Addii & Ricordi

Per Giovanna Marini la canzone popolare non è solo repertorio in cui le classi non egemoni hanno voce nella storia, ma un linguaggio da imparare per il presente e per il futuro

Prendi un gruppo di amici d’estate al mare. Dopo cena, una di loro prende la chitarra e dice, «Vi dispiace se suono qualcosa?». Permesso concesso volentieri, anche se non se la tira per niente, alla signora con la chitarra.
Dopo tutto è senza ombra di dubbio la più grande musicista italiana dell’ultimo mezzo secolo e si chiama Giovanna Marini. C’è una poesia di Emily Dickinson a cui pensavo spesso quando mi trovavo vicino a lei: “A nearness to tremendousness”, stare vicini a qualcosa di immenso, che ti invade e ti sovrasta – e che al tempo stesso ti sta accanto, è familiare, e ti tratta come se tu fossi un suo pari.

Ho detto che è stata la più grande musicista italiana, non la più grande musicista “folk” e basta. Giovanna Marini la musica ce l’aveva tutta. Figlia di Giovanni Salviucci, uno dei compositori importanti del nostro ‘900, allieva di Andrés Segovia all’Accademia Chigiana, nasce come musicista classica, poi (raccontava) scopre la canzone popolare grazie a un incontro con Pier Paolo Pasolini. Nel 1964, è col Nuovo Canzoniere Italiano sul palco di Spoleto, in quel concerto intitolato “Bella ciao” che fa scoprire a tanti di noi l’esistenza di una musica popolare multiforme, radicale, insopprimibile, e bellissima, proprio come era lei.

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Dentro la musica popolare, però, Giovanna Marini ci stava a modo suo, creativo e non subalterno. Già dai tempi di “Bella ciao”, impara e ricanta le canzoni popolari ma sente anche il bisogno di inventarsele – come quel capolavoro assoluto che è “Lu cacciatore Gaetano”, che cantava sempre quelle sere al mare. A mano a mano che la frequenta, si accorge che la canzone popolare non è solo un repertorio in cui le classi non egemoni danno voce alla propria presenza alternativa nella storia, ma un linguaggio, una grammatica che va imparata e sviluppata per andare avanti, per parlare del nostro tempo e del futuro.

Una volta, ascoltando i nastri delle registrazioni sul campo che avevo cominciato a fare attorno a Roma, mi disse: «Questa è la mia placenta». La voce dei contadini, degli emigranti, degli sfruttati, come nutrimento della sua stessa creatività di artista colta – e la sua creatività colta come strumento per far ascoltare quella voce. Riconobbe musica nelle grida di una donna di borgata che urlava contro la polizia dalle finestre di un palazzo occupato e ne trasse gli elementi di stile su cui costruì quel mix di rap urbano e madrigale rinascimentale che ci ha dato ”I treni di Reggio Calabria” o i suoni con cui rivestì “Le ceneri di Gramsci” del suo amato Pasolini.

Aveva capito che la diversità della cultura popolare sta sia nelle storie che racconta, sia nella voce con cui le racconta; nel riproporre i canti, li “disarticolava” e ne estraeva quegli elementi di differenza, quelle unità stilistiche in cui si annidava una insopprimibile resistenza, esistenziale prima ancora che politica, e che le davano il linguaggio anche per inventare musica nuova e “andare più in là”.

Giovanna Marini è stata anche una grande artista della parola. Intanto perché dalla musica popolare aveva imparato che musica, parola, voce, corpo sono un’unità inscindibile (proprio a proposito di Pasolini spiegava che i nuclei della sua composizione partivano dalle sillabe delle parole). Ma soprattutto perché la sua creatività andava oltre. Era un’affabulatrice irresistibile, che rispettava i fatti solo nella misura in cui si adeguavano a verità più vaste e radicali, e se lo poteva permettere perché aveva quasi sempre ragione. Coglieva significati profondi attraverso percorsi imprevedibili che non avevano a che fare tanto con la logica quanto con l’intuizione irresistibile del genio, e li restituiva attraverso il simbolo e l’immaginazione. Nessuna analisi antropologica spiega le ambiguità e la necessità del rituale come la sua ballata della “Nave”. Tutti quelli che si occupano di uso pubblico della storia dovrebbero ascoltare la sua “Ballata dell’eroe”, l’arazzo che racconta le imprese dell’eroe e le distorce fino a che è lui ad adeguarsi alla rappresentazione – e morirne.

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I testi delle sue ballate e canzoni sono poesia civile altissima, come la preghiera laica di “Io vorrei” – il desiderio di un Dio che «con una mano gigante spazzasse via tutta quella gente che piega la legge ai propri interessi, poi dice a noi di fare lo stesso, che ripulisse terra mari fiumi montagne, cielo aria firmamento… Poi si fermasse a guardare un momento e regalasse un altro pianeta a chi non vuole né rubare né sporcare né corrompere né convincere né costringere né sconfiggere ma solo vivere, vivere con altra gente e tanto tempo e spazio attorno a sé».È
Una preghiera laica, ma sempre preghiera. Giovanna Marini era una cristiana profonda e insofferente, e una comunista a modo suo, mai disciplinata, sempre fedele. È per questo che può prendere un canto religioso abruzzese sulla morte di San Donato e trasformarlo nel laico e sacro “Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini” (e accostarci una melodia presa da Schubert).

Al di là della teologia e della politica, questa fede intrecciata la viveva nel suo modo di essere artista, sempre in comunione con gli altri (la musica l’ha composta sempre per cantarla con altri, dai meravigliosi quartetti di voci femminili ai grandi cori di Testaccio, al coro di comunità che ha messo in piedi a Monteporzio quando è andata a vivere lì). Ha sempre lavorato in contesti di condivisione e ha sempre insegnato: ha cominciato dal Nuovo Canzoniere Italiano, ha partecipato alla fondazione del Circolo Gianni Bosio, ha insegnato dieci anni alla Sorbona e, soprattutto, ha dedicato gli ultimi decenni della sua vita alla Scuola popolare di musica di Testaccio, ai cori di canti contadini e di canti sociali in cui si sono formate alcune delle nuove voci più significative della musica popolare e dintorni.

Una sera, a casa di un comune amico musicista, qualcuno mise su un disco di Bruce Springsteen. Giovanna viveva in un mondo sonoro alternativo, non l’aveva mai sentito. «Voce interessante», disse: «È uno importante?». Sì, Giovanna, è importantissimo. Ma mai quanto te. Mai quanto te.

* Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto

Lo sceneggiatore (per Kusturica), poeta, scrittore iugoslavo è morto (1944-2024): se ne va un grande artista, un uomo coraggioso, un combattente

 

Con Sidran, morto il 23 marzo scorso a 79 anni, è scomparso uno degli ultimi giganti della letteratura, del teatro e del cinema prima jugoslavo e poi bosniaco/bosgnacco, e cioè uno degli ultimi testimoni di un mondo che fu: tra jugonostalgia, come si chiama il sentimento di chi vorrebbe tornare ai tempi di Tito, non per ideologia ma per appartenenza a un cammino di speranze collettive, sia pure tradito, sia pure deviato; e nostalgia per un presente che sfugge di mano e in cui una Bosnia al centro degli interessi mondiali durante un ventennio si ritrova ora sepolta nell’oblio e nel disprezzo, preda del trionfo di ipocrisie globali e di mafie politico-religiose locali.

Di questo ci ha parlato e ha scritto Sidran, con l’anima spezzata per una guerra che ha distrutto due mondi, quello di prima e quello a venire. E di un assedio che, contro la città di Sarajevo e la Bosnia intera tra il 1992 e il 1995, riportò la ferocia esplicita, lo stupro e la pulizia etnica nel cuore dell’Europa.

Un leone è stato Sidran, indomito, nella grandezza degli errori e nella forza di una terra da lui esplorata con le armi della poesia. Armi che non tacquero nemmeno quando altre armi, e cioè i cannoni e i fucili puntati su Sarajevo dalle alture intorno, si misero a falciare la vita nella/della capitale bosniaca.

Anche nel passato socialista, però, la violenza non era poca e la jugonostalgia ama la verità: la verità di lotte anche dentro il movimento resistenziale, di prove micidiali, tra guerra e un dopoguerra segnato dallo scontro tra Tito e Stalin, dai crimini di Goli Otok, dal riavvicinamento con Mosca, dalla normalizzazione degli anni Sessanta-primi Ottanta e, poi, l’incubo. Esemplare la vicenda del partigiano comunista Juraj Marek che durante la resistenza «rimase a guardare la fucilazione» del proprio stesso padre, un ustaša -racconta Sidran conversando con Piero Del Giudice a Sarajevo nel 1993-, che fu aguzzino a Goli Otok contro il padre di Sidran e gli altri «cominformisti», poi «brillante pedagogo» e infine suicida nel 1992… In Papà è in viaggio d’affari (1985, film con la regia di Kusturica e la sceneggiatura di Sidran, e che Silvio Ferrari, attentissimo traduttore in italiano dal bosniaco-croato-serbo, ritiene che dovesse avere il titolo Papà è in viaggio di/per servizio, non esistendo «viaggi d’affari» nella Jugoslavia socialista) si riprende la storia della famiglia Sidran, con il padre finito nelle mani degli sgherri antistalinisti di Tito.

