’68

Gli studenti che oltre 50 anni fa affrontarono la polizia a Valle Giulia, regalando al ’68 italiano la sua data simbolo, erano intorno ai vent’anni. Ma quelli che, dopo la pausa estiva, avrebbero gonfiato le acque del movimento come un fiume in piena, stavano invece tra i quattordici e i diciotto anni. L’impresa tentata da Marco Grispigni con il suo Il ’68 raccontato a ragazze e ragazzi (manifestolibri, pp. 78, euro 14) significa dunque parlare ai giovanissimi del XXI secolo di una rivolta, quasi una rivoluzione, fatta da giovanissimi. Significa raccontare un movimento mondiale che in uno dei suoi fronti principali, quello americano, aveva tra i suoi slogan cardine lo sprezzante «Non fidatevi di nessuno sopra i 30».

IL COMPITO non richiede solo estrema capacità di sintesi: reclama l’abilità empatica necessaria per mettere a punto uno stile e un linguaggio tali non solo da dialogare con la platea dei lettori d’oggi ma anche per restituire nello stile, oltre che nelle informazioni, la realtà di quel Movimento, che spesso sfugge a testi più approfonditi ed esaustivi. Grispigni ci riesce, forse perché non è solo uno storico che da sempre studia i movimenti del decennio rosso, dal 1968 al 1977, ma spazia spesso e volentieri nel contesto, nella lunga fase precedente che non fu affatto solo incubazione.

Gli anni scintillanti dei capelloni e delle minigonne, delle droghe psichedeliche e del rock, delle suggestioni nuove che arrivavano dai provos olandesi o dagli hippies d’America. Le «parole chiave», all’analisi delle quali è dedicata una sezione dell’«abbecedario» di Grispigni, è indicativa: «Antiautoritarismo», «Generazione», «Femminismo» (con la confutazione del luogo comune per cui il ’68 non sarebbe stato sfiorato dalla rivolta delle donne arrivata solo nei ’70), «Rivoluzione/violenza», «Sesso, droga e rock’n’roll».

Sia pure nei limiti di un progetto che certo non ambisce all’esaustività, Grispigni riesce a inquadrare l’anno fatale nel suo doppio contesto: quello cronologico rintracciando le spinte preesistenti che confluiscono nel ’68, e quello spaziale, rendendo conto del carattere mondiale della rivolta ma anche facendo emergere le differenze tra le diverse realtà nazionali. La primavera di Praga non è la rivolta dei ghetti americani, il maggio francese e l’insurrezione popolare contro la guerra nel Vietnam si sovrappongono solo in parte.

Lo specifico italiano, l’elemento che permetterà al ’68 italiano di andare oltre il brindisi di capodanno’69, reso tragico dagli spari di fronte alla Bussola, è il saldarsi della rivolta studentesca con quella operaia, sospinta a propria volta dai giovani operai cresciuti nella stessa cultura «giovanile» che aveva fatto da culla e incubatrice al movimento degli studenti.

PUR SENZA AFFONDARE lo scandaglio nell’illustrazione accademica, questa storia sintetica ma non superficiale né pressapochista del ’68 fa emergere sia le differenze che i punti di contatto tra le diverse facce di quell’anno e di quei movimenti. Grazie a una grafica colorata e mossa, a una raccolta di citazioni che non si ferma ai volantini ma pesca tanto nei volumi dotti quanto nei testi delle canzoni e a una cronologia finale ridotta all’essenziale ma efficace, restituisce ai suoi «lettori ideali», una generazione che di quel momento storico riassunto in un anno sente parlare molto ma sa poco, qualcosa in più della semplice ricapitolazione dei fatti accompagnata da una adeguata contestualizzazione. Offre l’istantanea del sentimento di fondo, la vitalità, l’urgenza di cambiare tutto. Racconta a ragazze e ragazzi non la cronaca ma l’anima del ’68.

* Fonte: Andrea Colombo, IL MANIFESTO

«La festa appena cominciata è già finita. / Il cielo non è più con noi». Sergio Endrigo, 1968

Nell’autunno del 2017 ho fatto un fioretto: non parlerò mai del cinquantennale del Sessantotto. Ciò per una elementare forma di verecondia e per un residuale senso del limite, oltre che per una patologica insofferenza verso il reducismo come categoria culturale e postura emotiva. Poi, anche quello, come tutti i fioretti, si è rivelato assai difficile da rispettare. Ho fatto ricorso, così, a un patetico stratagemma: e parlerò, di conseguenza, del «loro Sessantotto», non del nostro e tantomeno del mio. Infatti, la mia partecipazione ai movimenti degli studenti della fine degli anni Sessanta non si distinse in alcun modo da quella di tanti. Non merita, dunque, alcuna particolare e personale memorialistica, dal momento che quella mia militanza si confuse con la mobilitazione di un segmento significativo della generazione tra i 18 e i 25 anni. Un «segmento», ho scritto, e non «un’intera generazione» – come usa dirsi e come una retorica irresistibile perpetua – perché questo è il dato storico e statistico inconfutabile. Quello politico è parzialmente diverso, dal momento che un movimento numericamente minoritario ebbe la capacità, per le più diverse ragioni, di produrre effetti (talvolta persino rilevanti) sull’opinione pubblica, sul senso comune e su componenti assai ampie dell’organizzazione sociale: e su quanti ne erano parte. È questo che chiamo il «loro Sessantotto». È quanto mi è venuto in mente leggendo, su suggerimento di Nicola Lagioia, un articolo molto bello pubblicato su Doppiozero.com. Qui, lo scrittore Andrea Pomella parla del «Sessantotto di mia madre», come lei stessa lo ha raccontato al figlio. La donna era un’operaia confettatrice in un’industria farmaceutica: ovvero una delle addette alla «colorazione» delle pastiglie tramite l’immersione di esse prima in acqua e zucchero e poi nel colore.

CONFETTI
Questo il racconto: «Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita». Ancora: «In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori». Tutto ciò in quegli anni tra la fine dei sessanta e l’inizio dei settanta: «Noi volevamo aderire al Sessantotto ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro. Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare. Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo.» Quella donna, la mamma di Andrea Pomella, non verrà mai considerata una militante del sessantotto da alcun testo di sociologia o di storia contemporanea, eppure si può dire che lo è stata, fino a rappresentarne l’anima più autentica, pur se – vale la pena ribadirlo – in una posizione pressoché isolata all’interno del proprio gruppo sociale. Ecco, in questa relazione tra perifericità e innovazione, tra nuove forme di vita e crescita della soggettività, si dipana un movimento sotterraneo che, pur conservando la sua minorità, scava, contamina, si diffonde.

CHIESA
Un tale processo fu capace di penetrare anche all’interno di organizzazioni della società in apparenza le più refrattarie e le più compatte, anche se, in realtà, già profondamente incrinate, come la Chiesa cattolica. Mentre tutto questo accadeva, in un giorno di febbraio di quell’anno, io mi trovavo nei locali della Segreteria degli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quando squillò il telefono. Era, così mi pare di ricordare, Gianni. Iscrittosi a filosofia alla Cattolica qualche anno prima, era dovuto tornare precipitosamente nel suo paese dell’Alta Murgia, in Puglia, per ragioni di salute o di famiglia, non so. Cresciuto, come tanti di noi, in un ambiente di rigorosa osservanza cattolica e trovatosi, all’improvviso, in una difficile situazione economica, aveva accettato il primo lavoro offertogli: sagrestano (o sacrestano, a seconda delle diverse aree geografiche) in una delle tre chiese del paese. Col procedere degli eventi che a partire dalla seconda metà del 1967 avevano mobilitato molti atenei italiani (e non solo italiani), uno spirito di contestazione – particolarmente di natura anti-autoritaria – aveva lambito periferie geografiche e sociali, territori lontani e organizzazioni irrigidite, corporazioni chiuse e rapporti obsoleti. Magari solo superficialmente, ma li lambì. E, a ben vedere, il risultato più duraturo e fertile di quei movimenti consistette propriamente nella critica delle strutture gerarchiche – di tutte le strutture gerarchiche – spesso ispirate a un autoritarismo non motivato in termini di logica e di ragione. L’altro esito particolarmente significativo riguardò l’innovazione negli stili di vita e nelle forme di relazione, nei rapporti intra-familiari e in quelli tra le generazioni e i sessi. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che lo spirito antiautoritario arrivasse fin dentro quella parrocchia di quel paesotto pugliese: e lì trovasse Gianni pronto ad accoglierla, quella contestazione anti-gerarchica, e a farla propria. In realtà, Gianni non era così isolato e quando un altro sagrestano di un’altra chiesa dello stesso paese gli sembrò condividere le stesse idee, il comitato di lotta dei sagrestani d’Italia era già pronto a nascere. Gianni al telefono mi lesse il Manifesto di fondazione e promise di informarmi dei successivi sviluppi. E così, quando mi comunicò di aver trovato nella regione – e persino aldilà della regione – una dozzina di colleghi «disponibili alla lotta», io ne comunicai l’esistenza, l’attività e il probabile luminoso futuro all’Assemblea Generale degli studenti della Cattolica. La notizia fu accolta da un boato. La cosa non deve stupire: tra quegli studenti ribelli, le radici cattoliche erano non solo robuste, ma anche assai vitali; e alcuni tra i più colti dirigenti erano scout e, allo stesso tempo, simpatizzavano per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup). Poi, ahimè, per motivi che non so e sui quali non indagai, Gianni non telefonò più. Passato qualche mese, provai a mettermi in contatto con quel paese e con quella parrocchia, ma i miei tentativi risultarono vani. E ignoro, di conseguenza, cosa sia accaduto a quel piccolo embrione di un conflitto possibile all’interno della struttura di base dell’organizzazione ecclesiale. Ma, da qualche parte, ne sono fermamente convinto, esiste e resiste un volantino, traccia inconsunta e inossidabile della breve vita di quel comitato di lotta dei sagrestani rivoluzionari. Così come, nel giacimento cartaceo che, contro la sua stessa volontà, si è accumulato nella casa di Lanfranco Bolis a Pavia, rimangono reperti della mobilitazione che portò, oltre alle più diverse e imprevedibili conseguenze, all’occupazione della Cattedrale di Parma, nel settembre del 1968.

