Imprenditore di te stesso, la politica non serve

L’analisi. Nella lunga crisi della politica, in Italia come anche in Europa, emerge al centro della scena la razionalità neoliberista, quella che Dardot e Larval chiamano «la nuova ragione del mondo». Una post democrazia fondata sull’inedita dialettica tra élite e populismo, una trasfigurazione della lotta di classe

In un recente articolo (il manifesto, 1 agosto 2016),Valentino Parlato, con rigorosa tenacia, auspicava che il giornale offrisse gli strumenti per uscire dall’«attuale passività»(figlia di una formidabile, pervasiva morte della politica), sollecitando una discussione capace di mobilitare e di aprire una battaglia culturale e politica. Si richiamava una diagnosi di Alberto Burgio, secondo cui la scomparsa della politica è dovuta al suo essere ridotta a pura – e perciò cattiva – «amministrazione dell’esistente». Lo spietato confronto col passato (nel quale «c’erano il Pci di Togliatti, il Psi di Nenni, il Pri di La Malfa e anche la Dc di De Gasperi» e nel quale «anche Tv, stampa quotidiana e pure l’editoria» contribuivano in varia misura alla «vitalità della politica») non voleva avere alcun effetto nostalgico, ma stimolare ancor più l’analisi critica del presente.

Questo presente viene da lontano, almeno dagli ultimi trenta anni: dai dettami della Commissione Trilaterale, la «mega-macchina» del capitalismo finanziario (Gallino) si è andata costituendo su una sapiente e insieme brutale divaricazione tra capitalismo e democrazia, tra capitalismo e politica, intesa come democrazia, possibilità delle classi popolari e delle forze antagoniste di partecipare alla lotta per la formazione delle decisioni pubbliche. E’ qui che si colloca anche la crisi radicale dei processi di costituzione politica della soggettività, in un mix micidiale di frammentazione e di omologazione. E’ qui che prende corpo e si dispiega la logica pervasiva della governance come amministrazione tecnica e separata dell’esistente (in Italia il craxismo ha svolto uno specifico ruolo propulsore dell’ideologia della cosiddetta governabilità).

A ben guardare, la logica della governance europea degli ultimi decenni ha posto in essere una serie di tecnologie e di dispositivi (la cosiddetta «disciplina dei mercati») tali da erodere e annichilire progressivamente la logica della rappresentanza: con effetti diffusi di spoliticizzazione e di passivizzazione. Gilbert Larochelle, in L’immaginaire technocratique, scriveva appunto nel 1990: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la téchne è legge e dove sentinelle, dalle torri di guardia, vegliano e sorvegliano. Il maggior benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso».

Si può dire che Syriza, Tsipras, il popolo greco hanno disvelato il carattere totalitario dell’Unione europea, il suo configurarsi come una vera e propria «gabbia d’acciaio», rispetto alla quale la crescente impotenza del governo greco, comunque la si declini, continua a commuovere ma anche a fare sgomento.

Siamo, almeno dagli anni Ottanta, di fronte alla destrutturazione pervasiva della forma della politica, con i connessi fenomeni che Rodotà ha chiamato della tecno-politica o anche della iperdemocrazia, termine ricavato da La ribellione delle masse di Ortega y Gasset a indicare il carattere tecnologico-plebiscitario della “democrazia” post-moderna. Tutto ciò si accompagna a processi di profonda metamorfosi antropologica, di cui Guido Mazzoni (nel suo recente volume I destini generali) fornisce scorci significativi: «Oggi nessun occidentale si aspetta qualcosa di decisivo dalla politica, i grandi avvenimenti sono vissuti come astrazioni, meccanismi o spettacoli e tutto quello che interessa, a cominciare dai conflitti etici fra legami e piacere, si gioca nel tempo presente e nello spazio del privato».

In sostanza, risulta necessaria un’attenzione specifica a quella che Dardot e Laval chiamano «la nuova ragione del mondo», in riferimento alla «razionalità neoliberista»: la quale (secondo le indicazioni di Foucault) si può definire una razionalità propriamente governamentale, capace di produrre –governare condotte e comportamenti degli individui. Come è stato osservato, si passa dalla libertà di agire (laissez faire) alla libertà di scelta: è in questo passaggio che si attua in profondità la mutazione dal liberismo classico al neo-liberismo contemporaneo. Il singolo è imprenditore di se stesso, del proprio “capitale umano”, e insieme diviso in un numero svariato di sé, all’interno di una società dello spettacolo giunta ad un suo stadio estremo (ben al di là della stessa diagnosi di Guy Debord).

Va anche tenuto presente – a me pare – che sono in atto da circa venti anni processi di ristrutturazione dell’istituzione universitaria (ma si può dire anche le scuole) come aziende volte a formare soggetti, prodotti per un mercato che a sua volta dovrebbe essere capace di assorbirne le nuove caratteristiche e i nuovi profili (ottimo il recente lavoro di Federico Bertoni). Quei processi hanno come supporto la fanfara ideologica della meritocrazia (vera e propria maschera culturale delle disuguaglianze di classe) e, in connessione, quello che è stato definito il dispositivo governamentale della valutazione, operante a tutti i livelli e organico alla narrazione più generale della egemonia neo-liberista. L’intreccio di merito, eccellenza, valutazione poggia su un’idea di fondo (come ha osservato Fredric Jameson) «the market is in human nature», il mercato è nella natura dell’individuo.

Nel suo articolo Valentino Parlato metteva l’accento anche sulla morte della cultura, come forza critica, come sapere critico; giacché invece la cultura dominante si identifica oggi in un mix formidabile di autogoverno corporativo degli specialismi e di cultura-spettacolo.

In generale, si può parlare, gramscianamente, di una forma nuova, inedita, di rivoluzione passiva: entro cui la lotta di classe tende ad essere trasfigurata (se non immunizzata) in una inedita dialettica alto-basso, tra un alto separato ed oligarchico e un basso affollato di rivolte e di populismi di vario segno, mentre le forme-sindacato e le forme-partito appaiono prive di incidenza e significazione reale.

Nel cuore degli anni Trenta, quando Gramsci elaborava la sua categoria di rivoluzione passiva, ne sottolineava «l’utilità» e il «pericolo»:«Pericolo di disfattismo storico, cioè di indifferentismo, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc; ma la concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente».

Dunque solo un’analisi attenta e molecolare dell’attuale rivoluzione passiva (che, certo, nelle sue forme inedite di fatto funziona come una formidabile controffensiva) può aprire la via alla costruzione di «un’antitesi vigorosa». Il che vuol dire – sia detto per inciso – che problemi come quello del soggetto politico, ovvero del soggetto unitario della sinistra non sono scindibili da questo contesto di fondo: non possono annegare in questo contesto, ma nemmeno possono prescinderne. Altrimenti la deriva organizzativistica, pur cacciata dalla porta, rischia di rientrare da qualche finestra.

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