Il film, il secondo della coppia Kusturica-Sidran dopo Ti ricordi di Dolly Bell? (1981, Leone d’oro a Venezia, migliore opera prima), vinse a Cannes nel 1985. Le sceneggiature di questi due film, insieme ad altro materiale, possono essere lette in italiano in quel libro «mostruoso»che è Romanzo balcanico (Aliberti, 2009, pp. 927), curato da Piero Del Giudice (morto nel 2018, poeta e giornalista) con traduzioni di Silvio Ferrari, Nadira e Adem Šehovic, Alice Parmeggiani, ed altre/i. Grazie a Del Giudice e a chi abbiamo appena citato, e inoltre alla Casa della poesia di Baronissi (in provincia di Salerno), la poesia di Sidran è arrivata in Italia. Non le/i ringrazieremo mai abbastanza.

Sidran leone e gigante, ma soprattutto poeta dell’umanità schiacciata dalla guerra in La bara di Sarajevo/Sarajevski tabut (ed. italiana ADV, 2002) e Il cieco canta alla sua città (ed. italiana Saraj, 2006). Bara/tabut: «Da una base semitica T-B-T sono venute fuori in molte lingue (arabo, ebraico, aramaico, copto…) diversi significati: cuore, petto, seno, nave, barca, cassa, scrigno, casa votiva (…) in Bosnia, oggi, è la tradizionale cassa da morto dei Bosniaci (musulmani) (…) È attraente e suggestiva la somiglianza fra la forma del tabut e la configurazione del sito spaziale sul quale da più di cinquecento anni esiste la città di Sarajevo…» Una città-bara offerta all’assedio degli Animali.

Leggiamo in nota alla poesia «La preghiera di Sarajevo»: «Animali: così la gente di Sarajevo chiama quelli che dall’alto bombardano la città»; e poi, in questo stesso testo: «…Togli gli Animali, dai declivi dei colli, toglili. / Togli gli Animali, ti scongiuro, Signore – / ma non toccarmi il maiale né il cinghiale, / non toccare l’usignolo, né il variopinto canterino di casa / (…) Toglili, Signore / da questo e dall’altro mondo. / Allontanali, / e aiutali.» In questa città oppressa, si muove il cantore cieco: «…C’è forse qualcuno che conosce meglio di me questa città? / Di me, Signore, al quale hai dato di non vedere mai / quella che ama?»… (in Il cieco canta la sua città). Ma gli Animali non vennero tolti, né dal Signore né da entità più terrene, e per tre anni furono loro a decidere della sorte dei sarajevesi. Ma nel 1996 nasce il figlio Tarik (Sabija ne è la madre – «Mi sono avvolto / nel bozzolo / di un tardo amore…», in «Tarik»), e rinasce la vita nella città senza assedio, dopo l’ambigua Dayton.

Da allora, altre miserie: le rovine esaltanti si trasformarono nel trionfo del nazionalismo affaristico, come in ogni postdemocrazia che si rispetti, in ogni democratura. Ora la postdemocratica Bosnia ha un monumento, il monumento-Sidran, ma Sidran saprà fuggire dalla gabbia in cui lo hanno messo, e in parte si è messo da solo, per disperazione, negli ultimi anni. Noi sappiamo che questo accadrà: se è vero che, come nel titolo di una delle opere teatrali più crude scritte da Sidran, A Zvornik ho lasciato il mio cuore (siamo nel conflitto degli anni Novanta – un «cetnico l’afferra per i capelli, e lei strilla, ma lui l’ha gettata per terra, e la colpisce con dei calci alla schiena. Lei continua a strillare, ma da terra riesce ad agguantarlo per lo scroto, tanto da minacciare di strapparglielo (…) alla fine riesce a estrarre la pistola – ed esaurisce tutto il caricatore sul corpo di Vera…»), questo stesso cuore non ha cessato di battere, in lui e nell’umanità rinnovata non dalla guerra ma contro la guerra, anche contro questa che c’è.

* Fonte/autore: Gianluca Paciucci, il manifesto

Con queste parole, quattro anni or sono, concludendo “Storia di un comunista 3 – Da Genova a domani” (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle grazie editore), Toni parlava con serenità della propria morte

di TONI NEGRI

Mi sembra talora di essere completamente estraneo al mondo che mi sta attorno. Curiosa sensazione per qualcuno che ha riempito tre volumi di una storia di intensa immersione nell’esistente. Probabilmente, mi dico, avviene perché sono vecchio – per quanto mi agiti nel cercare di tenere aperta la comunicazione con amici più giovani e svegli, la mia percezione è ottusa. Poi però mi chiedo: non può darsi che questa mia considerazione del mondo e questa convinzione di estraneità non siano vere? Vere? Intendo che quella percezione di estraneità non dipenda da me, dalla mia insufficiente o ridotta attenzione, ma che il mondo che mi circonda sia davvero brutto e inconsistente. Non sarà che alla mia fiducia nell’essere, alla mia ammirazione per quello che è vivo, non corrisponda più qualcosa che si possa amare?

Brutto, bello, vivo, amato… sono aggettivi di difficile definizione e di altissima relatività. Forse allora, per confermare il mio dubbio, a questi termini non dovrei affidarmi. Forse l’unico aggettivo che vale, fra i molti che fin dall’inizio utilizzo, è “estraneo”. Un effetto di straniazione è quello che provocano in me linguaggi e umori, non importa se individuali o collettivi, che risuonano nella società, fuori di me. Penso di esser sordo e di sentire suoni confusi. In realtà, un po’ sordo sono ma i suoni confusi non li sento con l’orecchio ma con l’anima, con il cervello. Mi sfugge il mondo attorno. Ho avuto una lunga vita, ho conosciuto contraddizioni enormi e conflitti mortali, sempre tuttavia sapevo di che si trattava, gli elementi della contraddizione e del conflitto stavano dentro un quadro noto, comunque significante – perché allora il significato degli eventi che oggi si dànno attorno a me s’iscurisce e mi sfugge? In cosa consiste la loro insignificanza? A rappresentare questa estraneità c’è un mondo nuovo. Un mondo nuovo ma affaticato, prostrato davanti alle difficoltà fisiche, politiche e spirituali, della propria riproduzione. Difficoltà economiche e caduta di referenti politici, collettivi, di riferimenti di valore. La comunicazione è divenuta frenetica ma i significanti si scolorano nella velocità. C’è confusione negli spiriti. C’è corruzione nei linguaggi. I vecchi riferimenti di lotta sono scomparsi: destra e sinistra, sindacati e partiti, senso e significato della storia… questo è il mondo attorno a me. Non dipende dalla mia vecchiaia, dalla mia stanchezza: è così.

Quando rifletto su questa fenomenologia del presente, quanto più affino lo sguardo, tanto più l’unica, la sola figura valutativa e descrittiva che mi sembra investire il mondo dei significati e permettere di descriverlo, è quella del nihilismo. I segni mancano di significato, i visi mancano di sorriso, i discorsi sono vuoti. Non sappiamo di cosa parlare. Vedo sul viso altero dell’interlocutore una smorfia – è sempre la stessa che trovo in gran parte dei miei interlocutori. Sicché è gran festa quando se ne trova uno indenne da questa patologia. La gente è disperata. Quando ripenso a coloro che ai miei tempi, ormai antichi, hanno sviluppato concezioni nihiliste per la loro filosofia, ed hanno spesso concluso, nella krisis, al pessimismo ed all’attesa della catastrofe (ed i miei lettori sanno con che continuità e con quale asprezza li abbia combattuti) – tuttavia quando ripenso a loro, quasi mi commuove ora la loro malattia che era consapevole e sofferta. Mentre ho oggi difronte a me personaggi la cui etica è nihilista e catastrofica, non come risultato di un lavoro critico ma perché la loro esistenza è senza consistenza, anche quando, frequentandoli, sembra che vivano una vita qualunque. Sono senza passioni, in realtà, sono senza significanti, sono senza fede – per ben che vada pensano che il linguaggio debba essere depurato, lavato e rilavato e condotto a purezza significativa – la purezza del secchiaio dentro al quale hanno fatto le pulizie. Gettano davvero il significante con l’acqua sporca del bagno. Gli resta quell’ideale di purezza – il “reine“della ragione, della sensibilità, del concetto – che è diventato aggettivo del vuoto, del mero resto dopo lo svuotamento dell’essere. Quando mi guardo attorno mi sento circondato da questi zombie, da milioni di zombie.