OCCUPAZIONE
Il 15 di quel mese, intorno alle cinque del pomeriggio, a Parma, un gruppo di persone provenienti da varie città si unirono a numerosi studenti e ai «cattolici del dissenso» (tra essi il cattolicissimo Francesco Schianchi) e, insieme, entrarono nel duomo durante la messa. Innalzavano un grande striscione con la scritta «cattedrale occupata» e chiedevano di poter dibattere con il vescovo Francesco Rossolini intorno a temi ecclesiali e sociali di attualità. Vogliamo, dicevano, che il Vangelo sia rivolto ai poveri e non sia «finanziato dai ricchi». La contestazione nasceva dal fatto che il vescovo aveva deciso di costruire una nuova chiesa con i contributi offerti dalla locale Cassa di Risparmio. E da altre vicende, tra le quali la rimozione di don Pino Setti a causa della sua attività non conformista (compresa la cosiddetta «messa beat» con il complesso de I Corvi). Nel comunicato degli occupanti, tra l’altro, si leggeva: «è ora che la gerarchia ecclesiastica abbia il coraggio di fare una scelta discriminante a favore dei poveri contro il sistema capitalistico». Si trattava, credo, della prima occupazione di una chiesa cattolica a opera dei suoi stessi fedeli (o, meglio, di una parte di essi). Dopo una serie di tentativi falliti di mediazione, la risposta del vescovo fu la richiesta alla polizia di intervenire all’interno della cattedrale per allontanare i «profanatori del tempio». E così avvenne, a sera inoltrata.

L’ISOLOTTO
Tuttavia, la cosa non finì lì. Un esempio solo. A Firenze, da anni, la parrocchia di un quartiere popolare, l’Isolotto, guidata da don Enzo Mazzi, era molto attiva sulle grandi questioni sociali e sui temi della pace e dell’antimilitarismo. Tutto ciò nonostante la dichiarata riprovazione da parte dell’arcivescovo, il cardinale Florit. Il 22 settembre viene distribuito un volantino di solidarietà con gli occupanti della cattedrale di Parma e di aspra critica nei confronti di una «chiesa che ammette indiscriminatamente alla mensa eucaristica sfruttati e sfruttatori». A seguito di ciò, il cardinale chiede a Don Mazzi di ritrattare pubblicamente le proprie opinioni o di dimettersi. La questione del piccolo Isolotto periferico diventa, a questo punto, un problema generale che interpella le gerarchie ecclesiastiche e le autorità del Vaticano e, si dice, lo stesso Pontefice. Dalla sua parrocchia, Don Mazzi afferma che «ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze più profonde, vere ed evangeliche del popolo. Non voglio una Chiesa legata a un potere politico ed economico, ma legata al popolo dei disoccupati, dei rifiutati, degli analfabeti, degli operai». Gran parte dei parrocchiani si schiera apertamente contro il cardinale, dichiarando di essere «una cosa sola col parroco». La replica di Florit è la rimozione di Don Mazzi ma il nuovo parroco, chiamato a sostituirlo, troverà la chiesa completamente vuota. Intanto novantatré sacerdoti della diocesi di Firenze e una parte significativa della città dichiarano la propria solidarietà con l’Isolotto. Il 30 agosto del 1969, dopo che don Mazzi e due viceparroci erano stati sospesi a divinis e la chiesa era stata chiusa, il cardinale Florit vi si recò per celebrare la messa, ma il rito potè avvenire solo alla presenza delle forze di polizia. Nacque, allora, il primo Coordinamento delle comunità di base, che cominciavano a diffondersi in più città italiane. Intanto, altri movimenti poco visibili e tuttavia destinati a irrobustirsi, si sviluppavano all’interno di zone particolarmente opache dell’organizzazione sociale. Persino in quelle più conservatrici e chiuse.

SCONTRI
Nella primavera del 1968, a Milano, vi furono numerose manifestazioni non tutte e non sempre pacifiche. Dopo alcuni degli scontri più violenti, all’interno della caserma Sant’Ambrogio (poi caserma Annarumma), a due passi della Basilica e dall’Università Cattolica, avvenne una sorta di «sommossa»: molti tra gli agenti chiedevano di potersi recare all’interno dell’università per darle di santa ragione agli studenti. Eppure, in quella situazione tanto tesa, si levarono anche voci di poliziotti che denunciavano le condizioni di «sfruttamento» cui erano sottoposti e indicavano come «nemico» non lo studente bensì il «sistema di potere». Erano pochi, ma anche loro gridavano forte. Qualche tempo dopo, sarà stata la fine di aprile, io mi trovavo a parlare col megafono davanti al cancello principale dell’università Cattolica, mentre frotte di studenti vi entravano. Poco distanti da me, sulla sinistra, accanto a un’aiuola ben curata, si trovavano due poliziotti (probabilmente provenienti dalla vicinissima caserma) «vestiti da poliziotti in borghese» che mi lanciavano sguardi di sottecchi e confabulavano tra loro. Quando, esausto dal gran concionare, interruppi il mio comizio, prendendo fiato e appoggiandomi alle mura imponenti dell’ateneo, quei due lasciarono trascorrere qualche minuto e, poi, mi avvicinarono cautamente. Quindi, tra molti sottointesi e altrettanti imbarazzi, mi fecero intendere di essere interessati a parlare con me e con miei compagni. Considerata l’inequivocabile identità sbirresca degli interlocutori, faticammo – io e gli studenti successivamente avvertiti – a respingere l’idea che ci trovassimo di fronte a una vera e propria provocazione. Di conseguenza glissammo, traccheggiammo, rinviammo, ma quei due poliziotti riproposero più volte la richiesta di un incontro, offrendo tutte le garanzie possibili e immaginabili. E così, passato ancora qualche tempo, cedemmo e infine ci fu l’incontro. Scegliemmo noi il campo: ovvero il sottopiano del grande bar Magenta, occupato da due tavoli da biliardo e, in quella circostanza, dalle due delegazioni, mentre al piano di sopra l’intera clientela era costituita esclusivamente da militanti del movimento studentesco, pronti a intervenire e a fare muro in caso di necessità. Tutto questo in presenza di un signor Vigna, il titolare, profondamente perplesso. E così, sentendoci al riparo da qualunque rischio, potemmo liberamente parlare tra noi. In sostanza, quei poliziotti chiedevano suggerimenti su come muoversi per porre le basi di una qualche organizzazione sindacale, allora totalmente fuori legge. Noi eravamo, va detto, palesemente sprovveduti. Tanto più che l’idea di una organizzazione sindacale dei poliziotti non rientrava, certo, tra i nostri obiettivi e, soprattutto, era incondizionatamente estranea ai nostri pensieri. Ma per un soprassalto di fierezza (non ammettere la nostra insipienza) o per un autentico senso del dovere rivoluzionario (non rinunciare a un possibile alleato) non chiudemmo lì la discussione. Al secondo incontro, svoltosi nello stesso luogo e con le stesse modalità, arrivammo con qualche ulteriore informazione. In altre città italiane, già si parlava di certe «proteste dei poliziotti» e, soprattutto, noi disponevamo di un indirizzo particolarmente interessante. Avevamo appreso, infatti, che un funzionario della CGIL era stato delegato a seguire la questione che, silenziosamente, cominciava a emergere. E, così, potemmo indicare il nome di quel funzionario sindacale e la sede della Camera del Lavoro in Corso di Porta Vittoria come la persona e il luogo più adatti a raccogliere le loro esigenze. 

BARRICATA
Ci ringraziarono, un po’ stupiti e un po’ emozionati, così calorosamente che ne fummo tutti colpiti. Si chiudeva, in tal modo, un breve ma significativo ciclo della protesta. Un ciclo iniziato quando, come si è detto, qualche mese prima, proprio una manifestazione dagli esiti particolarmente violenti consentì di porre le basi di una possibile relazione tra esponenti delle due forze in campo sui lati opposti della barricata (qui intesa non solo in senso metaforico): gli studenti, in particolare quelli dell’università Cattolica, e alcuni poliziotti della caserma Sant’Ambrogio. Non c’è da stupirsi. In generale va ricordato come nella storia, ma anche nella cronaca quotidiana, possa accadere che siano proprio i conflitti più aspri a rivelare agli opposti contendenti l’esistenza di interessi comuni.

