Addii & Ricordi

La morte a 76 anni. L’esistenza intensa di un cantautore, saggista sceneggiatore e autore per fumetti. Ha inciso anche quel Ma non è una malattia che diventa una sorta di emblema del ’77

 

Da tempo Gianfranco Manfredi era malato, ma questo non gli aveva impedito di smettere la sua attività principale, quella di curioso, studioso, saggista. In pratica uno che senza volerla mettere giù dura ha sempre ragionato sulle cose del mondo per rielaborarle in canzoni, romanzi, sceneggiature, fumetti. Ancora poco più di un mese fa sulla sua newsletter Boiler scriveva sul romanzo di Sinclair Lewis, Main Street, per illuminare sull’America e sul trumpismo. Ma sarebbe riduttivo pensarlo solo come intellettuale di sinistra, Manfredi è stato molto di più e molto più pervasivo. Precursore di un approccio fatto di aperture situazioniste passa dalla filosofia con Dal Pra a Re Nudo, da Jean Jacques Rousseau ai testi per le canzoni di Donatello, ma incide anche per conto suo con quel Ma non è una malattia che diventa una sorta di emblema del ’77 («Mi hanno detto sei scoppiato, come ti sei rovinato, dimagrito, sembri quasi uno zombie. Sarà colpa delle notti che ho passato ad aspettare cose che forse dovevano arrivare. Ma non è una malattia…»).

POI ALLARGA ancora di più il suo essere genio eclettico: scrive un disco con Ricky Gianco (Zombie di tutto il mondo unitevi) e si fa accompagnare dalla PFM, si candida con il Partito Radicale, partecipa alla sceneggiatura di Liquirizia di Samperi, continua con il cinema ma si fionda sulla letteratura noir, passando per il teatro sino allo scendere in campo nel mondo dei fumetti, prima con editoriale Dardo poi con Sergio Bonelli, dove inventa storie (Dylan Dog) e personaggi (Magico Vento) approdando anche al mitico Tex Willer. Inevitabile per lui, coevo di Tex, entrambi nati nel 1948.

LA SUA PRODUZIONE è stata inarrestabile e incommensurabile, con escursioni saggistiche sulla musica leggera, sempre con Gianco scrive un pezzo anche per Mina (Un cucchiaino di zucchero nel tè, inserito nel doppio Sì buana nel 1986), Milva, Jannacci, Celentano, tutti nomi che gravitavano su Milano, come lui che pur marchigiano di origine aveva qui trovato terreno propizio per le sue millanta incursioni di senso laddove si poteva esercitare la creatività della parola. Vederlo e sentirlo era un piacere, occhialuto, riccioluto e baffuto (con baffetti sempre curati) rapiva lo sguardo, ma soprattutto l’orecchio perché il suo eloquio anche se apparentemente leggero non sfiorava mai la banalità, trovava sempre un motivo per riflettere, meglio se con un sorriso.
La figlia Diana ne ha annunciato l’estrema cavalcata così «Nei suoi ultimi momenti mi ha chiesto di cercare un’immagine di Magico Vento a colori, che salutava o che andava via a cavallo, e di scrivere in rosso il saluto Dakota. Ho fatto tutto il più velocemente possibile per riuscire a fargliela vedere e approvare. Mi ha detto ok, va bene, mandala alla Bonelli».

* Fonte/autore: Antonello Catacchio, il manifesto

Per lui, il federalismo locale, ispirato alla polis magnogreca, era una possibile chiave per disarticolare i poteri costituiti e costruire un contropotere attraverso la democrazia deliberativa. Fu fra i fondatori di Radio Ciroma, emittente comunitaria che trasmette nell’etere cosentino da 35 anni

 

Dalle colline innevate, ha osservato per l’ultima volta gli astri che amava scrutare, Franco Piperno. Sino all’ultimo istante, oltre all’affetto dei suoi cari e di compagne e compagni che mai lo hanno lasciato solo, pareva che ad accompagnarlo fossero le arcane creature e i corpi celesti di cui in vita s’è circondato: luminosissime la luna e Venere, ammiccanti i lupi dei vicini monti silani.
Nel 1987, al suo ritorno dall’esilio in Francia e Canada dove, come tante altre ed altri militanti degli anni settanta fu costretto a riparare per sfuggire alla persecuzione dello Stato italiano, un amico boscaiolo gli donò due lupacchiotti orfani della madre uccisa da cacciatori. Finché poté, lui li allevò in un recinto di Arcavacata. Lo venne a sapere il grande Andrea Pazienza che a Franco «Pip.Op.» dedicò mirabili ritratti nelle sue vignette e poi illustrò il suo racconto autobiografico I lupi.

PENSATORE MERIDIANO, sovversivo, astrofisico, perseguitato politico, Piperno è una delle più eretiche menti calabresi dell’età contemporanea. Non a caso un suo fraterno amico, il docente Mario Alcaro, lo coinvolse nella stesura della Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri (Rubbettino 2011).
Nel 1990 Franco fu tra i fondatori di Radio Ciroma. Dentro e intorno a questa emittente comunitaria, che trasmette nell’etere cosentino da 35 anni, si è dispiegato l’ideale municipalista che ha sostanziato gli scritti e la parola di Piperno dopo il suo rientro a Cosenza e la ripresa dell’insegnamento nell’università della Calabria. Secondo Piperno, il federalismo locale, ispirato alla polis magnogreca, è una possibile chiave per disarticolare i poteri costituiti e costruire un contropotere attraverso la democrazia deliberativa. Contro ogni rigurgito lamentoso, ribaltando la narrazione sabaudo-lombrosiana sulla presunta mafiosità e pigrizia delle popolazioni del mezzogiorno, nel libro Elogio dello spirito pubblico meridionale. Genius loci e individuo sociale (manifestolibri 1997) trasforma le antiche stigmate del sud in virtù da ergere a moti d’orgoglio. Lentezza, riottosità, antropologica allergia al capitalismo, rifiuto del lavoro salariato, solidarietà interfamiliare, divengono pilastri fondativi di una nuova lotta sociale e politica per l’autonomia. Non di secessionismo si tratta, bensì di vocazione all’esodo.