È davvero nuovo questo mondo? Certo, si è affermato da poco, è in crescita, presto questo “nuovo” occuperà tutto. Ma non è nuovo. Ho 85 anni. Fino ai miei 25-30 questo “nuovo” mondo c’era, in forme solide ed efficaci, il mondo dell’infra due guerre e del secondo dopoguerra. Era quello che mi ha oppresso e contro il quale ho combattuto. Lo avevamo messo in soffitta e parzialmente distrutto, ora ricompare egemone, questo mondo vecchissimo. È quello fascista della mia infanzia e giovinezza. Era il mondo nel quale “patriarcato-sfruttamento capitalista-sovranità della nazione” investivano, da padroni, la vita e la testa della gente. E tradivano la generosità e l’intelligenza dei giovani per indurli a illusorie avventure: il patriottismo, la nazione, la razza, l’identità, la mascolinità erano assunti come valori superiori. Si chiama fascista questo mondo, non solo conservatore ma reazionario, non solo religioso ma fanatico nel distruggere ogni libertà. Un mondo dove la fatica di vivere dominava su ogni altra passione e una greve disciplina costringeva le anime all’insensibilità nel dolore. L’oppressione spingeva all’insignificanza. È ridivenuto così il mondo presente?

Ma se è così, come potranno leggermi, come potranno comprendermi i ragazzi di oggi? Il mio libro sembrerà loro affondare in lontane profondità, difficilmente accessibili. Sarà per loro un documento archeologico. E il mio editore, perché deve pubblicare questo testo al massimo degno di archivio? C’è ancora un numero sufficiente di vecchietti che apprezzerà questo racconto e ringrazierà l’editore per averlo pubblicato?

Quando – non è passato molto tempo – un orrido personaggio fascista è asceso alla Presidenza di un grande paese, il Brasile, ad alcuni giovani amici che chiedevano: “Che cosa possiamo fare? Come comportarci per resistere?”, ho risposto: “Non abbiate paura”. È la condizione per costruire una grande ed efficace resistenza. Il fascismo si regge sulla paura, produce paura, costituisce e stringe il popolo nella paura. Non aver paura: questo è quanto bisogna esser capaci di dire alla gente, fra la gente, nella moltitudine che oggi soffre il ritorno della barbarie fascista, anche da noi, sotto il nostro sole. Non aver paura di spezzare la prigionia del linguaggio vuoto che ci viene imposto e di ridere dell’autorità, ovunque si presenti con la grottesca maschera fascista. Non aver paura significa liberare le passioni e così riempire quelle forme linguistiche che il processo di assoggettamento fascista ha lasciato vuote. Sembra che il secolo si sia oscurato: respingere la paura, produrre resistenza, è prima di tutto dissipare le ombre, riconquistare senso delle parole. Riempirle di cose, di realtà, di libertà. Soggettivarle. Ma l’operazione principale consiste nel riconoscere che il fascismo è sempre quello, è sempre ripetizione della violenza per bloccare la speranza, è il vecchio – i disvalori assoluti del patriarcato, della violenza dello sfruttamento e della sovranità – che viene riproposto illusoriamente per imporlo come necessità dello spirito ed obbligo della morale mentre è fondamento di una cultura di morte. “Viva la morte”, è la parola d’ordine del fascismo.

“Viva la vita”, è la risposta di chi non ha paura. Tornerà la primavera – ritorna sempre! Il fascismo sembra eterno ed in effetti (pur breve) sembra una troppa lunga pena – ma è fragile, il fascismo. Scontrandosi con la passione del vivere liberi, quanto poco può tenere. La libertà si impone necessariamente contro il fascismo, perché con la libertà staranno le altre passioni politiche forti, come quella per l’eguaglianza e quella per la fraternità. Tornerà la primavera e sarà una vera stagione del nuovo. Perché se il fascismo è sempre uguale, la primavera della libertà è sempre nuova, sempre diversa, sempre piena di doni.

Guardate al passato, guardate di nuovo alle grandi stagioni di lotta. Potremmo andare tanto indietro… due esempi bastano. Il 1848 e il 1968 sono date che per la mia generazione sono state fondamentali. La prima, l’inaugurazione del socialismo in Europa, dentro e contro lo sviluppo delle contraddizioni venute dalla rivoluzione francese e dalla maturazione dell’accumulazione capitalista. Da questo incontro era sgorgato l’antagonismo di libertà contro eguaglianza e quello di eguaglianza come fraternità dei popoli versus libertà come nazionalismo e sovranismo. I reazionari sempre da una parte, fissi, bloccati nella difesa dei loro privilegi; i rivoluzionari che per la prima volta innalzavano la bandiera rossa della fraternità fra i popoli. Un secolo di lotte feroci è seguito al ‘48. Il socialismo si è affermato, è stato poi sconfitto, ha comunque lasciato un’enorme eredità di beni pubblici, meglio detto, di “comune” per le nuove generazioni. È su questo terreno di innovazione e di potenza, che si è aperto il ’68. Il “comunismo” è stato il suo orizzonte. Si trattava di rendere comune quello che era pubblico, di ottenere più comune dal pubblico conquistato nel gioco democratico. Il frutto del socialismo andava moltiplicato.

Ci siamo stati dentro e ci staremo dentro a questa battaglia, nostra e dei nostri figli. È stata nuova quella ventata di volontà democratica che ancora una volta ha messo sottosopra il mondo. E si ripete: ogni dieci anni, più o meno, abbiamo grandi episodi, diffusi e diffusivi, di rivolta. I cicli Kondriatev sono finiti. I cicli di soggettivazione del comune hanno preso il sopravvento. Ogni volta adeguando la resistenza al superamento di ostacoli predisposti da una repressione divenuta ormai “scienza di governo”. Ogni governamentalità è un’operazione capitalista, sovrana, per bloccare e imbragare i movimenti produttivi del lavoro vivo. Gli risponde un rinnovato attacco da parte dei movimenti dei cittadini-lavoratori ed una capacità di mettere a frutto le conquiste ottenute.

Guardiamolo con attenzione, questo gioco che dopo il ’68 si è messo in atto. Resistenza dei lavoratori per conquistare la soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni, poi repressione. Ma riesce la repressione a raggiungere l’obiettivo di bloccare l’azione sovversiva? Spesso fummo costretti a dare risposta positiva a questo interrogativo. Ma anche quando il movimento sovversivo sia bloccato, andiamo a vedere se davvero la lotta abbia avuto una risultante negativa (o relativamente tale). Ebbene, non è così. Le riforme che le lotte, anche perdenti, accumulano, sono importanti, sono un aumento del “comune” nelle mani delle moltitudini del proletariato. Attenzione a vecchie voci che vengono dal passato: significa, la positività di questo processo, che si deve essere “riformisti” nella conduzione del movimento? Assolutamente no. I riformisti non accumulano nulla di comune, accumulano solo sconfitte e demolizioni del comune, collaborano alla governance capitalista e insozzano e pervertono le lotte. Di contro, solo le lotte di resistenza che divengono sovversive, accumulano la ricchezza comune e la suddividono fra istituzioni del comune. Circondati da istituzioni del comune, un certo progresso lo abbiamo conquistato per la nostra vita e per quella dei nostri figli. Lo testimonio volentieri nella mia vecchiaia.

Ma per tenere aperto questo dispositivo del “comune”, della sua conquista e della sua accumulazione, la storia delle lotte ci insegna che dobbiamo organizzarci. Ho passato la vita provando a risolvere questo compito. Non credo di esserci riuscito – vale a dire, a scoprire una formula organizzativa che avesse l’efficacia del “sindacato” nella Seconda Internazionale o del “soviet” nella Terza. Abbiamo identificato il terreno della moltitudine come insieme di singolarità, operante come sciame, come rete, probabilmente organizzabile in una vera democrazia diretta. Non siamo tuttavia mai riusciti ad andar oltre esperienze “in vitro“. Ma la strada è quella e già percorrerla permette alla dialettica di resistenza e sovversione, di destabilizzare il potere nemico e di destrutturarne il sistema produttivo, quindi di disporsi alla conquista del comune e alla costruzione di istituzioni del comune. La strada da percorrere è ancora lunga e i vuoti di organizzazione, i tempi vuoti dell’impresa sovversiva, si pagano.