PASOLINI
Il che consente una lettura meno stereotipata, di quella diventata ormai dozzinale luogo comune, della poesia Il Pci ai giovani di Pier Paolo Pasolini (pubblicata da Nuovi Argomenti e anticipata dall’Espresso del 16 giugno del 1968). A dar retta alla versione pressoché unanime, in quella poesia Pasolini avrebbe preso le parti dei poliziotti, in odio ai contestatori, secondo una grossolana distinzione tra i primi (proletari e sottoproletari, «figli dei poveri») e i secondi (borghesi e piccoloborghesi, «figli di papà»). Fu lo stesso Pasolini a chiarire: «Nessuno (…) si è accorto» che i versi iniziali erano «solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore (…) su ciò che veniva dopo (…) dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (…) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti» (Il Tempo, 17 maggio 1969). Le caserme dei poliziotti erano dunque viste come «ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al paradosso introduttivo» (Ivi). Dunque, secondo Pasolini, il senso di quella poesia sarebbe stato ribaltato da letture ideologicamente interessate. Il «paradosso introduttivo» («io simpatizzavo coi poliziotti») era in realtà – parole dell’autore – «una piccola furberia oratoria», destinata a «richiamare l’attenzione del lettore». Ma il tema vero e la sostanza poetica e politica consistevano nell’affermazione che «il potere ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti». Dunque, nonostante l’interpretazione autentica offerta dal suo stesso autore, quei versi sono stati ridotti alla falsa rappresentazione di un conflitto insuperabile tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosceva nel movimento detto «del ’68», da una parte; e, dall’altra, il proletariato e il sottoproletariato identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere. E la lettura più coerente, proposta – tra gli altri – dal regista Davide Ferrario, è stata costantemente ignorata, a favore di quella interpretazione definita dallo stesso poeta «paradossale». Resta ancora una considerazione: quella versione deformata in senso «antistudentesco» (e, alla lettera, reazionario) conteneva, tuttavia, un piccolo grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel ’45 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Ma questa è davvero un’altra storia e un’altra analisi.

ASSOCIAZIONE CALCIATORI
Infine. Nel luglio del 1968 venne costituita, a Milano, l’Associazione Italiana Calciatori ovvero, nei fatti, il primo embrione di sindacato dei giocatori di calcio: ribattezzato dalla stampa, con un certo disprezzo, «il sindacato dei piedi» o «dei milionari». A fondarlo fu l’avvocato Sergio Campana, già calciatore di buon livello nelle squadre del Lanerossi Vicenza e del Bologna e – rarità dell’epoca e non solo – uno dei pochi laureati. L’ipotesi di un’associazione di rappresentanza della categoria, pur presente da tempo, si era arenata sempre di fronte all’ostilità granitica della Lega, delle società di serie A e dei rispettivi presidenti, i veri padroni del calcio. E all’assenza di consapevolezza dei propri diritti di gran parte degli stessi giocatori. Eppure, è in quell’anno che alcuni dei più grandi calciatori italiani (Mazzola, Rivera e De Sisti, reduci dalla vittoria della nazionale nei campionati europei: il primo successo azzurro dai tempi di Pozzo) scrivono a Campana, chiedendogli di guidare il «primo sindacato dei calciatori di serie A e B».
L’idea era quella di creare un organo che potesse funzionare da intermediario o anche controparte con Leghe e Federazione e che potesse rappresentare gli interessi dei calciatori. Ciò avveniva in una fase in cui si incrociavano tre diversi fattori: il calcio diventava massiccio fenomeno sociale al quale la televisione assegnava un ruolo pubblico sempre più ampio; aumentavano gli investimenti economici e finanziari nelle squadre di calcio, considerate ormai come imprese capaci di produrre utili; la tendenza a contestare i tradizionali sistemi di potere e le loro gerarchie interne raggiungeva tutti gli ambiti della società, compresi quelli più distanti e separati (come, appunto, il calcio). Tra scioperi minacciati e mai realizzati, cresceva un fenomeno che, tuttavia era destinato ad avere vita non troppo lunga, perché quegli stessi tre fattori innovativi avrebbero prodotto una «commercializzazione» e una «finanziarizzazione» tali da travolgere l’intero sistema. E tali da impedire che l’Associazione italiana calciatori svolgesse un vero ruolo conflittuale-sindacale e, ancor meno, una funzione di tutela di coloro che, tra i giocatori, occupavano i ranghi meno garantiti e più precari. Ne è prova il fatto che l’associazione dei calciatori si apre ai dilettanti solo nel 2000 e che c’è voluta una sentenza europea (quella cosiddetta «Bosman», dal nome di un modesto calciatore belga) per liberalizzare le leggi sui trasferimenti dei calciatori. In altre parole, è come se quelli che «hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro al bar» (Francesco De Gregori) – i giocatori, cioè, più appassionati ma spesso meno dotati, più esposti agli infortuni e alle crisi del mercato, più soggetti ai ricatti di procuratori e presidenti – abbiano dovuto fare una ulteriore maledetta fatica. E hanno penato molto prima di ottenere quel riconoscimento che qualificava la loro attività come un lavoro meritevole di tutela sindacale. Insomma, ce ne ha messo il Sessantotto per arrivare fino a loro.

Ha collaborato Valentina Moro

* Fonte: IL MANIFESTO

 

photo: Di A.Bonasia – http://download.kataweb.it/mediaweb/image/brand_repmilano/2009/03/18, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3564060

LOCARNO. Il titolo Ora e sempre — riprendiamoci la vita non lascia dubbi: quello di Silvano Agosti, presentato fuori concorso a Locarno, è un film militante.

Come poteva non esserlo, del resto, conoscendone l’autore?

Classe 1938, Agosti ha partecipato agli eventi in prima persona, filmando i Cinegiornali del movimento studentesco, il documentario Brescia 74 strage di innocenti e tanto altro; compresa una fitta serie d’interviste a personaggi della politica e della cultura che, assieme a rari materiali d’epoca, contribuiscono a dar corpo al nuovo film. Diversamente dai programmi di storia per la tv, Agosti non si limita a elencare i fatti: dà loro una forma significante attraverso il montaggio (che a suo tempo studiò all’Istituto del cinema di Mosca), per sviluppare il discorso che gli sta a cuore.
«Dalle cronache ufficiali quel glorioso periodo di lotte è scomparso — argomenta l’autore — sepolto sotto il marchio di “anni di piombo”. Ci sono voluti cinquant’anni di governi selvaggi per cancellare tutte queste importanti vittorie.
Ma il fondamento non potrà mai essere cancellato: i movimenti di quel decennio, coinvolgendo gran parte della società, ha visto lentamente infrangersi il principio di autorità».
Il ’68 e il decennio successivo videro un fiorire di movimenti (studentesco, dei lavoratori, delle femministe, di occupazione delle case…) che non si è poi ripetuto, malgrado alcune avvisaglie e le speranze di molti. Perché proprio in quel momento? «L’origine prossima fu la guerra del Vietnam. Però io credo anche che il corpo sociale, malgrado il potere faccia di tutto per rinchiuderci in celle individuali, sia un tutto unico e che in certi momenti storici si verifichino delle connessioni tra tantissimi individui (i giovani, in particolare) su obiettivi comuni». Quindi, come afferma Franco Piperno in un brano del film, la protesta è un fiume carsico, che prima o poi riemergerà? Però Clara Sereni (in un altro spezzone d’intervista) si stupisce che le femministe di ieri non siano riuscite a insegnare nulla alle loro figlie. «Penso che la protesta tornerà, anche se in altre forme», prosegue Agosti, «quanto alle femministe, erano troppo impegnate nell’ergastolo di essere mogli; e quando si è all’ergastolo si pensa solo alla fuga». Non c’è il rischio che Ora e sempre, uscendo nel cinquantenario del ’68, sia sospettato di effetto-nostalgia, data anche la presenza nella colonna sonora della Canzone del maggio di De André e dell’Anno che verrà di Dalla?
«Direi di no. Avevo già realizzato due “decennali”: nel ’98 in tredici puntate per la Rai, che le trasmise alle quattro di mattina, e nel 2008; senza mai cadere nella celebrazione. Del resto il 68 fu solo la miccia: l’esplosione furono i nove anni seguenti».
Tra i tanti intervistati — Fo e Rame, Capanna, il filosofo Severino, Bernardo Bertolucci, Alberto Grifi… — appare anche, piuttosto inaspettato, l’archistar Massimiliano Fuksas.
«Sì, l’architetto miliardario. Ho voluto infrangere la barriera socio-economica perché Fuksas parla della liberazione dal lavoro, che equivale alla schiavitù. Ben da prima che si parlasse di reddito di cittadinanza, o come lo si voglia chiamare, ho sempre pensato che cibo e casa siano un diritto inalienabile per tutti».

* Fonte: ROBERTO NEPOTI, LA REPUBBLICA

 

È a Parigi, in pieno ’68, che ha cominciato a prendere forma l’idea di dar vita a una rivista come luogo in cui raccogliere la riflessione della sinistra critica interna ed esterna al Pci. Un anno dopo, nel giugno 1969, quella rivista mensile sarebbe uscita in edicola con la testata il manifesto, esplicito riferimento al «Manifesto dei comunisti» di Marx ed Engels del 1848, andando incontro alla radiazione dal partito dei suoi promotori. Ma era da qualche tempo che nel Pci si era sviluppato un confronto inedito sui temi del neocapitalismo italiano e di un conseguente rinnovamento strategico che trovò nell’XI Congresso del 1966 il momento di più aspro confronto (furono le assisi in cui Pietro Ingrao pose il tema del superamento del centralismo democratico come metodo di vita interna e di un nuovo modello di sviluppo).