NEL 1993, il sindaco socialista Giacomo Mancini nominò Piperno assessore alla Cultura nella sua apartitica giunta comunale. Trascorsero pochi mesi e la prefettura di Cosenza lo sospese per incompatibilità tra l’incarico istituzionale e la precedente condanna per associazione sovversiva. Ottenuta la riabilitazione dopo qualche anno, Mancini lo richiamò ad amministrare la città, affidandogli la delega alla polizia municipale. Tra i suoi vecchi amici e compagni, qualcuno commentò: «Finalmente Franco davvero a capo di una banda armata». In quel periodo si occupò soprattutto di dialogare con la locale comunità rom, nel tentativo di valorizzarne la cultura.
Nel 2002, nella giunta formata dalla sindaca Eva Catizone, fu di nuovo assessore, stavolta alla Scienza, Conoscenza, Identità e Comunicazione, Rapporti con l’Università, Decentramento, Democrazia elettronica, Innovazione tecnologica e dei quartieri, Città cablata. Progettò il planetario che sarà poi costruito, ma purtroppo oggi è chiuso e abbandonato. Volle dedicarlo a Giovan Battista Amico, astronomo cosentino del XVI secolo. A Franco Piperno piaceva osservare e spiegare le stelle intrecciando mitologia, filosofia, astrofisica e politica. Le narrava di notte, alla presenza dei suoi allievi e di tantissime persone incantate dalla potenza e delicatezza della sua lectio. I suoi magistrali insegnamenti sono raccolti nel testo Lo spettacolo cosmico (DeriveApprodi 2010). Con gli studenti era amorevole ma severo, capace di bocciarli agli esami anche tre o quattro volte, se li trovava impreparati. Alcuni di loro hanno deposto una bandiera rossa sul feretro incorniciato dallo striscione di Radio Ciroma.

DOMANI o nei giorni successivi, a cremazione avvenuta, gli renderanno omaggio in una pubblica e laica cerimonia funebre nell’università, ad Arcavacata. Sarà un doveroso tributo a un filosofo di pregiato intelletto, dotato della solennità oratoria degli antichi poeti e cantori greci, animato da uno slancio in avanti nel cogliere in anticipo l’avvento del digitale e della macchina. Non cesserà il suo ideale dialogo a distanza, nello spazio-tempo, con Ipazia, Aristarco, Marx, Benjamin e Toni Negri. A quest’ultimo era legato da sincera amicizia. Non sempre andavano d’accordo sui massimi sistemi. Franco Piperno non era credente. Commuove e diverte chiedersi se si siano incontrati. Conforta sapere che migliaia di giovani occhi continueranno a guardare le stelle, magari viaggiando sulle immaginifiche ali del suo sovversivo pensiero.

* Fonte/autore: Claudio Dionesalvi, il manifesto

Da Radio Ciroma alla politica, sono decine i messaggi che celebrano la memoria del docente Unical ed ex assessore di Palazzo dei Bruzi

 

Alla notizia della morte di Franco Piperno, storico leader di Potere Operaio, ex assessore di Palazzo dei Bruzi e docente Unical, si è levato un coro unanime di cordoglio non solo a Cosenza, ma in tutta Italia. Con Toni Negri e Oreste Calzone, è stato uno degli intellettuali di punta dell’extra sinistra, ideologo di una generazione che si è in larga parte “bruciata” con la lotta armata. Piperno coniò la celebre definizione di “geometrica potenza” riferito all’agguato di via Fani in cui fu rapito Aldo Moro e sterminata la sua scorta. E su Metropoli, rivista legata all’Autonomia di cui Piperno nel frattempo diventa leader assieme a Lanfranco Pace, viene pubblicato il celebre fumetto che racconta una versione “alternativa” del sequestro Moro.

Le lacrime di Radio Ciroma per Franco Piperno

Franco Piperno ciromista dalla prima ora ha saputo incarnare la complessità e il fascino di un’epoca di grandi trasformazioni. Fisico teorico di rara intelligenza, il suo pensiero andava oltre le formule matematiche per interrogare le strutture profonde della società e dell’esistenza.
Uomo di idee e passioni, Piperno non si è mai limitato a osservare il mondo: lo ha attraversato con intensità, lasciando ovunque tracce indelebili del suo passaggio.

Il suo carisma naturale e la profondità della sua riflessione lo hanno reso un protagonista del pensiero critico, capace di coniugare rigore scientifico e immaginazione politica. Piperno apparteneva a quella ristretta cerchia di persone che non solo vivono la storia, ma contribuiscono a scriverla, con il coraggio di chi non teme di sfidare le convenzioni. La sua vita e il suo pensiero resteranno una fonte inesauribile di ispirazione, un invito per tutti a guardare oltre il visibile e a interrogarsi su ciò che è possibile.

Il messaggio di Franz Caruso

«Cosenza e la Calabria perdono una mente brillante ed arguta dotata di grande carisma. Franco Piperno è stato un uomo complesso, pungente e perspicace, attento osservatore dell’umanità, ma ancor più del cielo su cui ha tenuto appassionate lezioni magistrali e per il quale ha ideato ed ispirato il Planetario». Così il sindaco di Cosenza Franz Caruso.