Ci scontriamo con un fascismo risorgente. Sappiamo che la lotta si fa difficile. Non abbiamo paura. Stiamo sulla linea del fronte. Pensiamo che la nostra resistenza è efficace. Ma bisogna prepararsi alle estreme conseguenze alle quali il fascismo può arrivare: la guerra. Chi ha vissuto la guerra, chi l’ha subita, sa che la guerra è, è stata e sarà un’irresistibile macchina di distruzione. È questa volta, dell’umanità intera, dati i mezzi bellici di cui le grandi potenze capitaliste possono servirsi. Guerra fra potenze = distruzione delle radici dell’umano. Il fascismo può produrre questo disastro dell’umano, questo massacro della sua storia sul pianeta. Combattere il fascismo è quindi battersi in favore dell’umano. Senza mai dimenticare che il fascismo è capace di distruggerlo, quando avverte che le regole patriarcali della società, la struttura del comando per lo sfruttamento, e la sovranità del proprio interesse nella forma politica dello Stato, sono messi in pericolo. Concentriamoci su questo punto ed organizziamoci per non subire la decisione di guerra di un capitale incrociatosi al fascismo. Evitare la guerra, combattere e vincere sul capitale senza passare attraverso la guerra è il nostro compito. Come fare? Il pacifismo sarà la nostra arma perché la pace è il nostro desiderio.

Ho vissuto e subito il fascismo. Il mio cuore è offeso e il mio cervello traumatizzato quando ripenso quella esperienza. Ho vissuto poi, dal ’68 ad oggi, senza paura del fascismo. I crimini che gli venivano imputati, la Shoah in primo luogo, impedivano che fosse nuovamente desiderato, la gran massa delle popolazioni sembrava averlo definitivamente ripudiato. Solo i funzionari della sovranità riuscivano ad accompagnare nel ricordo (e ad essere conniventi nelle pratiche) quelle condotte criminose – talora rinnovandole. La repressione del ’68 europeo ne fu un esempio. Io comunque non ho mai avuto paura, ho solo sviluppato disprezzo per quei delinquenti. Oggi la cosa è diversa: una nuvola di fumo solforoso, un’atmosfera spessa, impossibile da attraversare con lo sguardo, ci circonda. Il fascismo è ubiquo. Dobbiamo ribellarci. Dobbiamo resistere. La mia vita sta andandosene, lottare dopo gli 80 diviene difficile. Ma quel che mi resta dell’anima, mi conduce a questa decisione.

Nella resistenza al fascismo, nel tentativo di rompere questo dominio, nella certezza di riuscirci, questo libro è stato scritto. Non mi rimane, amici miei, che lasciarvi. Con il sorriso, con dolcezza, dedicando queste pagine, questi tre volumi che sto concludendo, a quegli uomini virtuosi che nell’arte della sovversione e della liberazione mi hanno preceduto, e a quelli che seguiranno. Abbiamo detto che sono “eterni” – l’eternità ci abbracci.

Fonte: Euronomade

 

foto di Tano D’amico

Anarchico, filosofo, rapinatore. Muore a 86 anni Alfredo Bonanno, il più importante teorico dell’insurrezione: tra esaltazioni della violenza e polemiche con Sartre

 

Seduto al banco degli imputati in un’aula del tribunale di Roma il 15 dicembre del 1999, un mercoledì, Alfredo Bonanno si sente domandare dal procuratore Antonio Marini quale sia la sua idea di rivoluzione. La risposta è un compendio teorico che abbraccia quasi due secoli di pensiero libertario, tra dotte prolusioni e citazioni d’alto rango. Il pm non è soddisfatto, però. Insiste sul merito della questione. Dice che, al di là delle pur ben argomentate teorie, il punto riguarda una bomba, che per poco non causava una strage di poliziotti, e un sequestro di persona finito male, con la morte della persona rapita. È così dunque che si fa la rivoluzione?

«Non so cosa dirle», fa Bonanno. Marini allora insiste: «Bisogna abbattere anche gli individui?».
«Ma è logico», risponde l’imputato, come stesse parlando della necessità di aprire l’ombrello quando piove.
Non c’è mai stato sottinteso nelle parole del siciliano Bonanno – morto ieri mattina a Trieste, dove abitava ormai da diversi anni con la moglie Annalisa -, è sempre stato tutto chiaro, spiegato per filo e per segno, senza metafore, senza mezze parole.

ERA IL 1977 quando nel classico La gioia armata (dodici edizioni in italiano, svariate traduzioni, almeno centomila copie vendute) si domandava in maniera sarcastica per quale motivo gli attentatori di Indro Montanelli gli avessero sparato alle gambe e non in testa: «Sbrigati ad attaccare il capitale, prima che una nuova ideologia te lo renda sacro. Sbrigati a rifiutare il lavoro prima che qualche nuovo sofista ti dica, ancora una volta, che il lavoro rende liberi. Sbrigati a giocare. Sbrigati ad armarti», era l’invito al lettore. Il volume, ovviamente, fu sequestrato quasi subito e lui, l’autore, venne condannato a un anno e mezzo. Non era la prima volta: cinque anni prima, per un pezzo che incitava alla rivolta uscito su Sinistra Libertaria, di anni di condanna ne prese due. Nei ’90 farà parte del mucchione degli imputati del processo Marini: decine di persone a processo; una complicata inchiesta condotta dal Ros; un teorema che metteva insieme anarchici e banditi senza particolari affiliazioni politiche; una storia di rapine, sequestri, riviste, volantini, comizi, bombe esplose, bombe difettose, bombe solo ipotizzate. Tutto per dimostrare l’esistenza di una banda armata che non è mai esistita, l’Orai, «Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionalista», di cui lui, Bonanno, sarebbe stato il capo e l’ideologo. In realtà era solo un’idea, l’unica traccia esistente dell’Orai è nella sbobinatura di un incontro tenuto in Grecia al quale aveva partecipato anche lo stesso Bonanno. Alla fine non se ne fece niente. Del resto ogni tentativo politico di mettere insieme gli anarchici insurrezionalisti è sempre stato un buco nell’acqua e ancora oggi quell’area è un arcipelago frastagliato di piccoli collettivi, singoli individui, gruppetti che talvolta neanche si parlano tra loro.

Infatti il processone di Marini, cominciato tra squilli di tromba, arresti in mezza Italia e capi d’accusa altisonanti, finì con poche condanne per singoli fatti, con l’associazione sovversiva solo sullo sfondo, priva di reale concretezza nelle prove (e nelle sentenze). Bonanno ne uscì con una condanna a sei anni per apologia e propaganda sovversiva, senza però reati associativi a suo carico.
L’ultima impresa è dell’ottobre 2009, quando venne arrestato a Trikala, in Grecia, per due rapine. Condannato a quattro anni dal tribunale di Larissa, verrà scarcerato quasi subito perché ormai aveva superato i 70 anni di età.

LA SUA CARRIERA di uomo d’azione finisce lì, ma quella di teorico è andata avanti fino alla fine, soprattutto grazie alla casa editrice Anarchismo, che ha dato alle stampe tutti i suoi scritti (si contano nell’ordine delle decine) e ospitato svariate curatele.
A dimostrazione di una statura intellettuale fuori dal comune, una volta Bonanno fece arrabbiare – e pure parecchio – niente meno che Jean-Paul Sartre. Nel 1978, per le solite edizioni Anarchismo, uscì un libro a firma del filosofo francese, per la traduzione di tale Giuseppe Alvisi. Titolo: Il mio testamento politico. Dedica in esergo: «Ai miei amici anarchici da me ingiustamente disprezzati e alla memoria del mio amico Camus», a testimonianza di un ravvedimento teorico e della decisione di abbracciare i sin lì sempre disprezzati ideali libertari. Il testo, peraltro ristampato di recente, è un lungo e sanguinario elenco di nefandezze contro lo Stato, contro la religione, contro l’aristocrazia, contro la società borghese. Si evoca la violenza rivoluzionaria più brutale, l’insurrezione più violenta delle masse proletarie oppresse. Era un falso, ovviamente. Bonanno si era limitato a tradurre uno scritto – che lui stesso definì «follemente delirante» – dell’anarchico ottocentesco Joseph Déjacque.

La notizia finì comunque su tutti i giornali: La Stampa definì lo scherzo come «opera di imbecilli», il Corriere della Sera ne parlò invece come di un tentativo di suscitare le ire del francese per smascherarne le ambiguità ideologiche. Infatti, via telegramma, Sartre inviò una minaccia di querela alla quale in ogni caso non avrebbe mai dato seguito.
«Era più che evidente che il vecchio stalinista non poteva rivolgersi alla magistratura, proprio per le sue non remote posizioni contro la repressione in Italia», commentò Bonanno, consapevole di averla fatta grossa.