È QUESTA LA PRIMA riflessione che viene in mente rileggendo i due libri meritoriamente rieditati dalla manifestolibri cinquant’anni dopo della prima edizione della De Donato: Lucio Magri, Considerazioni sui fatti di maggio (pp. 176, euro 16); Rossana Rossanda, L’anno degli studenti (pp, 96, euro 12). Magri, allora giovane funzionario di Botteghe oscure, e Rossanda – in quel periodo deputata del Pci dopo aver diretto la Sezione culturale del partito – andarono insieme a Parigi nel 1968 per capire quello di nuovo che animava il maggio.
La lettura non ha perso di attualità. Si tratta infatti di due testi che, con uno stile a metà tra saggio e puntigliosa cronaca giornalistica, ricostruiscono gli eventi di quell’anno indimenticabile in Francia e in Italia con chiavi interpretative e di approfondimento. Scrive Magri, di cui si scorge l’influenza della Scuola di Francoforte di Marcuse e Adorno a rapporto con il marxismo più classico: «La forma di dogmatismo più diffuso è quella che usa una grande apertura metodologica e squillanti riconoscimenti delle novità della situazione solo per conservare l’essenziale delle proprie idee».

PER LUI, I FATTI a cui ha assistito impongono invece nuovi approcci e scelte non di routine. Rossanda – che analizza il ’68 italiano nelle università di Trento, Pisa, Torino, Venezia – socializza una convinzione: «Gli studenti non sono un soggetto a parte, con i quali solidarizzare, o da respingere, o semplicemente da comprendere; sono un aspetto del capitalismo maturo che esplode e domanda sbocco». Nella sua originale analisi del movimento italiano riecheggiano le lezioni non ortodosse di Louis Althusser e Jean-Paul Sartre.

Sta qui una prima convergenza politica e d’analisi tra Magri e Rossanda che avevano raggiunto una proficua e intensa collaborazione intellettuale destinata a durare per molti anni con reciproco arricchimento (i due libri s’intrecciano per questioni e domande). Per loro, il movimento degli studenti prodotto della scolarizzazione di massa è un soggetto politico nuovo che esprime una propria critica alla società capitalistica: bisogna indagarne dunque cultura e potenzialità, oltre alle forme di autorganizzazione (i due libri avviano tale ricerca in modo parallelo e intrecciato, perciò vanno letti in continuità).

È LA NUOVA stratificazione delle società mature inoltre che produce inespresse soggettività sociali, come dimostreranno l’intero ciclo sessantottino e gli anni successivi. Si presenta perciò anchilosata – secondo Magri e Rossanda – la lettura tradizionale della politica delle alleanze che viene dalla tradizione del Pci: operai e contadini più vaghe classi medie o indistinto ceto medio. Riprendendo la lezione di Antonio Gramsci, in Occidente il processo rivoluzionario di trasformazione sociale si conferma per Magri e Rossanda, proprio alla luce del ’68, complesso, di lunga durata, con la continua conquista di «case matte» che fanno crescere livelli di politicizzazione di massa.

A COLPIRE Magri e Rossanda è anche la diffidenza e la chiusura con cui il Partito comunista francese guarda agli avvenimenti del maggio, atteggiamento meno ostile seppure molto prudente avrà il Pci (da non dimenticare l’incontro nella sede di via delle Botteghe oscure tra il segretario Luigi Longo e alcuni esponenti del movimento tra cui Oreste Scalzone). I due autori traggono infine un’altra conclusione dalla loro ricerca: sembra non reggere più la tesi secondo cui il ruolo del Pci debba favorire lo sviluppo di un capitalismo italiano che resta arretrato senza criticarne indirizzi. Modi di produzione e valori. Su questo si era già avviata una discussione nel convegno del 1962 su «Le tendenze del capitalismo italiano» dell’Istituto Gramsci, dove Giorgio Amendola, Bruno Trentin e Lucio Magri avevano animato un dibattito non convergente negli approcci e nelle conclusioni.

IL TESTO DI MAGRI è prefato da un saggio di Filippo Maone, che aveva accompagnato lui e Rossanda nel viaggio parigino. Ci vengono dunque consegnati da Maone particolari umani e politici che hanno fatto da contorno a quella missione politica di cinquant’anni fa, oltre a ulteriori spunti di riflessione politica.
Quanto alla tesi che l’idea del mensile il manifesto nacque in Francia nel ’68, scrive a proposito Maone: «Quelle due settimane e mezza trascorse a Parigi accelerarono la scelta, già da qualche mese in maturazione, nella mente di Lucio e Rossana, di dare vita a una rivista». Al progetto si unirono Aldo Natoli, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Massimo Caprara, lo stesso Maone e molti altri.
Il testo di Rossanda è prefato invece da Luciana Castellina che mette in evidenza l’intuizione del fenomeno sessantottino da parte del futuro gruppo del manifesto: «Era una crisi della modernità capitalistica, non dell’arretratezza».

FONTE: Aldo Garzia, IL MANIFESTO

Capita spesso quando uno parla del Sessantotto in America che l’interlocutore, soprattutto se giovane, faccia immediato riferimento a Berkeley: a un episodio di quattro anni prima. E questo è facilmente comprensibile. L’occupazione della Università della California a Berkeley nel 1964 è stata il primo grande evento di rivolta studentesca: una sorta di anticipo del Sessantotto a livello americano e internazionale, reso celebre dal libro di Al Draper La rivolta di Berkeley; inoltre è sulla scenario della baia di San Francisco che è ambientato il più noto film sull’argomento, Fragole e sangue.

L’EPISODIO PIÙ IMPORTANTE dell’anno 1968 è invece l’occupazione della Columbia University cominciata il 23 aprile e finita il 30 con i suoi 720 manifestanti arrestati in una sola notte, il caso più clamoroso (ma non l’ultimo). Il Sessantotto americano fu infatti violentemente concluso nel 1970 dalla repressione delle mobilitazioni alla Kent State University (in occasione della invasione americana della Cambogia) e la strage degli studenti neri.

È importante tenere conto di queste date non per un puro gusto di cronologia, ma per il fatto che nei sei o sette lunghi anni nei quali si svolge il Sessantotto l’America è interessata da cambiamenti profondi – per altro di segno diverso – nel contesto sociale e politico che vede da un lato crescita sociale e civile nel Paese (la Great Society johnsoniana) dall’altro – in piena contraddizione o come rovescio della medaglia – un quadro economico sempre più dominato dal complesso militare-industriale. Ed è questo complesso che determina le scelte di guerra che l’America era andata conducendo negli anni 60: in primis quella del Vietnam.

FORSE LA PRINCIPALE SPINTA alla mobilitazione della Columbia – sicuramente una delle principali – fu la guerra in Vietnam: una guerra sempre meno popolare nell’opinione pubblica e soprattutto tra i giovani che non volevano andare a morire. Per inciso va detto che nel 1968 non partivano più solo i poveracci: c’era la leva obbligatoria e con l’intensificazione del conflitto anche i giovani delle università di élite come la Columbia rischiavano di essere spediti al fronte.

La carta rivendicativa degli studenti consisteva in alcuni punti che erano stati oggetto di denuncia e di mobilitazione nei mesi precedenti. In primo luogo si chiedeva alla Columbia di smetterla con la speculazione edilizia in una zona tutto sommato popolare a spese dei poveri in parte neri o ispanici che venivano cacciati dal quartiere. La Columbia è infatti divisa dalla Harlem bassa da una striscia di parco. E – secondo i piani di espansione dell’università – in questa striscia avrebbe dovuto sorgere una palestra (il famoso gymnasium). La contestazione dell’iniziativa avrebbe potuto rappresentare un terreno comune di mobilitazione tra studenti e popolazione nera ma purtroppo non ci fu nulla di tutto ciò.

Altre due richieste erano il divieto di ingresso nel campus a una struttura di reclutamento dell’esercito e la cessazione dei rapporti dell’università con l’Institute for Defence Analyisis. Si tratta di tematiche pacifiste, contro la guerra in Vietnam. A parte il reclutamento di volontari – dove forse si sarebbe pescato poco in un ambiente borghese – il grande problema per gli studenti era il rischio di essere chiamati alle armi. Bastava essere bocciati o ancora aver terminato il corso di studi senza procedere verso i livelli superiori, perché la cartolina precetto diventasse effettiva. La scelta era tra il Vietnam e la fuga in Canada o in Svezia, dove si rifugiavano i renitenti alla leva.

QUANDO LA POLIZIA effettuò lo sgombero, la maggior parte degli studenti si fecero arrestare senza resistenza, anzi volontariamente, allo scopo di contribuire a totalizzare il massimo numero di arresti e di dimostrare quanto sostegno aveva un movimento che si opponeva a quella gestione dell’università e comunque si opponeva alla linea guerrafondaia del governo americano in quel periodo. Fu una delle ultime applicazioni a livello di massa del principio della disobbedienza civile.