«Un’opera di straordinaria valenza che, tra tante difficoltà, la mia amministrazione sta tentando di salvare e rilanciare. Ed è proprio con Franco Piperno che poco più di un anno fa ho discusso a lungo ed amabilmente sulle sorti del Planetario per il quale si intendeva lavorare insieme per il superamento delle sue tante attuali criticità. A nome mio personale, della Giunta Municipale e della città – ha detto il primo cittadino – esprimo sentimenti di profondo cordoglio e grande mestizia».


Il cordoglio di Marcello Manna

«L’ultimo viaggio terreno intorno al sole e via a rimirar le amate stelle: non è più tra noi Franco Piperno, fisico e politico il cui percorso fu strettamente legato a Potere Operaio e alla sinistra extraparlamentare. Piperno, uomo illuminato e di grande cultura – ha detto l’ex sindaco di Rende Marcello Manna – ha rappresentato per gli anni vissuti tra la nostra Università e la città di Cosenza un punto di riferimento costante e sempre coerente. Franco è stato una figura importante, non solo per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, ma per tutta la nostra comunità. La sua presenza e il suo supporto hanno lasciato un’impronta indelebile nelle nostre vite. In questo momento di grande tristezza, desidero esprimere il mio più sincero cordoglio e la mia vicinanza a Marta Petrusewicz e a tutti i loro cari. Della sua militanza, del suo contributo a questa terra sia fatto tesoro e possa la sua idea di città come luogo di democrazia diretta continuare a vivere».

I commenti della politica

«Tra le persone che ho conosciuto, una delle più geniali. Amico e nemico, ha segnato i miei vent’anni. Voglio però ricordarti com’eri: giovane e bello. Riposa finalmente in pace Franco Piperno» ha scritto sui suoi social Enza Bruno Bossio del Partito Democratico.
«Da cosentino piango la scomparsa di Franco Piperno che, pur essendo catanzarese, era legatissimo a Cosenza città in cui ha insegnato e fatto l’amministratore con Giacomo Mancini. Era un fisico di livello internazionale. Non ho mai condiviso ovviamente le sue idee, antitetiche alle mie. E credo anche che sapesse tante cose rimaste irrisolte degli anni di piombo. Tuttavia – dice Alfredo Antoniozzi di Fratelli d’Italia – sono umanamente dispiaciuto e ricordo anche i suoi sforzi per la pacificazione nazionale».

«Le idee di Franco Piperno erano antitetiche alle mie. Così come alcune sue discutibili esternazioni. Tuttavia ne piango la scomparsa come uomo di cultura e di intelletto. Lo afferma l’on Simona Loizzo deputato della Lega. Sono vicina a Marta Petrusiewicz, la sua generosa compagna, che gli è stata sempre vicina. Di Piperno preferisco esaltare le sue competenze astronomiche e il suo impegno da assessore comunale per i più deboli. E anche il tentativo negli anni novanta di arrivare a una pacificazione nazionale dopo anni terribili e complessi». È quanto afferma l’on Simona Loizzo deputato della Lega.

Da Nunzio Scalercio per Franco Piperno

«Ci lascia Franco Piperno l’uomo più intelligente che mi abbia concesso il privilegio della sua amicizia. Nel panorama internazionale, Franco lo conoscono tutti: è stato un uomo dalle idee politiche raffinatissime, colto come pochi, generoso, coraggioso, immenso. Nella nostra città è stato il fiore all’occhiello della Giunta più rappresentativa che Cosenza abbia mai avuto, sia con come sindaco Giacomo Mancini che Eva Catizone» dice Nunzio Scalercio.

«Non credo di esagerare nel dire che non ho mai conosciuto un uomo più intelligente. Non ho mai conosciuto un uomo come lui umanamente mai banale. Geniale in ogni intuizione. Ogni volta che apriva bocca c’era solo da prendere appunti. Mai di parte, pur avendo delle sue idee politiche inossidabili, ci aveva consigliato il rispetto per le altre parti, da cui era comunque rispettato. In questo momento di grande dolore mi passano davanti tanti ricordi. Troppi. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo – conclude – di scambiare idee, di ridere e mangiare insieme (cucinava benissimo) della sua intelligenza si è cibato. Era una leggenda vivente».

* Fonte: Cosenza Channel

 

Giovani dei centri sociali, anarchici, esponenti politici locali, associazioni, sindacati, un pezzo di Milano e qualcuno da fuori per l’ultimo saluto a «una donna onesta e caparbia»

MILANO. Quando a metà pomeriggio il feretro viene portato fuori dalla piccola sala della casa funeraria di via Corelli ci sono diverse centinaia di persone a salutare per l’ultima volta Licia Rognini Pinelli. Sulla bara insieme a una sua foto c’è una drappo nero con la A cerchiata di rosso: è lo stesso che 55 anni fa era stato poggiato sulla bara di Pino al suo funerale e che oggi è stato riportato alle figlie Claudia e Silvia.

Attorno al feretro le bandiere rossonere dell’anarchia si intrecciano a quelle tricolore dell’Anpi. La banda degli ottoni muove le prime notte di Addio Lugano Bella, c’è un applauso, poi suonano la Ballata dell’anarchico Pinelli. Molti cantano, qualcuno alza il pugno al cielo. «Licia ci lascia un esempio fatto di dignità, fermezza e coraggio» dice un signore brizzolato che poi racconterà di essere stato vicino di casa di Licia e Giuseppe Pinelli nel quadrilatero delle case popolari di San Siro. Era la seconda metà degli anni sessanta.

