Mumia Abu-Jamal, una black panther «da sorvegliare e rinchiudere»

MUMIA ABU-JAMAL. Il suo libro, uscito per Mimesis, narra l’esperienza nel Black Panther Party e le battaglie della comunità nera

A fine aprile, davanti al tribunale di Philadelphia, ci sarà una manifestazione per chiedere la sua libertà. In carcere da 36 anni, il giornalista, scrittore e attivista è diventato un simbolo della resistenza

Uno dei suoi primi incontri con i difensori della legge, il quindicenne Wesley Cook, l’ebbe nella contea di Alameda nel 1969 dove stava vendendo a un angolo di strada il giornale Black Panther con l’amica Sheila e venne arrestato dalla polizia locale per vagabondaggio, per aver attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali. Fu scarcerato in poche settimane tuttavia il giovane responsabile dell’informazione e della propaganda della sezione di Philadelphia cominciò a scrivere volantini, fare telefonate, raccontare le attività quotidiane del Partito delle Pantere Nere e divenne col tempo un apprezzato reporter.

«IL MIO LAVORO è il giornalismo, inteso in un’ottica nera e rivoluzionaria. Scrivere della nostra gente senza censura, dare voce ai senzavoce», così dice Mumia Abu-Jamal, il nome swahili che Cook si è scelto a fine anni ’60, vincitore di prestigiosi premi di giornalismo eppure emarginato dai media della sua città per le scelte radicali (non accetta di tagliarsi i dreadlocks e neppure le versioni ufficiali sullo sgombero della comunità Move), tanto da dover iniziare a fare il taxista notturno per mandare avanti la famiglia.
Il 9 dicembre 1981 Abu-Jamal venne gravemente ferito nel corso di una sparatoria nel quartiere sud di Philadelphia, dove aveva accompagnato un cliente, stesso luogo dove viene ucciso il poliziotto Daniel Faulkner. Mumia fu accusato del suo omicidio e condannato alla pena di morte poi tramutata in ergastolo, sebbene si sia sempre dichiarato innocente. Molte ombre circondano quel verdetto, pronunciato da una giuria tutta di bianchi, basato su indagini farraginose con testimoni oculari, balistica e confessioni difettose, accettate della polizia che l’aveva già schedato «come persona da sorvegliare e rinchiudere».

A fine aprile, davanti al tribunale di Philadelphia, ci sarà una manifestazione per chiedere la libertà di Mumia Abu-Jamal, il giornalista, scrittore e attivista afroamericano incarcerato da 36 anni, in precarie condizioni di salute, diventato un caso giudiziario controverso e un simbolo della resistenza al potere e della campagna contro la pena di morte, e di altri prigionieri politici. In questi giorni è stato pubblicato, per la prima volta in Italia, Vogliamo la libertà (Mimesis edizioni, pp.226, euro 18) il suo libro che mette insieme l’esperienza personale nel Black Panther Party e la storia delle battaglie della comunità nera sul territorio americano, scritto nel 2004 e ripubblicato negli States nel 2016, una narrazione molto documentata sull’esperienza delle Pantere Nere nella società statunitense, collocate nella storica resistenza alla riduzione in schiavitù dei neri africani, fin dalla prima sommossa del 1526. «Vogliamo la libertà. Vogliamo il potere di decidere il destino della nostra comunità nera» era il primo punto della piattaforma Ten Point Program del Partito delle Pantere Nere, fondato nell’ottobre 1966 a Oakland, in California, da due studenti, Bobby Seale e Huey Newton, con l’idea di formare un’organizzazione per l’autodifesa e la protezione della comunità nera, ispirati delle idee rivoluzionarie di Malcolm X ma decisi a puntare forte sulla gerarchia militare (ogni sezione aveva l’ufficiale di giornata e un’agenda da compiere), sulla disciplina e sulla matrice comunitaria del movimento di liberazione afro-americano.