Non si percepiva ancora, ma i tempi volgevano già a destra. Dopo la grande avanzata civile e sociale degli anni Sessanta la società americana cominciava a cambiare in peggio. La Columbia e il Sessantotto rappresentarono il punto di massima avanzata sociale legata alla stagione di Kennedy e Johnson e anche l’inizio del declino espresso dall’elezione di Nixon. Comunque la svolta non si vedeva, la vita di quei giovani cambiava, non cambiava tanto il modo di vestirsi – che in realtà era già cambiato da un po’. Cambiavano le amicizie, i rapporti, le esperienze. C’era un fermento culturale e un grande entusiasmo. C’era quella che la folk singer Barbara Dane chiamò «The joy that comes from struggling» (la gioia che viene dalla lotta) .

Al momento della proclamazione delle lauree, successe una cosa entusiasmante. La cerimonia, che si chiama Commencement, non si svolse solo, come sempre, nell’ aula magna. Ce ne fu un’altra, ben più importante, nel giardino del campus, con tutti i laureandi: fu chiamato il Counter-commencement. E il grande discorso che fa tradizionalmente qualche autorità, lo fece lì il vecchio Eric Fromm, invitato dagli studenti e in solidarietà con loro, che salutò con entusiasmo la fine della silent generation.

PER CAPIRE LA DELUSIONE successiva alla fine delle mobilitazioni – a maggio ci fu anche un’altra più piccola occupazione – bisogna comprendere il carattere e la portata dell’entusiasmo di quei giovani e la elevatissima partecipazione. E poi c’era la New York di quegli anni dove tutto pareva succedere. Pareva che tutto si mobilitasse: se uno voleva sapere cosa stesse succedendo bastava che chiamasse il numero telefonico (in America la rotella del telefono, oltre ai numeri portava le lettere) Dad (Dial a Demonstration) ed era prontamente informato.

Alla forte rottura politica e culturale – direi esistenziale – che fu all’origine di quegli eventi corrispose, già nei mesi successivi, la presa d’atto della mancanza di sbocchi politici credibili per quella carica di mobilitazione e di voglia di cambiamento. E questo è alla base del «Grande Freddo» che seguì agli inizi degli anni Settanta.

La repressione alla Columbia fu tutto sommato morbida, soprattutto nella prima fase. La violenza che si vede in Fragole e sangue avvenne alla Kent State . Né a Berkeley, dove il film è ambientato, né alla Columbia. Ma non si trattò solo di quello.

GIÀ DURANTE L’OCCUPAZIONE della Columbia c’era stato un episodio indicativo di una brutta tendenza: quella dell’inizio del separatismo nero. Gli studenti neri vollero condurre l’occupazione in parallelo ma separati dai bianchi. Stavano tutti in un solo edificio: Hamilton Hall. Era la prima occasione in cui si notò la separazione dal movimento giovanile per i diritti civili del movimento dei neri. Ma ancora più difficili furono i rapporti con il movimento operaio organizzato. E in questo caso fu proprio il Vietnam a rendere praticamente impossibile un avvicinamento dei giovani alla classe operaia, essendo il sindacato su questo sostanzialmente schierato con il governo. In realtà parve chiaro come nel corso del tempo quegli studenti, con le loro speranze e la loro utopia, non li volesse più nessuno.

FONTE: Enrico Pugliese, IL MANIFESTO

Maggio 1968. La Francia è in piazza, la rivoluzione è qualcosa di reale, la società che plaude De Gaulle sembra finalmente destinata a essere capovolta nell’utopia di un sogno, meraviglioso e impossibile, che sta esplodendo nel mondo: “Sotto il pavet la spiaggia” e “La vita è altrove”, lontano dal quel “vecchio mondo” di discriminazioni, classi, ghetti.

A Cannes c’è il festival ma il cinema è Nouvelle Vague, quella francese e quelle nel mondo che portano in sé l’Europa della Primavera di Praga o il Brasile contro la dittatura, non si accordano con l’evento polveroso, pomposo, di star, strass e tappeti rossi, così lontani dalla Francia in sciopero, dalle università chiuse, dalla gente in piazza, dalla violenza della polizia, dalle barricate, dai “Baci rubati”. L’edizione del Sessantotto si apriva con la versione in 70 millimetri di Via col vento, sulla Croisette di sole e palme arrivano però Truffaut, Godard, Rivette, Chabrol, gli stessi che, insieme a molti altri registi e non solo francesi (ci sono Bertolucci, Bellocchio, Rossellini, i Taviani) pochi mesi prima hanno dato vita al “Comitato in difesa di Henri Langlois”, fondatore nel 1936 insieme a Geroge Franju della Cinémathèque parigina, messo alla porta dal ministro della cultura di De Gaulle, André Malraux. Langlois, scrive Truffaut, è un uomo ossessionato “da una sola idea” che è quella di preservare i film e di trasmettere il patrimonio dell’immaginario alle generazioni future. “Henri Langlois – scriveva Serge Daney nel necrologio alla sua morte (il 13 gennaio 1977,ndr) divideva il mondo in due: quello è che va bene per la Cinémathèque e quello che invece no”.

Il 9 febbraio del 1968 dunque Langlois viene destituito dal suo ruolo, lo stato vuole il controllo della Cinémathèque, mal digerisce la libertà di scelte che il suo fondatore mantiene.

Di certo Malraux non poteva pensare cosa sarebbe accaduto dopo o quantomeno aveva sottovalutato la portata della sua decisione. Truffaut è presente alla riunione e se va infuriato, Al posto di Langlois viene nominato un certo Pierre Barbin già alla direzione del festival di Tours che invia subito lettere di liceziamento e fa cambiare le serrature degli uffici. Truffaut scrive subito a Rossellini e lancia una campagna di sostegno che coinvolge registi in tutto il mondo, la stampa francese, con Le Monde che pubblica una petizione in sostegno di Langlois – Scandalo alla Cinémathèque titolano alcuni giornali – firmata tra gli altri da Eustache e Abel Gance. Non è che l’inizio. Il 14 febbraio tremila persone, tutto il cinema, si radunano sulla piazza del Trocadero, di fronte alla sala di Palais de Chaillot, cercano di forzare i cordoni di polizia. Cariche, feriti – Truffaut, Tavernier – l’ex poeta Malraux è sempre più in difficoltà anche perché nel frattempo le major americane che avevano depositato le copie alla Cinémathèque cominciano a minacciare di ritirarle e poi era Langlois che aveva i diritti di tutto … Il 22 aprile Maleaux decide di affrancare la Cinémathèque dal controllo statale Langlois verrà reintegrato al suo posto.

Torniamo al Maggio, di cui in molti vedono nell’affaire Langlois il prologo, tra il 10 e il 24, le date del Festival di Cannes. Il 18 maggio – in programma c’era Frappé alla menta di Carlos Saura – Truffaut, Godard, Malle interrompono il festival in solidarietà con la Francia in lotta. Forman e Lelouch, il giorno dopo, il festival viene sospeso e davanti all’assemblea riunita nella piccola sala Cocteau – il Palais non era quello di oggi – ritirano i loro film.

Da questo nascerà la Quinzaine des Realisateurs che riunitasi attorno a Robert Enrico e a Jacques Doniol-Valcroze, dopo molte discussioni decise di lanciare un festival alternativo dove “difendere le libertà artistiche, morali, professionali ed economiche della creazione e partecipare all’elaborazione delle nuove strutture del cinema”, alla cui guida venne nominato il giovane cinefilo Pierre Henri Deleau.

L’attività della neonata sezione comincia l’anno dopo, su suoi schermi sono passati in tanti da allora – Oshima, Scorsese, Fassbinder, Bene …. – ma quest’anno se ne festeggia il cinquantenario nella Francia macroniana “En Marche” di polizia che carica nelle università occupate e nei licei, sgomberi selvaggi (vedi La Zad), razzismo praticato anche oltre confine (ma siamo in Europa no?) vedi Bardonecchia, i lacrimogeni sul Primo Maggio con i cordoni di polizia che impedivano alla gente di raggiungere i concentramenti delle manifestazioni, lo sciopero dei ferrovieri duramente attaccato dal governo con la sua politica ultraliberista.

La prima edizione della Quinzaine, mostra tra gli altri Nostra signora dei turchi eCapricci di Carmelo Bene, Le lit de la Vierge di Philippe Garrel, L’etè di Marcel Hanoun, Une femme douce di Robert Bresson, Acéphale di Patrick Deval del gruppo Zanzibar, Barravento di Glauber Rocha, Nocturno 29 di Pere Portabella, Partner di Bertolucci .. Quello che conta è praticare una rivoluzione che sia anche degli immaginari, l’anno dopo il Sessantotto per certi aspetti è stato sconfitto ma il suo segno è rimasto indelebile, da allora è iniziata una trasformazione che metterà in discussione tutto, la società, i consumi, i rapporti, il femminile, il maschile, il corpo, il desiderio, la famiglia, l’amore, l’io. E l’immaginario, cioè la scelta di un punto di vista sul mondo da cui narrarlo, restituirne il conflitto e il movimento, il senso e il tempo diviene il luogo privilegiato di questa mutazione, laddove ribellione, desideri, utopie, contraddizioni vivono liberamente in sintonia, e al tempo stesso anticipandoli, coi sentimenti del tempo.