IN QUESTO ASSOLATO 15 novembre un pezzo di Milano, e qualcuno da fuori, ha tributato il giusto e necessario omaggio a questa donna a cui tutta l’Italia deve molto. Il ricordo di Licia e della sua battaglia per la verità sulla morte di Pino si è mischiato ai ricordi di una Milano che non c’è più, le storie personali si sono intrecciate a quelle collettive.

Ad ascoltarle diverse generazioni, dagli studenti minorenni alla generazione di mezzo che ha militato nei centri sociali o nei movimenti, alla Milano democratica, dei partiti della sinistra, delle associazioni, dei sindacati, fino ai più anziani che quegli anni li hanno sfiorati o vissuti. La lotta di una vita di Licia per la verità sulla morte di suo marito Pino, partigiano anarchico accusato ingiustamente della strage di piazza Fontana, è stata fatta con dignità, fermezza e coraggio.

Licia ha mostrato a tutti che si può sopportare un lutto carico d’ingiustizia senza cedere al rancore e alla rabbia, con la dignità di chi conosce la verità e sa aspettare che arrivi anche agli altri. «Oggi Licia sa che la sua missione è stata compiuta perché non c’è nessuno, proprio nessuno, che può pensare che Pino sia stato coinvolto nella strage» dice l’amico di una vita Marino Livolsi, che la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 accompagnò Licia all’ospedale Fatebenefratelli di Milano dove Pino morì.

LA CERIMONIA LAICA inizia con il cantautore anarchico Alessio Lega che dentro la piccola sala funebre canta la Ballata dell’anarchico Pinelli. Fuori le centinaia di persone che non sono riuscite a entrare ascoltano da due casse piazzate verso il cortile e il parcheggio. Parla una delle nipoti di Licia, Martina: «È stata un nonna onesta e caparbia, ci ha trasmesso un senso di fratellanza e di valori improntati alla condivisione». Dice Martina che «l’essenza di Licia resta in chi sente che questa storia quasi soltanto sua è anche la loro storia».

Il titolo del libro scritto da Piero Scaramucci insieme a Licia Pinelli, Una storia quasi soltanto mia, viene citato da molti, con quel “quasi” che con garbo e compostezza richiamava a un coinvolgimento collettivo.

«I miei ricordi vanno in via Preneste 7» dice Marino Livolsi «quando le bambine Claudia e Silvia andavano a scuola e Pino faceva il risotto: non un gran risotto a dire la verità. Licia batteva i nostri lavori con la macchina da scrivere. Una vita semplice fino all’uccisione di Pino».

Da una parte lo Stato incolpava gli anarchici, dall’altra emergeva con forza la verità. «La gente non ha creduto alla versione ufficiale e questo ci ha dato forza. Licia con la sua dignità e la sua fermezza è stata un esempio per tutti. Poi a un certo punto ha capito che non c’era più nulla da fare, se non passare il testimone della memoria alle sue figlie e si è ritirata».

QUALCUNO RICORDA altri frammenti intimi di conversazioni con Licia, come quando diceva «ma non poteva difendersi in quella stanza? Aveva anche tirato di boxe Pino». Pensieri puri, istintivi, lontani.

Diversi ricordi vanno al fondatore di Radio Popolare Piero Scaramucci per il libro scritto e pubblicato nel 1982 con Licia Pinelli e per aver contribuito insieme ad altri giornalisti alla ricerca e alla diffusione della verità. A partire da Camilla Cederna, più volte citata negli interventi.

Il presidente dell’Anpi Milano Primo Minelli ricorda «la lottatrice» Licia. «Ai funerali di Pino non c’era molta gente – ricorda Minelli – ma Licia ha riscattato la paura iniziale di alcuni». Tra le figure ricordate anche quella del presidente onorario dell’Anpi Carlo Smuraglia e la sua scelta da avvocato di difendere la famiglia Pinelli, «una scelta che ha aiutato anche tutti noi» dice ancora Minelli. «Milano ha un debito con Licia che ha lottato per scacciare via le accuse infamanti agli anarchici e ai movimenti» ricorda Valter Boscarello di Memoria Antifascista.

FUORI AD ASCOLTARE tutti questi interventi si sono ritrovati mischiati giovani dei centri sociali, anarchici, esponenti locali del Pd, dei Verdi, di Sinistra Italiana, di Rifondazione, associazioni, sindacati, gente comune.

C’è anche il giudice Guido Salvini che tanto ha lavorato sulla strage di piazza Fontana. «Ero presente il 20 dicembre 1969 ai funerali di Pinelli, andai con alcuni compagni di scuola ovviamente di nascosto dalle nostre famiglie. Ho ritenuto un dovere essere qui, ho conosciuto Licia è stata una donna ferma, dignitosa. Posso dire che è incredibile che per la morte di Pino a Milano non vi sia mai stato un processo».

UN RAGAZZO DI 18 ANNI è arrivato dall’hinterland di Milano, da Cinisello Balsamo. «Ci rimane il suo esempio. Per chi è piccolo come me conoscere la storia di Licia può essere d’esempio. Ce n’è un sacco bisogno». Le figlie Claudia e Silvia salutano quasi una a una le persone arrivate qui. «Sono contenta si riconosca il valore di Licia, la volontà di non dimenticare» dice Claudia parlando a Radio Popolare al termine della cerimonia. «Si apre un cerchio – dice Silvia – quello che l’uomo ha separato il cielo poi riunisce, finalmente Licia sarà accanto a Pino».