Da subito segnarono una profonda rottura verso il movimento dei diritti civili e la pratica della non-violenza, sottolineando il passaggio dalla ribellione dei negroes alla crescita della coscienza dei black men. Ben sintetizzata dall’immagine mondiale del pugno chiuso nero, levato in alto, da Tommie Smith e John Carlos, medaglie olimpiche nei 200 metri, sul podio della premiazione a Mexico 68. Oggi il gesto è mettere il ginocchio a terra, durante l’inno, inventato dal quarterback dei 49ers, Colin Kaepernick, per denunciare l’uccisione di ragazzi neri inermi.

IL NOME VENNE da un opuscolo sulla registrazione al voto nel Mississippi della Lowndes County Freedom Organization che aveva per simbolo una pantera nera, la cornice ideologica dalla lettura di Fanon, Lenin, Mao, Du Bois, Marx e altri col riconoscimento dell’importanza delle lotte internazionali anticolonialiste e antiimperialiste per il destino dei neri statunitensi. Un anno dopo la rivolta di Watts, il ghetto di Los Angeles che bruciò per 5 giorni nell’agosto 1965, scontri innescati dalle violenze della polizia e terminata con l’arresto di quattromila persone, emerse il Black Panther Party come risposta alla violenza di massa perpetrata contro i neri e per incanalare la rabbia popolare in un movimento ben organizzato. Un’azione che gli diede subito il favore della comunità erano le pattuglie armate per controllare la polizia.

I SUOI COMPONENTI erano provvisti con armi cariche, macchine fotografiche, registratori e codici di legge (suggeriti da Newton che aveva studiato diritto penale) e intendevano osservare i fermi e gli arresti delle forze dell’ordine. Basco nero in testa, uniforme con giubbotto di pelle e pantalone, cartuccera a tracolla e fucile in bella evidenza, le Pantere Nere erano l’immagine ribelle e vincente del Black Power. Inoltre le Pantere puntavano a un forte radicamento sociale, con le loro iniziative dal Free Breakfast for Children dove gli scolari delle elementari delle famiglie indigenti venivano al programma della colazione la mattina, adulti poveri venivano per i vestiti gratis, i parenti dei detenuti venivano accompagnati alle visite in carcere e provvisti di aiuto legale, i malati venivano agli Ambulatori del Popolo, molti compravano il giornale Black Panther agli angoli delle strade (nel 1970 arrivò a vendere 139 mila copie a settimana) insomma migliaia di persone del ghetto venivano a contatto quotidiano col Partito e i suoi militanti, un’organizzazione paramilitare dove le donne venivano coinvolte a tutti i livelli, assumendo spesso ruoli di vertice (e Mumia si concede anche una parentesi umoristica, raccontando il suo affaire con Sheila, o la visita di Jean Genet, dimostrando un gran talento per i dialoghi che fanno rivivere irruzioni degli sceriffi e perquisizioni) e combattendo contro la discriminazione sessuale.

Nel clima di internazionalismo rivoluzionario di quegli anni, le Pantere Nere guardavano con entusiasmo alle lotte di liberazione dei popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’ America Latina, fecero numerosi viaggi in Africa (con l’apertura di una sede ad Algeri, nel 1970 dove si rifuggerà poi Cleaver, accusato di omicidio), rifiutando decisamente la mistica di Marcus Garvey, il profeta del ritorno nel continente nero, e si avvicinarono con curiosità alla Corea del Nord vista come società egualitaria e anticapitalista.

LA POLITICA di annientamento sistematico da parte delle forze dell’ordine usò sia strumenti classici come l’omicidio di Fred Hampton a Chicago sia un’opera più sottile, quella del Cointelpro, una struttura di intelligence che agiva con infiltrati, ricatti, violenze che tendevano a criminalizzare il dissenso, struttura scoperta per caso dagli attivisti in un’edificio dei federali.
In questo modo, la parabola accecante del Black Panther tramontò in pochi anni sotto i colpi dell’Fbi e delle divisioni interne. Oggi Mumia lancia i suoi pensieri oltre le sbarre, intervenendo spesso con scritti, interviste, prese di posizione a favore di Black Lives Matter, il movimento che continua a denunciare il razzismo della polizia e le diseguaglianze sociali.

FONTE: Flaviano De Luca, IL MANIFESTO

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