Esiste ancora questa onda nel cinema (immaginario) di oggi? La risposta è sì, e attraversa sguardi e generazioni unite dalla spinta comune che porta ciascuno di questi artisti a interrogarsi sul mondo e su come illuminarne paesaggi e vissuti. E’ questo che ci piace scoprire sulla Croisette (e in genere) ogni volta. Ci sarà anche film del sessantottino JL Godard (un riscatto dopo la vergogna di Hazanavicius lo scorso anno?), Livre d’image, uno di quei registi che appunto non ha mai smesso di mettersi in gioco e di mettere in discussione il sistema delle immagini spiazzando lo sguardo di chi lo aspetta a ogni opera. Il Sessantotto al presente.

FONTE: Cristina Piccino, IL MANIFESTO

Le mois dernier, nous publiions un appel parisien aux « amis dispersés de par le monde ». Il s’agissait d’une proposition pour fêter dignement le cinquantenaire de mai 1968. Nous venons de nous signaler cet écho paru sur le site Les Pavés en trois langues.

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(En anglais et en allemand.

UNE EFFERVESCENCE RÉVOLUTIONNAIRE

Aujourd’hui, certains journalistes, intellectuels, artistes et politiciens souhaitent commémorer l’année 68 et ses révoltes, qu’ils présentent comme animées uniquement par le désir de démocratie capitaliste, de plaisir individualiste et libéral. Une fois encore, il s’agit de vendre, de l’audimat, des torchons littéraires et des bulletins de vote ; il s’agit en fait de neutraliser et de mettre à distance ce qui a pu se jouer de politique lors de l’une des années les plus subversives, violentes et offensives de l’après-guerre. Analyser l’histoire pour marteler sa fin, évoquer la fougue et la révolte d’une génération pour mieux enfermer et pacifier la suivante.

Les étudiants parisiens entament le mois de mai en occupant la Sorbonne, les revendications singulières explosent, le refus d’un monde s’exprime sur les murs des villes et s’incarne dans les barricades nocturnes. Les ouvriers rentrent rapidement dans la danse et déclenchent une grève générale sauvage qui paralyse le pays. En deux semaines, le gouvernement plie et accorde des concessions sociales historiques, concessions rejetées par les grévistes…

A Mexico, pendant plusieurs mois, un mouvement pour la liberté d’organisation et contre la répression politique alterne manifestations de centaines de milliers de personnes, occupations des universités et lycées, et affrontements de rue. L’État mexicain achèvera le mouvement en assassinant plus de deux cents personnes lors du massacre de Tlatelolco.

Derrière le rideau de fer, un nouveau gouvernement lance un processus de libéralisation politique, soutenu par le peuple qui accélère sa mise en œuvre : liberté d’expression et de réunion, fin de la censure, ouverture des frontières vers l’Ouest, limitation du pouvoir de la surêté d’État. Il faudra que des chars investissent les places pour mettre fin au printemps de Prague.

Les Viêt-Congs lancent l’offensive du Têt contre les principales villes du Sud. Si les assaillants sont globalement repoussés après quelques semaines, cette offensive montre au monde les capacités de l’armée populaire vietnamienne, annonçant les débuts de la défaite américaine.

En Italie, le mouvement étudiant entre dans sa deuxième année. Partant d’une critique du système universitaire, de son autoritarisme et de sa fonction capitaliste, le mouvement déborde ce cadre, se mêle de politique internationale et de questions domestiques, enchaîne les grèves, quitte les campus pour se fondre dans les villes, et connaît ses premiers affrontements victorieux contre les flics. L’année 68 s’inscrit dans les débuts de la longue séquence rouge italienne, douze années d’expérimentations et de conflits politiques, d’occupations, de grèves, d’émeutes, de lutte armée, de radios pirates, d’expropriations, de quartiers en rébellion. Un bouleversement de tous les aspects de la vie…

Ailleurs aussi, au Japon, aux Etats-Unis, en Allemagne, au Sénégal, un mouvement d’émancipation sans précédent secoue la planète : libérations sexuelle et politique, luttes contre toutes les formes d’autorité, mouvement féministe et dissidence politique ; refus du travail, du monde de l’économie et de ses diktats ; vies communautaires et illégalismes ; naissance de l’écologie radicale et rejet du système académique, réappropriation de savoirs ; rébellion contre l’impérialisme, l’institution militaire et les guerres coloniales.

Les femmes et les hommes qui ont porté ces luttes en ont payé le prix fort, des dizaines de milliers de blessés et de morts, de prisonniers et d’exilés. Mais ils ont aussi connu des victoires et des puissances nouvelles, expérimenté des formes de vie et de combats inédites ; fissurer le monde pour en faire émerger d’autres, inconnus et fous… Partout, ce sont des alliances entre ouvriers et étudiants, entre hommes et femmes, entre immigrés et citoyens nationaux qui ont forgé l’ampleur et l’intensité de ces mouvements, l’altérité comme puissance commune, une manière de désarçonner l’adversaire, de se réinventer, d’apprendre à se battre, et à gagner.

ILS COMMÉMORENT, ON RECOMMENCE

Malgré toutes ces tentatives révolutionnaires, le régime capitaliste a continué sur sa lancée, de mutations en récupérations, de pics de croissance en crises mondiales, le monde est plus malade qu’il ne l’a jamais été :

Les citoyens européens sont supposés être au sommet de la liberté, leurs vies regorgent de choix palpitants. Le choix de liker ou pas, le choix de cette marchandise de merde, ou de la suivante, le choix de ce parti ou d’un autre, qui mèneront de toute façon la même politique, et, évidemment, le choix du type de cancer qui nous fera crever… Une abondance de trajectoires vides de sens pour nous faire oublier notre absence de destin, voilà ce que le capitalisme offre aux « privilégiés » de notre époque. Quant aux autres, les millions de migrants fuyant les guerres, la pauvreté ou les destructions climatiques, ils sont condamnés à l’errance et à la mort aux portes de l’Europe, ou, lorsqu’ils arrivent à passer, à devenir la main d’œuvre exploitée du patronat, ainsi que la chair à canon sur laquelle les polices occidentales expérimentent leurs techniques répressives.

Sur le plan de l’égalité, certaines femmes blanches et cultivées peuvent aujourd’hui devenir des managers comme les autres, et même parfois les dirigeantes de grandes puissances mondiales. Mais le nombre de viols et de féminicides ne diminue pas pour autant, et les femmes racisées continuent à être le ciment inavouable de nos sociétés : laver, soigner, assembler, éduquer, et surtout rester invisibles.

Le travail est plus que jamais imposé comme la valeur cardinale de notre société. Les chômeurs sont traqués, méprisés et éradiqués. Uber, Amazon et leurs armées de managers « créatifs » entreprennent de ré-inventer le fordisme et un mode d’être au monde où chaque seconde est comptée et contrôlée : le culte de l’instant, un présent perpétuel ne laissant aucune place au passé ni à l’avenir…

Au niveau global, on ne peut plus compter le nombre d’espèces animales disparues ou en voie de disparition, pas plus que le nombre d’écosystèmes détruits ou le degré de pollution des océans. Le monde de l’économie continue d’imposer toujours plus la domination de la planète, et la destruction de toutes les formes de vie.

Dans cet univers merveilleux émergent heureusement une forme de conscience lucide, des tentatives de subversions et de confrontations. Un peu partout, la désertion progresse, le capitalisme vert et les politiciens professionnels ne font plus rêver que les idiots ou les salauds. Des alliances se tissent, des migrants occupent des places et des bâtiments, rendent visibles leurs existences et leurs expériences, des femmes s’organisent ensemble pour faire valoir leurs droits, leurs voix et leurs vies. A une échelle plus large, des réformes politiciennes ou des meurtres policiers peuvent entraîner des éruptions politiques massives et inattendues, des grands projets d’infrastructure donnent parfois naissance à des communes libres et à des transformations sensibles de territoires entiers, certaines réunions des dirigeants de ce monde finissent par la mise en échec de milliers de policiers et le saccage en règle de métropoles hyper-sécurisées.

Dans le cadre de ces tentatives, un appel à se rendre à Paris pour un mois de mai sauvage a été lancé par des camarades français. Par ce texte, nous souhaitons répondre positivement à cette invitation, et la relayer auprès de tous nos complices et amies, en devenir ou éprouvées.