Sommerso dagli eventi e mai in cerca di notorietà, negli ultimi anni Bonanno si era ritirato a Trieste, con la moglie e un figlio che porta il suo stesso nome. Una vita tranquilla, anche se sempre sotto gli occhi della questura, che ha continuato a trattarlo come un nemico pubblico fino alla fine, anche perché il tenore dei suoi scritti non si è ammorbidito con il tempo. Anzi. Anche per ammissione degli investigatori, però, i legami tra l’insurrezionalismo storico e la cosiddetta Federazione Anarchica Informale sono sempre stati pochi e fortemente conflittuali.
Diverse visioni del mondo, in sostanza, anche se Alfredo Bonanno e Alfredo Cospito erano imputati insieme nel processo Marini (il secondo con una posizione molto marginale, infatti ne uscì quasi subito). Al vecchio siciliano non è mai piaciuta la componente spettacolare delle nuove leve, pensava che fosse un odioso tentativo di personalizzazione della rivolta. Il dibattito, confinato tra i blog e le pubblicazioni semiclandestine di area anarchica va avanti ancora oggi. Bonanno ha scritto parecchio al riguardo, con la verve che è riuscito a mantenere fino all’ultimo. Parliamo, infatti, di un intellettuale, anche raffinato nel suo argomentare, oltre che ricercato, quasi vezzoso, nell’eloquio.

LAUREATO in economia e poi in filosofia (con una tesi su Max Stirner), Bonanno ha lavorato quasi undici anni al Banco di Sicilia e poi per altri sette ha diretto un’industria farmaceutica. Sul punto, in uno degli svariati processi a cui ha partecipato come imputato, un giudice lo provocherà: «Insomma, lei è stato un capitalista».
E lui: «No, capitalista no, però servitore dei capitalisti sì». Per sua stessa ammissione, infatti, Bonanno non era un ribelle. «Sono sempre stato quello che tristemente si definisce il primo della classe – spiegava di sé -, e resto sempre la stessa persona. Il rifiuto del potere da parte mia non è stato semplicemente una conseguenza del ragionamento, ma anche una questione di cuore».
La sua aspirazione, in fondo, è sempre stata quella di cercare di dar corpo alle idee. E se l’idea di fondo è la libertà, questa non può che essere assoluta, inarrestabile, impossibile da rinchiudere.

* Fonte/autore: Mario Di Vito, il manifesto

 

 

 

 

ph by Einige solidarische AnarchistInnen, CC BY-SA 2.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

Fu giovanissima segretaria del sindacato tessile a Vicenza, quando nell’aprile ’68 a Valdagno gli operai abbatterono per protesta la statua del fondatore del gruppo Marzotto. È stata decisiva nella nostra storia per avere approfondito il tema dei Consigli e delle nuove lotte operaie: su queste, non solo su Praga, si caratterizzò la rottura tra Manifesto e Pci

 

E ieri se ne è andata da questa vita la penultima vivente del primo nucleo del manifesto, quello che cominciò a esistere, sia pure informalmente, da prima che la rivista venisse alla luce: Ninetta Zandigiacomi.

Negli ultimi anni l’abbiamo vista poco, si era molto ritirata, anche per accudire il suo straordinario compagno, parecchio più anziano di lei, Michele Rago, uno dei più acuti e importanti intellettuali comunisti. Con Vittorini dette vita al Politecnico, fu uno dei primi inviati de l’Unità a Parigi, autore di scritti preziosi su Gramsci ma anche su Sciascia, e poi molto su Sartre di cui fu stretto amico. Ninetta e Michele si conobbero nella storica sede di Piazza del Grillo già piuttosto maturi e ambedue reduci da altre unioni e fu un amore grandissimo, anzi lo definimmo tutti «leggendario».

Ninetta veniva da tutt’altro mondo, sebbene anche questo del Pci: giovanissima segretaria del sindacato tessile a Vicenza, nell’epoca in cui gli operai a Valdagno buttarono giù per protesta la statua del fondatore del gruppo Marzotto, quando la bianca regione veneta diventò esempio di lotte esemplari. Proprio sui nuovi Consigli di Fabbrica Ninetta scrisse anche un libro: “Autonomia operaia. Esperienze di giornalismo operaio”, pubblicato dal nostro comune editore di allora, Bertani, di Verona, che editò anche una raccolta antologica sull’esperienza consiliare, in cui Ninetta scrisse della Montedison.

Più tardi, proprio su questa innovativa problematica che caratterizzò la rossa stagione degli anni ’70, Ninetta andò a insegnare all’università di Lecce, come assistente del prof. Cosimo Perrotta, docente di Storia economica.

Mi è difficile ricordare Ninetta senza parlare di sua madre Pina, fondatrice dell’Udi nel Veneto, una donna la cui carica innovativa, politica ed umana, ne fece un punto di riferimento per la mia generazione.

Prima della radiazione dal Pci – stessa data di quella di Valentino – Ninetta era stata spostata al centro, a Botteghe Oscure, alla commissione di massa (così si chiamava allora quella che si occupava di lavoro sindacale), allora diretta da Giorgio Amendola, la stessa dove lavorava anche Lucio Magri. (Fra le mie carte nei files sul sindacato ho rintracciato un inserto de l’Unità sulle le lotte del settore tessile nei primi anni ’60, a cura di: Accornero, Limiti, Magri e Zandigiacomi. Furono gli anni in cui diventò aspro il disaccordo interno al Pci proprio sulle lotte operaie, venuto alla ribalta in particolare in occasione della conferenza operaia del ’65, organizzata da Luciano Barca che allora dirigeva la specifica commissione operaia ed era assai vicino alle posizioni degli ingraiani.

Non c’è dunque da meravigliarsi che Ninetta, così come Eliseo Milani, allora segretario della sempre ribelle federazione di Bergamo, abbiano pagato per le loro posizioni – quelle sulla questione operaia che caratterizzarono la rottura del Manifesto che, nonostante quanto viene generalmente ricordato non furono solo relative a Praga – con la non rielezione, all’XI congresso del Pci del 1966 nel Comitato centrale del partito, dove erano stati eletti proprio perché figure esemplari del movimento. Quelli di noi che non eravamo nel C.C. fummo allontanati, come è noto, da Botteghe Oscure. Alcuni che invece lo erano ma furono «graziati» – Rossana, Pintor, Natoli, per esempio. finirono allontanati da cariche delicate e magari promossi nel Parlamento che allora era molto meno ambito del Partito.

Da questo mio racconto nostalgico – perché fu duro ma anche appassionato – capirete quanto Ninetta sia stata importante nella storia del manifesto. Ho scritto perché so che molti fra i giovani di quel periodo sanno poco, e della compagna Zandigiacomi anche meno perché negli ultimi anni si è allontanata dalla nostra quotidianità. Ma l’avete rivista in tanti quando, a piazza S. S. Apostoli, nell’autunno del 2020, abbiamo dato il nostro addio a Rossana Rossanda. Anche lei, sebbene già non proprio in salute, si unì a Filippo Maone e a me nel prendere la parola dal palco. Gli ultimi tre «moikani». Oggi di quel pezzo di storia sono rimasta la sola. E però già dalla fine del ‘’69 – come sapete bene – entrò una folla di sessantottini che poi, nella sostanza, hanno fatto e continuano a fare la vera e lunga storia del Manifesto.

Ninetta aveva 95 anni, uno più di me. Sono ancora giovane. Ma sapete cosa mi succede ora? Mi telefona ahimè quasi ogni mattina, qualche compagno per dirmi : “Mi spiace tanto doverti annunciare la morte del comp.Tal dei tali…”. Poi una sosta e tutti, senza eccezione, aggiungono: “…beh, del resto aveva 80 anni…”.

E a me mi tocca incassare. Auguro a tutti di poter fare altrettanto!

* Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto

In occasione della scomparsa di Filippo Maone, storico editore e tra i fondatori del manifesto, ripubblichiamo l’articolo che scrisse in occasione dei 50 anni del giornale. Un racconto appassionato dei primi passi della rivista e del quotidiano

 

Nel ricco supplemento che accompagnava il manifesto nel giorno del suo cinquantenario, lo scorso 28 aprile, Luciana Castellina ha ben riferito dei ragionamenti che portarono il gruppo promotore dell’intera impresa politica alla scelta, unanime, di porre termine alla pubblicazione dell’originario mensile nato nel giugno 1969 e di fondare un omonimo quotidiano. Che iniziò a vivere, appunto, nell’aprile del 1971.