* Fonte/autore: Roberto Maggioni, il manifesto

Militante di Rifondazione comunista, era arrivato a Genova per il G8 da Vicenza. Aveva trovato un posto un letto alla scuola Diaz. Nella foto, scattata poco dopo il luglio 2001, era in carrozzina, con braccio e gamba ingessati

 

Ho conosciuto Arnaldo Cestaro il 22 luglio 2001 a Genova. Eravamo insieme, ma in stanze diverse, all’ospedale Galliera. Io da solo in una camera a due letti, lui nella stanza attigua con altri pazienti. Entrambi feriti, entrambi in arresto. Ci avevano portati lì, da detenuti, dopo la notte della Diaz. Dal mio letto lo sentivo concionare rivolto ai degenti, e anche agli agenti che lo piantonavano. Parlava della grande manifestazione del giorno prima, del movimento che si era messo in marcia in tutto il mondo e che aveva colmato di vita e di spirito rivoluzionario le vie di Genova nei giorni del G8. Ero stupito. Io me ne stavo rattrappito, dolorante, impaurito e confuso nel mio letto, sorvegliato da due agenti, arrestato chissà perché, e lui era pieno di ardore e di coraggio. Chi sarà mai questo tipo, mi chiedevo.

Poi lo portarono della mia stanza, nel letto vuoto, e mi trovai davanti a quest’uomo, allora sessantenne, con un braccio e una gamba ingessati, messo peggio di me. Eppure arringava gli agenti che ci sorvegliavano, a quel punto quattro, due a testa, ed era travolgente. Mischiava italiano e dialetto veneto. Riusciva anche a scherzare. “Ma non vedete che avete fatto?”, disse a un certo punto agli agenti. “Lui lavora al Resto del Carlino, un giornale di destra, e l’avete riempito di botte”. E ghignava sotto i baffi, mentre io facevo fatica a ridere per il dolore procurato dalle botte al ventre.

Arnaldo se n’è andato l’altra notte, facendoci piangere, ma lasciandoci anche il ricordo di una persona speciale. Era un militante politico, orgogliosamente comunista, pieno di umanità e di gentilezza. Era arrivato a Genova per il G8 da Vicenza, con un pullman organizzato da Rifondazione comunista, il suo partito, ma non era rientrato col resto del gruppo. Si era fermato a Genova con l’intenzione di portare un mazzo di fiori al cimitero di Staglieno, sulla tomba della figlia di una compaesana, una ragazza morta in un incidente stradale. Arnaldo era così, un uomo gentile, fedele alle amicizie, attento alle persone che aveva vicino.

Quel sabato 21 luglio aveva chiesto consiglio per un luogo in cui passare la notte, e una signora genovese gli aveva indicato la scuola Diaz di via Battisti. Arnaldo si era sistemato con le sue borse proprio vicino al portone d’ingresso della scuola. Fu uno dei primi a essere travolto. “Pensavo che fossero quelli del black block”, avrebbe poi raccontato, “e invece era la nostra polizia”.

Nei mesi successivi, con altre persone, fummo fra i fondatori del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Arnaldo ne era un simbolo. Si portava dietro una lunghissima esperienza di militanza politica nella sinistra rivoluzionaria, nel pacifismo, nei nuovi movimenti sociali. Per dirla con le sue parole: “Ho fatto le scuole alte. La quinta elementare al mio paese era al terzo piano…”. Non era uomo di studi, ma era sempre preparato e informatissimo. Leggeva ogni giorno almeno il manifesto e, finché possibile, Liberazione; al tempo del G8 si abbonò anche ad Altreconomia. Era pieno di curiosità, aperto a nuove idee e nuove prospettive. Aveva sposato il movimento dei movimenti senza rinnegare la sua fiducia nel “socialismo scientifico”, che non mancava mai di evocare.

Si spostava di continuo, coi suoi borsoni, su e giù per l’Italia, dormendo nelle stazioni e altri luoghi di fortuna. Dal Notav al no Dal Molin, dalla Sicilia in lotta contro il Muos alla Perugia Assisi, lui c’era sempre. La sua casa, ad Agugliaro, era un presidio militante, pieno di bandiere e manifesti esposti sulla strada. Faceva il rottamaio, girava le province di Padova e Vicenza e anche oltre col suo furgoncino, raccogliendo ferraglie che poi rivendeva a peso. Nei tempi buoni si faceva aiutare e “assumeva” qualcuno di “quei mori”, come chiamava gli immigrati africani che abitavano un una vecchia casa del paese. Nel basso Veneto lo conoscevano tutti.

Arnaldo a suo modo ha fatto storia. La sentenza Cestaro vs Italia della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz ha creato un precedente giuridico e politico: è stata la prima condanna inflitta al nostro paese per aver permesso e non punito in modo adeguato la pratica della tortura. Qualche tempo dopo la sentenza, Roberto Castello, coreografo fra i più noti in Italia, fondatore della compagnia Aldes, dedicò ad Arnaldo una sala nella sede in provincia di Lucca. Aveva colto il rilievo del fatto: un attivista, una persona comune, aveva chiesto e ottenuto giustizia contro lo stato e a nome di tutti. Arnaldo fu giustamente orgoglioso di quella intitolazione.

Arnaldo è stato e resta un esempio di militanza. Sempre aperto, mai fazioso, una persona gentilissima. Una volta in tribunale a Genova, durante un’udienza davanti al gip, si avvicinò a Francesco Gratteri, l’indagato più alto nel caso Diaz, poi condannato in via definitiva, e con garbo si presentò, gli strinse la mano e gli mostrò una fotografia: “Dottor Gratteri, volevo mostrarle come ci avete ridotto”. Nella foto, scattata poco dopo il luglio 2001, Arnaldo era in carrozzina, con braccio e gamba ingessati, l’immancabile fazzoletto rosso al collo. Gratteri, colto di sorpresa, borbottò qualcosa, Arnaldo gli strinse ancora la mano e salutò. È stato l’unico faccia a faccia fra uno dei responsabili della “macelleria messicana” e uno dei “macellati”.

