I fratelli Dardenne

L’Italia ha i Taviani, l’America i Coen, il Belgio ha loro, Jean-Pierre, sessantatré anni, e Luc, sessanta: “In patria ormai ci chiamano les frères , il cognome è superfluo”. Registi, sceneggiatori, produttori di se stessi, sono una delle coppie più impegnate del cinema europeo. “Siamo cresciuti nella periferia industriale più plumbea della Vallonia, un posto pieno di povertà, senza né sole né effervescenze”.
Poi, von il successo del primo film ( La promesse , 1996), è arrivata anche la loro condanna definitiva: “Da allora in poi siamo stati costretti a fare solo film d’autore. Insomma, il panico”
PARIGI. UN CAPOLAVORO OGNI TRE ANNI, dal 1996 a oggi. Ogni volta, trionfo a Cannes o nei media. In diciotto anni, sette tasselli di cinema straordinario, nati da una minuziosa, paziente pratica artigiana e da un’ostinata, silenziosa coerenza civile. Cinema a quattro mani, o a sguardo raddoppiato: frutto di regia unica moltiplicata per due, laboratorio gemello di due fratelli, gli indivisibili frères Dardenne. L’Italia ha i Taviani, l’America i Coen e i Wachowski (ora fratello e sorella). Il Belgio è tornato cinema internazionale con i registi-sceneggiatori-produttori Dardenne, Jean-Pierre, sessantatré anni, e Luc, sessanta, due facce intelligenti e due cuori pensosi, che con autoironia segnalano di non essere gli unici frères belgi di fama planetaria: «Siamo in concorrenza con i due Saive, campioni del ping-pong, con la coppia comica dei Taloche e con il trio Borlée dei 4×400. Poi certo, in patria ci chiamano les frères , epiteto familiare e rispettoso che rende superfluo il nostro cognome », precisa Jean-Pierre, mentre Luc insiste sulle adiacenze identitarie: «Ormai mi salutano con “Buongiorno, frère Dardenne”. Frère è diventato nome proprio, senza più distinguo».
Si respira subito aria di famiglia in ogni incontro con i due registi, cui la Cinémathèque Française de Paris ha dedicato una personale completa,seguitissima dai giovani. Tra documentari e corti, i magnifici sette: La promesse ( 1996), rivolta d’un figlio contro il padre, responsabile di una “morte bianca”; Rosetta ( 1999), la cinepresa ossessiva, impietosa, sempre addosso alla ragazzina in fuga dalla miseria, fino allo straziante suicidio mancato per le bombole senza più gas (i poveri non possono nemmeno permettersi il lusso d’uccidersi); Il figlio ( 2002), altro choc d’umanità (un padre che assume in prova il ragazzo che gli ha ucciso il bambino); L’Enfant — Una storia d’amore ( 2005) sul figlio che diventa merce di sopravvivenza d’una giovane coppia; fino a Il matrimonio di Lorna ( 2008), Il ragazzo con la bicicletta ( 2011) e Due giorni, una notte , nominato ai Lumières (i Golden Globes francesi) con la Sandra di Marion Cotillard — in corsa per gli Oscar — che potrebbe essere Rosetta quindici anni dopo. Figli che tornano, ci interrogano, si riproducono e ci interrogano di nuovo, nel cinema dei Dardenne: e i Dardenne che figli sono stati? «Siamo cresciuti in Belgio nella banlieue industriale di Seraing, in Vallonia», spiega Jean-Pierre. «Il nostro cinema si è radicato in questa regione d’infanzia, data la nostra volontà di filmare sempre “il qui”, l’ ici ». «Siamo figli di Lucien e Marie-Josée Dardenne», interviene Luc, «sempre vissuti a Engis, la cintura metropolitana più inquinata d’Europa. Negli anni Trenta tre persone vi sono morte intossicate. Sartre in Critique de la raison dialectique ne fa l’emblema delle contraddizioni del capitalismo ». Come siete diventati fratelli di cinema? «È successo dopo i nostri studi — io in arte drammatica, Luc in filosofia, dal ‘74 al ‘77 — quando abbiamo cominciato a girare video militanti e di pronto intervento nelle città operaie, autofinanziati con guadagni occasionali. Fin da allora, la nostra ambizione era di combinare asperità sociale e maestà del cinema, due linee-guida che ci hanno sempre appassionato». Prima però è venuto il teatro: «Sì», risponde Luc, «con il regista e poeta engagé Armand Gatti, al tempo degli studi d’arte drammatica di Jean-Pierre a Bruxelles. Un incontro fondamentale, l’inizio della nostra collaborazione: prima assistenti nelle messinscene di La Colonne Durutti e L’Arche d’Adelin, poi nell’81 nel film Nous étions tous des noms d’arbres. I primi passi verso una vita di cinema a due, cioè di terrore». Terrore? «Sì», continua Luc, «quando ci siamo resi