Un netto e molto impegnativo cambio di passo. Non c’è dunque bisogno di tornare alle informazioni già date ai lettori, per cui mi limiterò a rievocare solo alcuni passaggi salienti del lavoro che mi toccò di svolgere.

LA MESSA A PUNTO del progetto in ogni sua parte prese avvio nel novembre del ’70. A prendersene carico furono, tutti insieme, i componenti del piccolo gruppo che ormai possiamo definire storico. Da cui ricevetti il graditissimo segno di stima d’avermi voluto aggregare.

A me fu chiesto di impostare la struttura editoriale, sia dal lato produttivo sia da quello diffusionale, con la costante attenzione al bilancio e alla salute economica della cooperativa. Materie delle quali non avevo alcuna esperienza, ma si fece conto su qualche mia precedente dimostrazione di sapermela cavare come organizzatore, e scommettendo che mi spuntasse pure la necessaria capacità di apprendimento veloce.

Mentre per l’amministrazione vera e propria si pensò a Giuseppe Crippa, suggerito e supergarantito da Eliseo Milani, che lo aveva potuto valutare alla prova di una similare funzione alla Federazione del Pci bergamasco, di cui lui era segretario.

Per il grosso della redazione si fu tutti orientati a un generale ringiovanimento, fatto salvo il prestigioso e fondamentale gruppetto dei maturi compagni che, fin dal ’69, avevano condiviso tutto il nostro percorso (mi riferisco a Ninetta Zandigiacomi, Marcello Cini, Lidia Menapace, e pochi altri). Ma era un’epoca di gioventù prorompente, portatrice di fermenti che ci interessava fare entrare nelle nostre stanze redazionali.

Solo la fortissima carica di motivazioni che ci animava permise a ognuno di noi di sopportare la fatica di quei mesi. In primis ci buttammo tutti a raccogliere sottoscrizioni per almeno 50 milioni di lire, indispensabili per non bloccarci prima dell’uscita in edicola.

Non fu facilissimo, ma neanche tanto difficile. Ai modesti versamenti dei compagni già impegnati nei circoli sparsi per l’Italia, che raramente superavano le 10 mila lire, cercammo di aggiungerne altri più sostanziosi da ambienti meno squattrinati.

OLTRE AI DUE MILIONI (uno a testa) ricevuti da Simone Signoret e Yves Montand, arrivammo a metterne insieme un’altra ventina da ben più di venti generosi donatori.

Ne cito due molto noti, entrambi del mondo del cinema. Uno fu Gian Maria Volonté, che ebbi la faccia tosta di avvicinare per puntare subito al sodo, ricevendone in cambio un convinto milione di auguri.

L’altro mi fu indicato dal regista Elio Petri, con l’assicurazione d’averlo già «preparato». A casa sua Ugo Tognazzi mi accolse molto gentilmente, scambiammo due chiacchiere e infine mi dette una busta dicendomi con un sorriso: «Mi spiace di non poter fare di più». L’assegno era di un milione (oggi sarebbero circa 9mila euro, ndr).

Per tutto il periodo preparatorio lavorai ininterrottamente a stretto contatto con Luigi Pintor. Fu lui ad aprirmi alcune strade decisive. In primo luogo mi fece conoscere il massimo esperto di diffusione a l’Unità, che in via riservata gli aveva confidato di condividere in pieno la nostra battaglia. Quel compagno, di cui ora mi sfugge il nome, e me ne spiace molto, mi insegnò tutto ciò che c’era da imparare del mestiere.

Inoltre Luigi, attraverso Giorgio Bocca, che allora lavorava a Il Giorno – e con il consenso del direttore Italo Pietra, partigiano socialista – mi rese agevole la stipula di un contratto per associare il manifesto al loro capillare sistema di trasporti mediante autoveicoli, in tutto il Nord, con base a Milano. Dove il nostro quotidiano sarebbe arrivato in aereo con un volo postale (purtroppo in orario assai anticipato rispetto alla partenza delle macchine e dei camioncini, con la conseguenza d’essere obbligati a «chiudere» il giornale alle 18, senza le notizie della serata).

Medesima combinazione, compreso il disagio degli orari, attivammo anche per Calabria, Sicilia e Sardegna, ma appoggiandoci al Corriere dello Sport. Fu sempre Luigi a facilitare un’analoga intesa, anche se di minore ampiezza, con il Corriere della Sera.

Telefonò al direttore Piero Ottone, gli chiese di ricevermi e mi fissò un appuntamento. Quando arrivai a via Solferino, una volta eseguite le classiche formalità dei palazzi importanti, vidi comparire in cima alla breve scala di entrata, alla base della quale io sostavo in attesa, un uomo claudicante che, scendendo lentamente, mi faceva cenno con la mano di non andargli incontro, finché non mi raggiunse. Soltanto allora abbassò la mano per tendermela e stringere la mia più a lungo del normale. Era, inconfondibile, Piero Ottone.

Camminando verso il suo ufficio mi volle spiegare il motivo del suo comportamento: d’aver voluto attenersi a un’antica tradizione – non ricordo più di quale origine – che consisteva nel misurare il gradimento di un ospite da quanti gradini il padrone di casa scendeva per accoglierlo. E lui, quella volta, non me ne aveva lasciato neanche uno da salire.

Trovo l’episodio un po’ divertente, ma anche significativo della considerazione in cui venivamo tenuti noi, un’accolita di marxisti e comunisti, da una buona fetta del mondo liberal-democratico. Ne trassi beneficio già al momento, stringendo con il dirigente del relativo reparto un buon accordo, finalizzato ad arrivare nelle edicole di piccole e medie cittadine del Nord, non incluse nel contratto firmato a Il Giorno.

RESTA DA DIRE QUALCOSA su come risolvemmo il problema dei macchinari necessari alla redazione e quello della produzione materiale del giornale, cioè la stampa. Sul primo punto oso dire che, per fortuna, considerata la magrezza dei nostri conti correnti, all’epoca non c’erano ancora i costosi «sistemi editoriali», composti da computer per ciascun redattore, tutti contemporaneamente collegati a una centralina a sua volta in linea col reparto grafico e con la tipografia.

CI BASTARONO le modeste macchine da scrivere, che per circa la metà arrivarono dalle case di chi ce l’aveva, e per il resto trovammo di seconda mano. Ma le telescriventi, indispensabili per ricevere le notizie dalle principali agenzie, le dovemmo comprare.

Siccome le produceva la Olivetti, pensai di rivolgermi allo scrittore Paolo Volponi, che conoscevo bene da parecchio tempo, e che all’epoca lavorava proprio in quella speciale azienda come capo del personale. Fu una mossa giusta, perché Volponi ci fece ottenere le quattro telescriventi che ci occorrevano con uno sconto stratosferico.

Quanto alla questione della stampa va detto che ci trovammo ad attraversare in pochi anni un travolgente sviluppo tecnologico (come peraltro in tutti i settori attinenti). Dal sistema a piombo, che comportava la ribattitura dei testi – dattiloscritti e consegnati dai redattori – da parte dei linotypisti, si passò a quello chiamato offset. Che annullava definitivamente quel passaggio, e impose perciò la riqualificazione di quei tipografi per mansioni diverse nel ciclo produttivo, oltre che un radicale cambiamento nella preparazione delle matrici da applicare alla rotativa. Influendo notevolmente sul lavoro della redazione, chiamata alla modifica di consolidate abitudini nell’incontro con l’invenzione digitale.

Il tutto coincise con un guaio molto serio, che mise in crisi tutto l’impianto della nostra distribuzione. Avvenne che i voli postali furono cancellati per alcuni mesi e spostati d’orario per gli altri, ma verso la piena notte, in direzione inversa a quanto ci sarebbe servito. Ci trovavamo, più o meno, alla metà degli anni ’70.

DIPESE DA QUESTI FATTI l’operazione più ardita che si decise di affrontare entro il tempo delle mie attribuzioni, che poi durò fino alla fine del 1982.

Procedemmo in tre fasi. Già sapevo che due quotidiani, unici in Italia, stavano sperimentando l’uso di una macchina in grado di scannerizzare e trasmettere a distanza, per mezzo di linee telefoniche dedicate, le matrici delle loro pagine.

Lo scopo era di dividere l’intera tiratura in due o più punti di stampa, anche molto lontani tra di loro. I giornali erano La Stampa e Avvenire. Con una grossa differenza, però, tra l’uno e l’altro: il tempo di trasmissione di una pagina di Avvenire era addirittura di 27-28 minuti, che scendevano a soli 3 (ancora troppi alla luce dei progressi odierni) per La Stampa. A cui dovette arrivare la voce che l’argomento ci interessava, giacché nel giro di pochi giorni ricevetti una telefonata dall’ingegnere che si occupava di innovazioni in quel campo, il quale mi disse che il loro apparecchio era un prototipo Siemens, e che erano disposti a cederlo per acquistarne due o tre in corso di produzione e un po’ più perfezionati, anche se quello che stavano provando funzionava benissimo.