Nous nous rendrons à Paris parce que nous pensons que, tout autant que l’état du monde, les mots et l’histoire méritent eux aussi un combat. Il ne s’agit pas de fétichisme ou d’idéalisation d’une période révolue, mais de se nourrir, de rendre vivantes une mémoire, une histoire, des vies et des luttes, ainsi que les désirs et visées qui les ont traversés. Il y a cinquante ans, des milliers de compagnons se sont lancés à l’assaut du ciel. Qu’ils aient finalement échoué à abattre le capitalisme n’est pas l’important. Ce qui nous importe, ce sont les questionnements, les gestes et les élans qu’ils ont posés et comment leur faire écho, comment les respirer, les interroger, les réitérer peut-être. Comme le disent nos amis zapatistes, l’avenir est dans notre passé…

Nous nous rendrons également à Paris pour ce qui s’y joue actuellement, pour soutenir nos camarades français et présenter nos meilleurs vœux à Macron. Elu sur le rejet de la classe politique traditionnelle et se présentant comme « apolitique », Macron met en œuvre depuis un an une politique néolibérale à un rythme frénétique : destruction des droits sociaux, autoritarisme assumé, accroissement du contrôle étatique. Sa première erreur pourrait être de mener actuellement de front des réformes du baccalauréat, de l’accès à l’université et de la SNCF, tout en ayant rendu clair qu’il s’apprête à démolir le secteur public français. Les cheminots, connus comme étant les ouvriers les plus combatifs, ont initié un mouvement de grève qui affectera fortement les transports à partir de début avril. De nombreux lycéens et étudiantes ont commencé à bloquer et occuper leurs écoles et universités. Dans la fonction publique, les travailleurs comprennent que les cadences infernales et le management agressif auxquels ils sont soumis ne feront qu’empirer. Bien sûr le gouvernement double ses attaques politiques d’attaques médiatiques contre les cheminots et les fonctionnaires, alors que les occupations de lycées et d’universités font face à une répression policière et administrative féroce.

Mais la journée de grève et de manifestations du 22 mars 2018 a laissé voir une combativité et une détermination qu’on n’avait plus vu depuis le mouvement contre la loi travail de 2016 : 180 manifs dans toute la France, les systèmes ferroviaires et aérien durement touchés, des cortèges de tête massifs et offensifs. Personne ne peut dire comment ce début de mouvement évoluera dans les semaines à venir, mais il y aura un enjeu certain à créer des ponts, multiplier les rencontres et les mondes à partager : envahir les gares en manif, ouvrir les assemblées, occuper des lieux, trouver des cibles communes… Essayer de sentir et de combattre ensemble, pour que le printemps qui vient dépasse l’histoire et libère enfin un temps dont on s’éprenne.

Rien n’est fini, tout commence…

 

lundimatin

Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news.

Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espresso del 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica.

Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità.

Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti».

Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia…

I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)».

Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda.

Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti.

Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati – l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana».

Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare.

FONTE: GIOVANNI DE LUNA, IL MANIFESTO

Il 1 marzo di cinquanta anni fa gli «storici» scontri davanti alla facoltà di Architettura di Roma. Anticipiamo il racconto che uscirà, completo, con la ristampa del fascicolo sul «’68» il 7 marzo

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Questa non è una ricerca di storia orale su «Valle Giulia»: le fonti sono poche e un po’ casuali, il raffronto con gli archivi e le fonti a stampa è tutto da fare. È un racconto fatto intrecciando la soggettività di oggi e quella ricostruita di allora, con alcune persone che c’erano (e usando la scansione di una memoria orale e codificata del movimento, la canzone «Valle Giulia» scritta allora da Paolo Pietrangeli). Massimo Pieri era studente a fisica, Raul Mordenti a filosofia, Lucio Castellano faceva il liceo al «Tasso». Roberto Rizonico era anche lui liceale, al Castelnuovo, Roberto De Angelis stava laureandosi in sociologia; «Maria Rossi» è lo pseudonimo di una matricola di allora.

Venivano da esperienze diverse: De Angelis e Rizonico avevano esperienze nel Pci; «Rossi» arriva adesso alla politica; Mordenti era stato, fino all’assassinio di Paolo Rossi due anni prima, «un moroteo di base».
Piazza di Spagna splendida giornata/ traffico fermo, la città ingorgata …

«Io e i compagni di fisica ci siamo ritrovati davanti a Babington, a piazza di Spagna, la mattina del primo marzo. Non si era molti quella mattina, ma bisogna tener conto che l’appuntamento generale era direttamente a Valle Giulia, davanti alla facoltà» (Pieri).

«Oggi direi non un corteo immenso. Allora era certo il più grosso che avessimo mai fatto. Quindi diciamo diecimila, cinque o diecimila; un corteo poi che cresceva marciando. C’era il sole, la gente aveva molta simpatia, guardava ‘sto corteo, poi, credo senza ostilità, con curiosità» (Mordenti).

COME SEMPRE, i racconti delle realtà collettive divergono fra loro: soggetti diversi vanno in piazza con idee, informazioni, obiettivi diversi. Soprattutto, è la misura degli stati d’animo che varia a seconda delle storie personali; e ognuno proietta il proprio sullo stato d’animo del corteo.

Dal liceo Tasso, scuola politicizzata e democratica «un fiore nel deserto del panorama delle scuole medie romane, ma eravamo anche preoccupati che, arrivati al dunque, il grosso degli studenti non ci seguisse» (Lucio Castellano), arriva una delegazione, il comitato di agitazione allargato, col permesso del preside (…).

Roberto De Angelis sta facendo la tesi sui giovani marginali romani, e ha dato appuntamento a piazza di Spagna a due giovanissimi e ignari «capelloni»: «Sapevo della manifestazione e pensai di portarmeli dietro. Stavo marginalmente al corteo perché avevo la preoccupazione di rapportarmi a questi due ragazzi» (…)

«Devo dire che io rispetto agli obiettivi del corteo non ero informatissimo; sapevo che bisognava andare lì, protestare, che c’erano questi compagni dentro la facoltà che erano in qualche maniera assediati…», ricorda Roberto Rizonico.

NO ALLA SCUOLA DEI PADRONI/ VIA IL GOVERNO, DIMISSIONI…

(…) «Il corteo era abbastanza festoso, tranquillo, ricordo questo viale che saliva verso la facoltà…» (Roberto Rizonico).

«Formiamo dei cordoni tenendoci sottobraccio, chiacchieriamo distesamente. Nessuno era preoccupato, nessuno pensava agli scontri» (Castellano).

«Il corteo era un corteo di movimento, bello, ancora con ‘potere studentesco’… Un corteo con slogan, diciamo quelli dell’occupazione, della prima occupazione. Quindi dicevamo ‘potere studentesco’…» (Mordenti).

E MI GUARDAVI TU CON OCCHI STANCHI/ MENTRE STAVAMO ANCORA LÌ DAVANTI/ MA SE I SORRISI TUOI SEMBRAVAN SPENTI/ C’ERANO COSE CERTO PIÙ IMPORTANTI…

«Secondo me il ’68 è tutto in questa frase. La politica, è un rapporto affettivo. Quindi è molto stupida la linea di dire, ah, questi hanno messo al primo posto la politica… Stava là la tua affettività. Cioé, l’idea dell’affettività di gruppo – prima non si usava. Ciascuno al massimo aveva un amico solo; e dello stesso sesso. Nel corteo, io stavo con l’amico mio, con cui ho fatto tutte le campagne…» (Mordenti).

«IN QUEL PERIODO le manifestazioni erano tutte molto nervose, tese»: forse ‘Maria Rossi’ rovescia su questo corteo che ad altri pare ’festoso’ la tensione propria di debuttante in piazza, in trasgressione rispetto al proprio ceto. «Però», continua, «nessuno pensava, almeno del gruppo vicino a me, che saremmo andati a fare una vera e propria battaglia». (…).

UNDICI E UN QUARTO AVANTI A ARCHITETTURA/ NON C’ERA ANCOR RAGIONE DI AVER PAURA/ ED ERAVAMO VERAMENTE IN TANTI/ E I POLIZIOTTI IN FACCIA AGLI STUDENTI…

«A via Gramsci, vicino ad architettura, vediamo la polizia e i carabinieri: più numerosi del previsto, e agguerriti, compatti» (Pieri)

«Erano pochi e non troppo bellicosi. Anzi, la cosa che più mi colpì è che erano vecchi, o almeno così mi ricordo. Vecchi e pochi, rilassati pure loro. Noi avanzammo verso l’ingresso della facoltà come fosse la cosa più naturale del mondo. E quelli caricarono, all’improvviso» (Castellano).

01STORIE VALLE GIULIA 8a

HANNO IMPUGNATO I MANGANELLI/ ED HAN PICCHIATO COME FANNO SEMPRE LORO…/

IL TERRENO DI VALLE GIULIA diventa il protagonista dei racconti: i prati su cui fuggiaschi ed inseguitori si rincorrono scambiandosi i ruoli, le scale su cui gli studenti si rifugiano irraggiungibili dalle camionette, i recinti delle accademie britannica e giapponese che si trasformano in rifugi accoglienti, la rotonda su cui le camionette ruotano all’impazzata terrificanti e impotenti.

E ALL’IMPROVVISO È POI SUCCESSO/ UN FATTO NUOVO, UN FATTO NUOVO/ UN FATTO NUOVO: NON SIAM SCAPPATI PIÙ/ NON SIAM SCAPPATI PIÙ …

«Io scappai sui prati… Ecco, questo fu fondamentale, voglio dire la configurazione del terreno, la sua dispersione e irregolarità. Anche i poliziotti furono costretti a spargersi sui prati, le cariche non avevano compattezza, i due schieramenti si confondevano, si mischiavano» (Castellano).

Rizonico, rifugiato dietro la rete del centro giapponese, guarda la scena, osservatore non subito partecipante: «Da questa posizione privilegiata, perché facevo parte del casino ma stavo tranquillo dietro la rete, ho guardato le prime scaramucce. Mi sembrava una cosa molto strana, all’inizio presa come uno spettacolo, anche perché non mi sembrava molto violenta; richiamava un pò un gioco».