conto, diciott’anni fa con La promesse, di essere diventati cineasti, siamo stati presi dal panico. Attenzione, ci siamo detti, il piacere è finito: da adesso è cinema. Fino a quel momento, ci eravamo divertiti tra teatro filmato e documentari d’impegno. Il successo di La promesse è stato anche la nostra condanna: d’ora in poi solo film d’autore, e guai a sbagliare! Il set sarebbe diventato un obbligo: con paura annessa». Come avete recuperato il piacere, “costretti” a un destino di cineasti, per di più di successo e, subito, di culto? «La soluzione è venuta da sé», spiega Jean-Pierre, «rimanendo in famiglia. Restando sui luoghi conosciuti. Lavorando con gli amici. Il segreto è stato quello di non avere l’impressione di aver cambiato vita, di dover lavorare. Questo ha portato anche a scelte di stile, a rafforzare un metodo, poi letto dai critici come un’ estetica: dialoghi all’essenziale, più spazio al caso, lasciando entrare i rumori della città, senza cancellarli ma parlandoci sopra, alzando il tono di voce, quando irrompono inattesi. Insomma, un cinema che non confezioni esseri umani ma che aiuti a farli esistere come sono, restituendo loro una vita che sta svanendo in ombra».
Giuseppe Tornatore ricorda che, nel cinema, più si è capaci di scavare e rivelare il “particulare”, più si diventa universali: un paesino di Sicilia, ben ascoltato, parla a tutto il mondo. Lo stesso principio nutre, oltre che il cinema dei Dardenne, il volume di Luc, Sur l’affaire humaine, edito da Seuil tre anni fa: «La nostra Bagherìa è stata Seraing», conferma l’autore, «plumbea periferia belga, cinquanta chilometri attorno a Liegi, senza sole né effervescenze del Sud, ma forse con la stessa malinconia di separatezza e d’esilio». «Perché, da quando facciamo cinema, concentrarci sull’ ici? » interviene il fratello. «Perché il nostro cinema è nato qui. È di questo che vogliamo parlare: di Seraing, della nostra infanzia, della nostra adolescenza, dei paesaggi di quegli anni. Noi siamo quei luoghi, quegli anni. Anche il nostro prossimo film sarà ancora ici, a Seraing». Una resurrezione perpetua dello stesso luogo, della stessa storia, dello stesso figlio? «Sì, ma niente serial», precisa Luc, «un nuovo film rappresenta sempre una scommessa nuova. Con i personaggi, con la storia, con il cinema. Ci facciamo sempre un obbligo che gli interpreti, esordienti o già esperti, trovino per i loro personaggi attitudini, gesti, intonazioni vergini, indipendenti da qualsiasi lezione, da qualsiasi modello. Ogni volta una prima volta. La sfida riguarda pure noi due. Ogni sequenza è per noi una prova sportiva: riusciremo mai a farne qualcosa di vivo?». «È come tentare un nuovo record», rincalza Jean-Pierre, «ricondurre l’agonismo a una ritrovata primordialità: nella ripetizione di gesti, misure, tempi ormai registrati e maturati, conquistare l’attimo d’uno strappo ulteriore, regalarsi una sorpresa originaria».
Registi come trapezisti, ripetono spesso: «Il film che si gira è sempre suspense da un ciak all’altro, è fiato sospeso, una ginnastica emotiva che cadenza le riprese», conferma Jean-Pierre. «La sequenza eletta risulta dalla stratificazione di prove infinite, è il fiore improvviso dell’ennesimo ciak: una media di cinquanta- ottanta in Due giorni, una notte ». «Marion Cotillard ne è uscita spossata», sorride Luc, «cinquantatré giorni per le riprese, ma dopo un mese e mezzo di prove con noi e gli altri interpreti. Tour de force inconcepibili per gli attuali sistemi di produzione: noi ce li possiamo permettere perché da sempre siamo i produttori di noi stessi».
C’è chi vede nella dualità anche una garanzia produttiva contro imprevisti o infortuni. Del tipo: se uno si ammala, può continuare l’altro. «Non è così», smentisce Luc, «tra noi non c’è solidarietà di staffetta, ma una complementarità che scatta quando ci ritroviamo insieme al lavoro. Per il resto, le nostre esistenze rimangono ben distinte, se si esclude che siamo tifosi della stessa squadra di calcio, lo Standard di Liegi». «Viviamo anche in due città diverse», conclude Jean-Pierre, «io a Bruxelles, Luc a Liegi. Solo nella fase delle prove e poi delle riprese siamo inseparabili. Lo sguardo che uno ha sul film non potrebbe esistere senza lo sguardo dell’altro».
MARIO SERENELLINI, la Repubblica

You may also like

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password