Gli chiesi di osservarlo all’opera e concordammo di incontrarci a Torino. Lì mi resi conto che il grosso trasmettitore era in grado di soddisfare in pieno le nostre esigenze. E fui anche attirato sia dal prezzo che mi proposero – portato a 15 milioni, con rateazione lunga, dai 50 del listino – sia, quasi di più, dalla promessa di una loro ufficiale garanzia triennale.

LA SECONDA TAPPA fu quella di convincere Lanzara, il proprietario della tipografia di Roma dove si stampava tutta la tiratura del giornale, a impiantare una rotativa anche a Milano, nel grandissimo scantinato che da tempo avevamo preso in affitto per dare una sede fissa alla squadra redazionale del Nord.

Il piano andò in porto abbastanza presto, e il problema degli aerei si risolse in radice, determinando una situazione perfino migliore della precedente, tenendo conto che da quel momento il manifesto poté allungare la giornata lavorativa, e non privarsi più del flusso di notizie fino allo stesso orario degli altri quotidiani.

UN’IMPREVISTA OCCASIONE ci portò alla terza e conclusiva fase. Un giorno, all’improvviso, il proprietario dello scantinato ci disse seccamente: ho bisogno di liquido, o comprate voi il locale o devo sfrattarvi per metterlo in vendita. Cominciò una trattativa che si protrasse per un paio di mesi, alla fine dei quali arrivammo a strappare condizioni che ci parvero ottime. Prezzo: circa 60 milioni (tra 220 e 250 mq, non ricordo esattamente) da pagare in 3 anni, con tasso d’interesse più che ragionevole.

NON POSSO DIRE CHE FU una passeggiata, ma riuscimmo a superare agilmente le maggiori difficoltà. Al termine di questo tratto di cammino mi restò solo un rammarico: di non aver potuto portare a buon punto, e neanche almeno ad avviare, una operazione di medesimo significato, pur se ridotta nelle dimensioni, in una città strategica del Sud.

Ci trovammo così, pur senza averlo mai pensato come obiettivo, ad avere in patrimonio la proprietà di un immobile. Che in anni successivi ai miei incarichi si rese utile a ridurre gli effetti pesanti di situazioni difficili.

E qui mi fermo, avendo oltrepassato non di poco lo spazio a mia disposizione. Tra racconto di fatti accaduti, nel corso della nostra storia, e mie considerazioni sulla stessa, ne avrei di altre cose da dire. Prima o poi ce ne sarà l’occasione.

Errata corrige

Un frettoloso e maldestro uso del cursore, nel tentativo di correggere una frase mentre scrivevo l’articolo poi comparso su «il manifesto» dello scorso 28 maggio, intitolato “Così partì la macchina del giornale”, ha peggiorato le cose fino a ribaltarne addirittura il significato. Per facilitare il confronto, mi sento in dovere di riportare qui di seguito le poche righe che comprendono l’errore e, sotto, quelle corrette con esattezza. Scusandomi con i lettori e con il cinquantenne giornale.

Filippo Maone

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Dal sistema a piombo si passò a quello chiamato offset, che comportava la ribattitura dei testi – dattiloscritti e consegnati dai redattori – da parte dei linotypisti, la loro riqualificazione per mansioni diverse nel ciclo produttivo, e un radicale cambiamento nella preparazione delle matrici da applicare alla rotativa.

Le righe sopra riportate si trovano nella parte finale della quarta colonna dell’articolo apparso nel giornale del 28/5 (pag. 16), e vanno sostituite con quelle sottostanti (nell’articolo on line è già stato fatto nel corpo del testo, ndr)

Dal sistema a piombo, che comportava la ribattitura dei testi – dattiloscritti e consegnati dai redattori – da parte dei linotypisti, si passò a quello chiamato offset.Che annullava definitivamente quel passaggio, e impose perciò la riqualificazione di quei tipografi per mansioni diverse nel ciclo produttivo, oltre che un radicale cambiamento nella preparazione delle matrici da applicare alla rotativa.

* Fonte/autore: Filippo Maone, il manifesto

Nei primi anni Ottanta l’estate la passavamo a San Nicola Arcella, in Calabria. C’erano Annalisa Di Nola, figlia dell’antropologo, che cantava nel coro di Giovanna Marini, la stessa Marini con Paolo Pietrangeli e Franco Bifo Berardi. La sera Paolo mi portava con se nei paesi vicini dove lo invitavano a cantare, innanzitutto “Contessa”, la colonna sonora del lontano Sessantotto. Non ne poteva più di quella canzone.

Ma era sempre contento di incontrare i contadini comunisti. A volte, sulla spiaggia, discutevamo della voce interiore, che non poteva essere registrata, quella che anch’io sentivo quando leggevo un libro, che era poi quella che dettava libri e canzoni. Paolo veniva spesso nella nostra casa che avevamo affittato da Cecilia Capuana, fumettista molto nota in Francia. Mi chiese di scrivere una canzone per lui, ma mi venne una poesia. A casa di Annalisa una sera, sul tardi, mentre era tutto un cantare con le chitarre, un mafioso del luogo ci sparò alla finestra, per ammutolirci. Mite e amichevole venne a trovarmi a Roma con la proposta di scrivere la sceneggiatura di un film tratto dal mio romanzo “Cattivi soggetti”. Lavorammo sodo ma alla fine aveva raggranellato solo metà dei soldi necessari e la chiudemmo lì. Non aveva simpatie per Berlusconi, nonostante lavorasse a Canale 5.

Gli raccontai la forte emozione che provai nell’autunno del Sessantotto a Campo de Fiori sotto il palco a ridosso de la statua di Giordano Bruno, da dove ascoltai per la prima volta rabbrividendo “Contessa”, dopo una violenta dimostrazione per il centro della Capitale. La stessa emozione mi dava “Valle Giulia” e “Il vestito di Rossini”. Il film che voleva fare era quello di un ex sessantottino che tornava da una città industriale americana e ripercorrendo i luoghi romani dell’anno maledetto scopriva una sua amica di allora fotografata su un cartellone pubblicitario. Rincontrando i suoi compagni avrebbe avvertito la brusca trasformazione del nostro paese.

Era stato aiuto regista anche di Visconti di “Morte a Venezia” e della “ROMA” di Fellini. Tentò più volte di farsi eleggere nel parlamento italiano, una volta con Rifondazione comunista e poi recentemente con “Potere al popolo” senza esito positivo. Bello il suo documentario su G8 di Genova.

Si ammalò di nostalgia, di quando non scappavamo più dinanzi alla polizia di Valle Giulia. Ci ha lasciato a 76 anni. Su Facebook c’è una scia impressionante di post. Appaiono le foto di Paolo nella bagarre di Valle Giulia, quelle di quando, affollato di giovani, cantò “Il vestito di Rossini”. Giovanissimo, adulto invecchiato, anche quelle con il suo cane enorme e quando era insieme a Mariangela Melato. I commenti sono tutti di gente addolorata, di età diverse, dai più giovani a chi lo aveva ascoltato al Folk Studio. Paolo ha attraversato molte generazioni, che lo hanno ascoltato con lo stesso entusiasmo. A ben vedere il Sessantotto che traspariva nelle sue canzoni più note, era visionario, pieno di poesia e d’amore per gli ultimi e odio sincero verso i padroni e la borghesia che li sosteneva.

* Fonte: il manifesto

«Ci vuole una vita per capire cosa significa essere donna». «È tutto un lavoro, una prescrizione, un dubbio. Ti avvertono, te lo comandano». Sono frasi della Ragazza del secolo scorso, la ben conosciuta autobiografia di Rossana Rossanda.

In Le altre, il libro pubblicato più di 40 anni fa come raccolta delle trasmissioni di Radio 3 che Enzo Forcella, il suo grande direttore di allora – il 1978 – le aveva affidato per illustrare attraverso 10 parole essenziali il rapporto donne/politica non si disegna solo un quadro del dibattito che coinvolge il neonato movimento femminista italiano, si racconta, meglio di ogni altro scritto, il percorso compiuto da Rossana per capirsi come donna. Percorso politico e umano, perché per ogni donna la politica non può esser disgiunta dalla riflessione su sé stessa, è necessario ci metta il corpo; e l’anima.