Resta d’esempio anche la sua apertura mentale. Veniva spesso a Firenze, ospite a casa mia, per portare fiori sulla tomba dell’avvocato Angiolo Gracci, il partigiano Gracco, suo amico e compagno di lotte. Gli feci conoscere Nunzio e Carlotta, due maiali “da compagnia” di un vicino di casa: grazie a loro, capì meglio il mio animalismo e diventò vegetariano.

Arnaldo ha lottato sempre, senza risparmio, col sorriso sulle labbra. L’ultima volta che l’ho visto, pochi giorni fa in ospedale, era ormai stremato. Non riusciva più a parlare. Alla visita precedente, il primo maggio, non aveva riconosciuto né me né Paolo Fornaciari, che era con me. L’altro giorno invece mi ha almeno riconosciuto, mi ha sorriso, e posso ricordarlo così , come un uomo che lotta e non perde mai la sua umanità, la sua attitudine all’empatia, alla solidarietà.

Lo dobbiamo ricordare per quel che era. Un uomo buono, un rivoluzionario.

Ciao, Arnaldo.

* Fonte/autore: Lorenzo Guadagnucci, il manifesto

Per Giovanna Marini la canzone popolare non è solo repertorio in cui le classi non egemoni hanno voce nella storia, ma un linguaggio da imparare per il presente e per il futuro

Prendi un gruppo di amici d’estate al mare. Dopo cena, una di loro prende la chitarra e dice, «Vi dispiace se suono qualcosa?». Permesso concesso volentieri, anche se non se la tira per niente, alla signora con la chitarra.
Dopo tutto è senza ombra di dubbio la più grande musicista italiana dell’ultimo mezzo secolo e si chiama Giovanna Marini. C’è una poesia di Emily Dickinson a cui pensavo spesso quando mi trovavo vicino a lei: “A nearness to tremendousness”, stare vicini a qualcosa di immenso, che ti invade e ti sovrasta – e che al tempo stesso ti sta accanto, è familiare, e ti tratta come se tu fossi un suo pari.

Ho detto che è stata la più grande musicista italiana, non la più grande musicista “folk” e basta. Giovanna Marini la musica ce l’aveva tutta. Figlia di Giovanni Salviucci, uno dei compositori importanti del nostro ‘900, allieva di Andrés Segovia all’Accademia Chigiana, nasce come musicista classica, poi (raccontava) scopre la canzone popolare grazie a un incontro con Pier Paolo Pasolini. Nel 1964, è col Nuovo Canzoniere Italiano sul palco di Spoleto, in quel concerto intitolato “Bella ciao” che fa scoprire a tanti di noi l’esistenza di una musica popolare multiforme, radicale, insopprimibile, e bellissima, proprio come era lei.

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Incontro in musica tra Pasolini e Giovanna Marini

Dentro la musica popolare, però, Giovanna Marini ci stava a modo suo, creativo e non subalterno. Già dai tempi di “Bella ciao”, impara e ricanta le canzoni popolari ma sente anche il bisogno di inventarsele – come quel capolavoro assoluto che è “Lu cacciatore Gaetano”, che cantava sempre quelle sere al mare. A mano a mano che la frequenta, si accorge che la canzone popolare non è solo un repertorio in cui le classi non egemoni danno voce alla propria presenza alternativa nella storia, ma un linguaggio, una grammatica che va imparata e sviluppata per andare avanti, per parlare del nostro tempo e del futuro.

Una volta, ascoltando i nastri delle registrazioni sul campo che avevo cominciato a fare attorno a Roma, mi disse: «Questa è la mia placenta». La voce dei contadini, degli emigranti, degli sfruttati, come nutrimento della sua stessa creatività di artista colta – e la sua creatività colta come strumento per far ascoltare quella voce. Riconobbe musica nelle grida di una donna di borgata che urlava contro la polizia dalle finestre di un palazzo occupato e ne trasse gli elementi di stile su cui costruì quel mix di rap urbano e madrigale rinascimentale che ci ha dato ”I treni di Reggio Calabria” o i suoni con cui rivestì “Le ceneri di Gramsci” del suo amato Pasolini.

Aveva capito che la diversità della cultura popolare sta sia nelle storie che racconta, sia nella voce con cui le racconta; nel riproporre i canti, li “disarticolava” e ne estraeva quegli elementi di differenza, quelle unità stilistiche in cui si annidava una insopprimibile resistenza, esistenziale prima ancora che politica, e che le davano il linguaggio anche per inventare musica nuova e “andare più in là”.

Giovanna Marini è stata anche una grande artista della parola. Intanto perché dalla musica popolare aveva imparato che musica, parola, voce, corpo sono un’unità inscindibile (proprio a proposito di Pasolini spiegava che i nuclei della sua composizione partivano dalle sillabe delle parole). Ma soprattutto perché la sua creatività andava oltre. Era un’affabulatrice irresistibile, che rispettava i fatti solo nella misura in cui si adeguavano a verità più vaste e radicali, e se lo poteva permettere perché aveva quasi sempre ragione. Coglieva significati profondi attraverso percorsi imprevedibili che non avevano a che fare tanto con la logica quanto con l’intuizione irresistibile del genio, e li restituiva attraverso il simbolo e l’immaginazione. Nessuna analisi antropologica spiega le ambiguità e la necessità del rituale come la sua ballata della “Nave”. Tutti quelli che si occupano di uso pubblico della storia dovrebbero ascoltare la sua “Ballata dell’eroe”, l’arazzo che racconta le imprese dell’eroe e le distorce fino a che è lui ad adeguarsi alla rappresentazione – e morirne.