A De Angelis vengono in mente i film di John Ford, col nitido schieramento delle forze in campo, a Castellano «una partita di rugby al rallentatore»: «nel ’68 a Valle Giulia, precipitano tutti questi elementi scenografici, e fermano l’immaginario; era una situazione in cui rimano una possibilità di esprimere antagonismo in una maniera, diciamo pure, abbastanza leale» (De Angelis). È un evento sportivo (di qui il tema che ricorre, dei poliziotti vecchi, «poco allenati», lenti), spettacolare, anche ludico, persino con una dose di fair play. (…)

«CIOÉ LORO ERANO veramente delle pippe – erano buffi, erano brutti… Capisci? Loro non si aspettavano, non si aspettavano il terreno, non si aspettavano il tipo di scontro… E’ vero però che la polizia fa presto ad adeguarsi, questa è l’altra lezione; cioé basta fa’ una leva di poliziotti più allenati, basta inventare il blindato… Li io mi ricordo solo una grande allegria; mi ricordo solo il contrattacco» (Mordenti). Era la dinamica di una guerriglia, piccolissima certo, senza niente di particolarmente drammatico e violento, però era una battaglia. Nessuno se ne andava. Tornavano indietro e continuavano ad andare all’assalto e non s’era mai visto dei manifestanti dispersi che rimangono sul posto, si riunificano e vanno di nuovo contro la polizia. Era questo l’elemento che colpiva tutti noi; anche perché nessuno l’aveva organizzato, né predeterminato, né voluto.

E CARICAVA GIÙ LA POLIZIA/ MA GLI STUDENTI LA CACCIAVAN VIA…

(RIZONICO). MI È SEMBRATO un momento unico per questa capacità e voglia di non scappare. Pure io, che stavo dall’altra parte della rete, mi sono sentito in dovere di andare di là e partecipare a questa cosa. Sul momento, ho visto questa polizia che si arrendeva e mi è sembrato come l’avverarsi di un sogno. L’unico fatto era che era come se a un certo punto avessi trovato la forza di non correre, di non scappare.

«Poi è arrivato un pulmino o una jeep dei carabinieri. Si sono fermati, e immediatamente sono stati presi a sassate da tutte le parti. E questi, dentro una macchina, con quel vetro che si è pure rotto, sono stati presi dal panico, sono scesi e sono scappati verso gli altri poliziotti. La macchina senza freno a mano, piano piano se n’è andata giù e si è rovesciata o andata contro un albero, e qualcuno ha tentato di incendiarla» (Rezonico).

«La camionetta è stata abbandonata e una volta abbandonata è stata incendiata. Questa è la camionetta in fiamme di Valle Giulia che si vede sempre nelle foto, nei filmati. (Mordenti).

FONTE: IL MANIFESTO

Cinquant’anni fa un movimento di contestazione politica, sociale e culturale ha scosso la Francia e il mondo occidentale. Oggi si preparano le celebrazioni per ricordare quel momento di svolta. Ma cosa si celebra, mezzo secolo dopo, cosa ha in comune il nostro mondo con la società di allora? Ne parliamo con il giovane storico Xavier Vigna, professore di storia contemporanea all’università della Bourgogne, autore, tra l’altro, di L’insubordination ouvrière dans les années 68. Essai d’histoire politique des usines (Presses universitaires de Rennes), specialista della storia operaia (L’esprit et l’effroi. Luttes d’écritures et luttes de classe en France au XXe siècle, La Découverte; e poi Histoire des ouvriers en France au XXe siècle, Perrin).

«Non sono sicuro che tutti celebrino la stessa cosa. Basta pensare che persino Macron crede di celebrare il Maggio 68, mentre un ex operaio di Sochaux mi ha detto che stanno preparando qualcosa per la primavera, che sarà proprio una protesta contro la politica del presidente della Repubblica. La celebrazione, in altri termini, non sarà né generale né unanime. Un certo numero di protagonisti di allora, come Daniel Cohn-Bendit o il regista Romain Goupil, sono ormai vicini a Macron, cioè sempre più lontani da quello che dicevano nel ’68».

Oggi viene posto avanti l’individualismo come una delle eredità del ’68…
Non credo che il ’68 fosse individualismo, è stata una lotta per la libertà collettiva, un movimento sociale, con aspirazioni individuali, un movimento di emancipazione più che di liberazione individuale. Questa interpretazione si focalizza sugli studenti, è un modo per non parlare degli operai. Ma nel ’68 c’è stato il più grande sciopero della storia di Francia. Credo che nelle celebrazioni di quest’anno la questione dello sciopero non passerà sotto silenzio, come è stato in parte nel 2008. Non vuol dire che siamo alla vigilia di una nuova esplosione, non si può mai sapere quando una rivolta scoppierà anche se ci sarebbero tutte le buone ragioni: l’ineguaglianza è oggi più forte che nel ’68, la violenza sociale e politica anche, la violenza del padronato, dei rapporti sociali. Le strutture di solidarietà collettiva sono smantellate. Il ’68 aveva fissato un paradigma della rivolta. Una nuova rivolta, se ci sarà, non sarà pero’ necessariamente in questo paradigma.

Allora, il punto centrale era stato l’incontro tra studenti e operai?
Da un lato, una parte degli studenti veniva dal mondo operaio, era la prima generazione che aveva accesso all’università, una parte degli studenti erano di origine popolare. Dall’altro, c’era una centralità operaia, quello che succedeva nelle fabbriche era essenziale per il paese. Cattolici, marxisti, tutti guardavano verso le fabbriche. Il 14 maggio ‘68, a Nantes, c’è stato il primo sciopero in una fabbrica e gli studenti hanno portato la manifestazione fino lì e hanno cominciato a discutere. È stato un incontro, qualcosa di profondamente sovversivo. Adriano Sofri lo ha ben riassunto: «Prima del Sessantotto c’era scritto Vietato l’ingresso dappertutto. Le case chiuse, grazie a una brava signora, erano state abolite: ma le caserme, i manicomi, gli ospedali, le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro, gli uffici pubblici, le scuole, erano tutte case chiuse. Il Sessantotto le aprì. I non addetti ai lavori vi entrarono e guardarono. Quel po’ di trasparenza che l’Italia si è guadagnata viene da lì». Questo vale anche per la Francia: gli studenti sono andati dove non sarebbero dovuti andare, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle prigioni. Non è il fenomeno più massiccio, ma il più sovversivo, il fattore che ha il maggiore potenziale di contestazione.

Qual era il clima che ha permesso l’esplosione?
Oggi parliamo dei «30 anni gloriosi», ma dimentichiamo che allora le condizioni di lavoro erano molto dure, che c’era una durezza del gollismo, un regime autoritario, una forte brutalità sociale. Siamo sei anni dopo la fine della guerra d’Algeria, la polizia uccideva i militanti algerini e francesi. Nelle fabbriche le condizioni di lavoro erano molto dure, era un processo di modernizzazione, il sindacalismo non era riconosciuto : i militanti erano spesso licenziati. L’autoritarismo era dappertutto, nelle fabbriche, nelle università, nelle famiglie. È per questo che rifiuto l’espressione «30 anni gloriosi». Un po’ dappertutto, l’occidente trionfante viene contestato dall’interno, dai giovani e dagli operai, anche negli Usa ci sono rivolte operaie. Il modello politico, economico e sociale occidentale entra in crisi. Una crisi che dura tuttora, come se la realtà di questa crisi avesse lentamente eroso le possibilità di un’alternativa. Nel ’68 c’era un’alternativa, mentre oggi tra i più giovani un «altro mondo» sembra impossibile. Allora c’era l’alternativa sovietica, anche se non era certo un modello, Cuba, il Che, il capitalismo non sembrava la sola possibilità.

Allora un terzo della popolazione era giovane. Oggi viviamo in società invecchiate. Conta questo fattore?
La gioventù era fattore di dinamismo, sono anni di teorizzazione intensa, anni filosofici, mentre oggi la teoria è passata in secondo piano, questo spazio di pensiero si è ristretto. Oggi lo spazio di contestazione non punta più allo stato. La contestazione, come a Notre-Dame-des-Landes per esempio, è una zona di sottrazione più che di confronto. Nel ’68 c’era l’idea di costruire un partito adeguato, che non era il Partito comunista, per prendere il potere. Oggi questa questione è chiusa. Il lavoro di aggregazione diventa così più complicato. La sconfitta ideologica minaccia di pesare sull’alternativa. Allora la sinistra era intellettualmente egemonica, oggi è la destra, anche il Ps è di destra, come Macron, Renzi, l’Spd.

Cosa ha da dire il ’68 alle lotte di oggi?
Allora la mobilitazione operaia ha permesso passi avanti molto importanti, come lo Statuto dei Lavoratori in Italia. Oggi si torna indietro. Dei temi affrontati allora restano aperti: la salute e il diritto al lavoro, la mobilitazione a favore degli immigrati, già presente nel ’68, come l’eguaglianza uomo-donna. C’è un’attualità sovversiva del ’68, un’attualità contestatrice a cui potremmo ispirarci, anche per andare oggi in posti dove non dovremmo andare.

FONTE: Anna Maria Merlo, IL MANIFESTO

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