Le altre torna ora con la manifestolibri – e proprio oggi, anniversario della scomparsa di Rossana – con l’aggiunta di una preziosa prefazione di Lidia Campagnano che allora aveva collaborato con lei alle trasmissioni di Rai3. Una buona iniziativa perché ci aiuta molto a conoscere un suo pezzo di vita, via via diventato sempre più importante e tuttavia per molti della stessa area Manifesto-Pdup, poco conosciuto: il percorso attraverso il quale approda al femminismo.

Mi piacerebbe avere il modo di parlarne più in dettaglio, perché come lei stessa ricorda in queste pagine, molti dei momenti più difficili affrontati in quel viaggio accidentato li abbiamo vissuti assieme: tutte e due, per generazione, educate all’«emancipazione», vale a dire all’idea che fosse necessario assomigliare il più possibile al maschio per liberarsi dell’«handicap» cui il nostro sesso ci aveva condannato e così poter accedere alla cerchia di quelli cui era dato il diritto e il potere di occuparsi delle sorti del mondo. Io un po’ più disponibile verso il nuovo femminismo, perché per ragioni in gran parte fortuite nei tanti anni di milizia Pci ero finita a lavorare negli aborriti settori separati destinati alle donne – prima la sezione femminile diretta da Nilde Iotti, poi all’Udi – mentre Rossana era rimasta una delle pochissime donne ad esser esentata da questa «umiliazione».

La sua naturale autorevolezza l’aveva esonerata, ma certamente la privò – e spesso mi ha poi detto quanto se ne rammaricasse – di una presenza diretta nel travaglio che accompagnò la scoperta del femminismo che investì in pieno la storica Udi, le cui dirigenti ebbero il coraggio, negli anni ’80, di procedere al suo scioglimento nel movimento.

Anche da noi l’incontro non fu affatto indolore, sebbene il Manifesto sia stata la prima rivista di sinistra a pubblicare già nei suoi primi numeri uno scritto femminista (firmato Cigarini, Pellegrini, Rasi) e poi il solo gruppo della nuova sinistra ad appoggiare pienamente le loro prime manifestazioni, fino anche a cedere loro a Roma una delle nostre sedi, poi divenuta famosa: via Pomponazzi. Ciononostante, le femministe cominciarono ad andarsene dal Partito.

Nel ’76 sul giornale viene pubblicata una pagina intera scritta dal collettivo di Bologna, titolo Le femministe se ne vanno: annuncia che non restituiscono la tessera del partito perché «il Pdup è un buon partito e sembrerebbe un gesto polemico», ma non la rinnoveranno perché sono giunte alla convinzione che «la nostra pratica politica non è conciliabile con la vostra». Risponde Rossana scrivendo sulla stessa pagina: «Penso abbiate torto. Il rischio è che l’Italia diventi come il resto del mondo cancellando l’esistenza di un grande movimento di massa di donne che è stata l’esperienza italiana e che restino solo sussulti di coscienza separati dal movimento di classe».

In un seminario a Bellaria era previsto che uno dei gruppi di lavoro in cui avrebbe dovuto articolarsi fosse dedicato al femminismo. Avrei dovuto coordinarlo io, le donne presenti nel partito erano ancora molte. Ma all’appuntamento ci ritrovammo in 4: io e 3 uomini! Le femministe non si presentarono. Un modo per farci intendere che non erano interessate a discutere con noi «maschi», ma a capire sé stesse. E infatti i gruppi di autocoscienza in cui le compagne si riversarono si moltiplicarono, diventando un necessario momento di autoinchiesta.

Rossana, originariamente la più diffidente, ebbe l’intelligenza – e la curiosità – di impegnarsi a capirle e da allora lesse, scrisse, diede vita a non poche pubblicazioni di preziosa riflessione, con un femminismo che nel frattempo si era andato articolando in molteplici correnti. Lo ha fatto mettendosi in gioco, sottoponendosi lei stessa all’autocoscienza, che vuol dire scoperta del proprio corpo, del proprio sesso, di cosa significa. Senza mai perdere un suo costante punto di vista, quello che è rimasto fondante in tutta la sua elaborazione politica: la centralità della classe operaia, il suo ruolo anche in questo campo, anche se oggi così diversa a quella che era stata.

Perché Rossana ha continuato a porre il problema della ricomposizione di un’identità nuova ma comune, che implica ricostruire anche quella del maschio e le donne devono imparare a pensarlo, perché non possono imporgli la propria visione del mondo. Per cui ci vuole una rivoluzione comune, non due separate, quella che mette in discussione la struttura sociale, che non è secondaria per le donne, e quella che investe la persona.

Che però è molto più difficile: il «privato – ammette Rossana – non è così immediatamente politico, deve fare i conti con un potere invisibile e millenario che ha reso la donna proiezione del maschio, pensata solo attraverso la sua griglia»; e per questo nessuna rivoluzione, neppure quella più radicale dell’Ottobre ’17, ha smosso il potere dell’uomo sulla donna. Perché nella donna il personale ha una dimensione infinitamente più ampia e se non si investe questo campo il rapporto fra i sessi non può modificarsi, «non si può sciogliere – scrive Rossana nel suo meraviglioso linguaggio – il groviglio di vipere che è stato annodato dalla nostra civiltà».

Sarebbe bello poterne discutere ancora con Rossana. Potremmo comunque almeno riflettere insieme fra noi sulle tante, ricchissime sue considerazioni su un femminismo che continua a cambiare e ogni giorno ripropone interrogativi. Io vorrei prevalesse finalmente la convinzione che fondamentale è contestare l’imbroglio dell’uguaglianza dei diritti, tutti ancorati a un soggetto neutro che non esiste, e che però, sia pure con tutti i distinguo, continua a imperare.

* Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

Ci ha lasciato a 79 anni il compagno «uccello» Paolo Ramundo dopo una malattia inesorabile. È con dolore che apprendiamo la notizia. «Noto architetto» dicono le agenzie, ma su questo lui avrebbe qualcosa da ridire con il suo sorriso sornione. Lo abbiamo incontrato molte volte dal 1968 alla fine degli anni Settanta, tutte le volte che l’attività politica del Manifesto si è intrecciata alla sua e a quella di Lotta Continua di cui era dirigente, e infine per la sua nuova invenzione, quella di una straordinaria cooperativa agricola, la Cobragor.

A inizi del ’68 fu tra i protagonisti dell’atto creativo fondante – «l’immaginazione al potere – del movimento di rivolta degli studenti. Fu infatti tra i fondatori a Roma de “Gli Uccelli”, con contestazioni e denunce assolutamente originali, sempre non-violente e nelle forme più teatralizzate. Fuori dalle fumose assemblee dell’Università preferivano “praticare obiettivi”, arrampicarsi sugli alberi. Il 19 febbraio del 1968, sostenuti dal professor Portoghesi, si arrampicò insieme a Martino Branca e Gianfranco Moltedo, sul campanile di Sant’Ivo alla Sapienza e restarono lì per un giorno e mezzo. Iniziava il corso creativo del movimento. Durò poco. A marzo ci fu subito un diverso bagno di realtà, gli scontri di Valle Giulia.

Poi lo abbiamo incontrato di nuovo nella rivolta di San Basilio del 1974, nel movimento di occupazioni delle case con altri compagni allora di Lotta Continua come Agostino Bevilacqua, Paolo Liguori “Straccio” e lo straordinario fotografo Tano D’Amico. Dicono che Paolo Ramundo fosse l’anima di Lotta Continua a Roma. Era di più, era la testa pensante: si chiedeva sempre quali erano gli spazi del movimento, guardava al futuro. E dalla diaspora di Lotta Continua uscì nel 1977 con un approccio anche stavolta originale – ci sembrò vicino alle Leghe dei disoccupati che costruiva il Pdup – da vero architetto del territorio: lanciò una occupazione di terre appena dietro l’ospedale San Filippo Neri a Monte Mario, a ridosso del quartiere di Monte Mario, fondando con un gruppo di disoccupati la Cooperativa Agricola Co.Br.Ag.Or. che esiste ancora dopo 44 anni; diventando anche dirigente della Federbraccianti Cgil.

In quella sede ieri si è svolta la camera ardente per salutarlo. E a settembre i suoi compagni promettono ancora un nuovo «bel ricordo». Alla sua compagna Francesca, a tutti quelli che lo hanno amato l’abbraccio del collettivo de il manifesto.

* Fonte: Tommaso Di Francesco, il manifesto

Ritratti individuali e collettivi di un addio commosso. Il saluto a Rossana Rossanda che si è tenuto il 24 settembre a Roma è stato immortalato dall’amico e fotografo Marco Cinque. Una serie di scatti che intrecciano storie, umori, generazioni diverse. Al centro al figura di una donna straordinaria. Protagonista di una grande storia.

foto:  Filippo Maone  © Marco Cinque

* Fonte: Marco Cinque, il manifesto

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