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Giovanna Marini censurata dall’ignoranza

I testi delle sue ballate e canzoni sono poesia civile altissima, come la preghiera laica di “Io vorrei” – il desiderio di un Dio che «con una mano gigante spazzasse via tutta quella gente che piega la legge ai propri interessi, poi dice a noi di fare lo stesso, che ripulisse terra mari fiumi montagne, cielo aria firmamento… Poi si fermasse a guardare un momento e regalasse un altro pianeta a chi non vuole né rubare né sporcare né corrompere né convincere né costringere né sconfiggere ma solo vivere, vivere con altra gente e tanto tempo e spazio attorno a sé».È
Una preghiera laica, ma sempre preghiera. Giovanna Marini era una cristiana profonda e insofferente, e una comunista a modo suo, mai disciplinata, sempre fedele. È per questo che può prendere un canto religioso abruzzese sulla morte di San Donato e trasformarlo nel laico e sacro “Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini” (e accostarci una melodia presa da Schubert).

Al di là della teologia e della politica, questa fede intrecciata la viveva nel suo modo di essere artista, sempre in comunione con gli altri (la musica l’ha composta sempre per cantarla con altri, dai meravigliosi quartetti di voci femminili ai grandi cori di Testaccio, al coro di comunità che ha messo in piedi a Monteporzio quando è andata a vivere lì). Ha sempre lavorato in contesti di condivisione e ha sempre insegnato: ha cominciato dal Nuovo Canzoniere Italiano, ha partecipato alla fondazione del Circolo Gianni Bosio, ha insegnato dieci anni alla Sorbona e, soprattutto, ha dedicato gli ultimi decenni della sua vita alla Scuola popolare di musica di Testaccio, ai cori di canti contadini e di canti sociali in cui si sono formate alcune delle nuove voci più significative della musica popolare e dintorni.

Una sera, a casa di un comune amico musicista, qualcuno mise su un disco di Bruce Springsteen. Giovanna viveva in un mondo sonoro alternativo, non l’aveva mai sentito. «Voce interessante», disse: «È uno importante?». Sì, Giovanna, è importantissimo. Ma mai quanto te. Mai quanto te.

* Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto

Lo sceneggiatore (per Kusturica), poeta, scrittore iugoslavo è morto (1944-2024): se ne va un grande artista, un uomo coraggioso, un combattente

 

Con Sidran, morto il 23 marzo scorso a 79 anni, è scomparso uno degli ultimi giganti della letteratura, del teatro e del cinema prima jugoslavo e poi bosniaco/bosgnacco, e cioè uno degli ultimi testimoni di un mondo che fu: tra jugonostalgia, come si chiama il sentimento di chi vorrebbe tornare ai tempi di Tito, non per ideologia ma per appartenenza a un cammino di speranze collettive, sia pure tradito, sia pure deviato; e nostalgia per un presente che sfugge di mano e in cui una Bosnia al centro degli interessi mondiali durante un ventennio si ritrova ora sepolta nell’oblio e nel disprezzo, preda del trionfo di ipocrisie globali e di mafie politico-religiose locali.

Di questo ci ha parlato e ha scritto Sidran, con l’anima spezzata per una guerra che ha distrutto due mondi, quello di prima e quello a venire. E di un assedio che, contro la città di Sarajevo e la Bosnia intera tra il 1992 e il 1995, riportò la ferocia esplicita, lo stupro e la pulizia etnica nel cuore dell’Europa.

Un leone è stato Sidran, indomito, nella grandezza degli errori e nella forza di una terra da lui esplorata con le armi della poesia. Armi che non tacquero nemmeno quando altre armi, e cioè i cannoni e i fucili puntati su Sarajevo dalle alture intorno, si misero a falciare la vita nella/della capitale bosniaca.

Anche nel passato socialista, però, la violenza non era poca e la jugonostalgia ama la verità: la verità di lotte anche dentro il movimento resistenziale, di prove micidiali, tra guerra e un dopoguerra segnato dallo scontro tra Tito e Stalin, dai crimini di Goli Otok, dal riavvicinamento con Mosca, dalla normalizzazione degli anni Sessanta-primi Ottanta e, poi, l’incubo. Esemplare la vicenda del partigiano comunista Juraj Marek che durante la resistenza «rimase a guardare la fucilazione» del proprio stesso padre, un ustaša -racconta Sidran conversando con Piero Del Giudice a Sarajevo nel 1993-, che fu aguzzino a Goli Otok contro il padre di Sidran e gli altri «cominformisti», poi «brillante pedagogo» e infine suicida nel 1992… In Papà è in viaggio d’affari (1985, film con la regia di Kusturica e la sceneggiatura di Sidran, e che Silvio Ferrari, attentissimo traduttore in italiano dal bosniaco-croato-serbo, ritiene che dovesse avere il titolo Papà è in viaggio di/per servizio, non esistendo «viaggi d’affari» nella Jugoslavia socialista) si riprende la storia della famiglia Sidran, con il padre finito nelle mani degli sgherri antistalinisti di Tito.

Il film, il secondo della coppia Kusturica-Sidran dopo Ti ricordi di Dolly Bell? (1981, Leone d’oro a Venezia, migliore opera prima), vinse a Cannes nel 1985. Le sceneggiature di questi due film, insieme ad altro materiale, possono essere lette in italiano in quel libro «mostruoso»che è Romanzo balcanico (Aliberti, 2009, pp. 927), curato da Piero Del Giudice (morto nel 2018, poeta e giornalista) con traduzioni di Silvio Ferrari, Nadira e Adem Šehovic, Alice Parmeggiani, ed altre/i. Grazie a Del Giudice e a chi abbiamo appena citato, e inoltre alla Casa della poesia di Baronissi (in provincia di Salerno), la poesia di Sidran è arrivata in Italia. Non le/i ringrazieremo mai abbastanza.

