par­lano di «modello cinese in minia­tura»: eco­no­mia mista che con­vive con il potere poli­tico cen­tra­liz­zato nel ten­ta­tivo di non fare la fine dell’Urss di Mikhail Gorbaciov.

Altra que­stione. Sono pas­sati più di 50 anni dall’avvio dell’embargo di Washing­ton con­tro l’isola. Ne sono pas­sati 24 dal crollo del Muro di Ber­lino e dall’avvio della fine dei cosid­detti «paesi del socia­li­smo reale». E ne sono pas­sati 7 da quando Fidel Castro non dirige più la poli­tica cubana in prima per­sona. Pos­si­bile cre­dere che siamo ancora qui a par­lare di Cuba e del suo destino solo per­ché – come scrive Bat­ti­sta – è «una pri­gione a cielo aperto»? L’analisi andrebbe raf­fi­nata e biso­gne­rebbe capire le tante ragioni che stanno die­tro la «resi­stenza» cubana (da una rivo­lu­zione non impor­tata al nazio­na­li­smo anti-Usa, dalla nebu­losa pro­spet­tiva di diven­tare pro­tet­to­rato degli Stati Uniti al dato di fatto che è dif­fi­cile can­cel­lare nel bene e nel male mezzo secolo di sto­ria). Come canta il can­tau­tore ava­nero Pablo Mila­nes, «Cuba non è una società per­fetta ed è piena di con­trad­di­zioni». Non è il Para­diso e nep­pure l’Inferno.

Bat­ti­sta ha infine l’indice pun­tato con­tro il mani­fe­sto e la sua posi­zione con­trad­dit­to­ria verso Cuba. Per que­sto, cita gli arti­coli seve­ris­simi di K.S. Karol (il suo libro La guer­ri­glia al potere è uno straor­di­na­rio repor­tage datato 1970) e noi potremmo ricor­dare quelli non meno cri­tici di Ros­sana Ros­sanda. Cuba si era incam­mi­nata negli anni set­tanta in un cieco filo­so­vie­ti­smo di soprav­vi­venza per­dendo le pro­prie pecu­lia­rità: giu­sto tagliare i ponti allora. Dopo il 1989, siamo tor­nati a inter­ro­garci sul per­ché a L’Avana non acca­deva quello che era capi­tato nelle altre capi­tali dell’Est. Se su que­sto gior­nale sono usciti acri­tici inni al castri­smo, non reca­vano certo la firma di Mau­ri­zio Mat­teuzzi, o mia o di Roberto Livi che oggi è cor­ri­spon­dente del mani­fe­sto a L’Avana. Abbiamo sem­pre cer­cato di ragio­nare e di sot­trarci al clima da sta­dio. Quanto alla cri­tica al «socia­li­smo reale», que­sta è stata una delle ragioni ori­gi­na­rie della nascita del mani­fe­sto nel 1969 a cui non siamo mai venuti meno.

Scrive Galeano in modo effi­cace: «I fatti dimo­strano che l’apertura demo­cra­tica è, più che mai, impre­scin­di­bile. Devono essere i cubani, e solo loro, senza che nes­suno vada a met­terci mano dall’esterno, ad aprire nuovi spazi demo­cra­tici e a con­qui­stare le libertà che man­cano, all’interno della rivo­lu­zione che loro hanno fatto». Un auspi­cio illu­so­rio? Chissà. Ma l’alternativa è un impre­ve­di­bile redde ratio­nem dal sapore di guerra civile che non auspica chi vuole bene a Cuba, alla sua gente, alla sua cul­tura. Non lo auspica nem­meno Washington.

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