Sidran leone e gigante, ma soprattutto poeta dell’umanità schiacciata dalla guerra in La bara di Sarajevo/Sarajevski tabut (ed. italiana ADV, 2002) e Il cieco canta alla sua città (ed. italiana Saraj, 2006). Bara/tabut: «Da una base semitica T-B-T sono venute fuori in molte lingue (arabo, ebraico, aramaico, copto…) diversi significati: cuore, petto, seno, nave, barca, cassa, scrigno, casa votiva (…) in Bosnia, oggi, è la tradizionale cassa da morto dei Bosniaci (musulmani) (…) È attraente e suggestiva la somiglianza fra la forma del tabut e la configurazione del sito spaziale sul quale da più di cinquecento anni esiste la città di Sarajevo…» Una città-bara offerta all’assedio degli Animali.

Leggiamo in nota alla poesia «La preghiera di Sarajevo»: «Animali: così la gente di Sarajevo chiama quelli che dall’alto bombardano la città»; e poi, in questo stesso testo: «…Togli gli Animali, dai declivi dei colli, toglili. / Togli gli Animali, ti scongiuro, Signore – / ma non toccarmi il maiale né il cinghiale, / non toccare l’usignolo, né il variopinto canterino di casa / (…) Toglili, Signore / da questo e dall’altro mondo. / Allontanali, / e aiutali.» In questa città oppressa, si muove il cantore cieco: «…C’è forse qualcuno che conosce meglio di me questa città? / Di me, Signore, al quale hai dato di non vedere mai / quella che ama?»… (in Il cieco canta la sua città). Ma gli Animali non vennero tolti, né dal Signore né da entità più terrene, e per tre anni furono loro a decidere della sorte dei sarajevesi. Ma nel 1996 nasce il figlio Tarik (Sabija ne è la madre – «Mi sono avvolto / nel bozzolo / di un tardo amore…», in «Tarik»), e rinasce la vita nella città senza assedio, dopo l’ambigua Dayton.

Da allora, altre miserie: le rovine esaltanti si trasformarono nel trionfo del nazionalismo affaristico, come in ogni postdemocrazia che si rispetti, in ogni democratura. Ora la postdemocratica Bosnia ha un monumento, il monumento-Sidran, ma Sidran saprà fuggire dalla gabbia in cui lo hanno messo, e in parte si è messo da solo, per disperazione, negli ultimi anni. Noi sappiamo che questo accadrà: se è vero che, come nel titolo di una delle opere teatrali più crude scritte da Sidran, A Zvornik ho lasciato il mio cuore (siamo nel conflitto degli anni Novanta – un «cetnico l’afferra per i capelli, e lei strilla, ma lui l’ha gettata per terra, e la colpisce con dei calci alla schiena. Lei continua a strillare, ma da terra riesce ad agguantarlo per lo scroto, tanto da minacciare di strapparglielo (…) alla fine riesce a estrarre la pistola – ed esaurisce tutto il caricatore sul corpo di Vera…»), questo stesso cuore non ha cessato di battere, in lui e nell’umanità rinnovata non dalla guerra ma contro la guerra, anche contro questa che c’è.

* Fonte/autore: Gianluca Paciucci, il manifesto

Con queste parole, quattro anni or sono, concludendo “Storia di un comunista 3 – Da Genova a domani” (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle grazie editore), Toni parlava con serenità della propria morte

di TONI NEGRI

Mi sembra talora di essere completamente estraneo al mondo che mi sta attorno. Curiosa sensazione per qualcuno che ha riempito tre volumi di una storia di intensa immersione nell’esistente. Probabilmente, mi dico, avviene perché sono vecchio – per quanto mi agiti nel cercare di tenere aperta la comunicazione con amici più giovani e svegli, la mia percezione è ottusa. Poi però mi chiedo: non può darsi che questa mia considerazione del mondo e questa convinzione di estraneità non siano vere? Vere? Intendo che quella percezione di estraneità non dipenda da me, dalla mia insufficiente o ridotta attenzione, ma che il mondo che mi circonda sia davvero brutto e inconsistente. Non sarà che alla mia fiducia nell’essere, alla mia ammirazione per quello che è vivo, non corrisponda più qualcosa che si possa amare?

Brutto, bello, vivo, amato… sono aggettivi di difficile definizione e di altissima relatività. Forse allora, per confermare il mio dubbio, a questi termini non dovrei affidarmi. Forse l’unico aggettivo che vale, fra i molti che fin dall’inizio utilizzo, è “estraneo”. Un effetto di straniazione è quello che provocano in me linguaggi e umori, non importa se individuali o collettivi, che risuonano nella società, fuori di me. Penso di esser sordo e di sentire suoni confusi. In realtà, un po’ sordo sono ma i suoni confusi non li sento con l’orecchio ma con l’anima, con il cervello. Mi sfugge il mondo attorno. Ho avuto una lunga vita, ho conosciuto contraddizioni enormi e conflitti mortali, sempre tuttavia sapevo di che si trattava, gli elementi della contraddizione e del conflitto stavano dentro un quadro noto, comunque significante – perché allora il significato degli eventi che oggi si dànno attorno a me s’iscurisce e mi sfugge? In cosa consiste la loro insignificanza? A rappresentare questa estraneità c’è un mondo nuovo. Un mondo nuovo ma affaticato, prostrato davanti alle difficoltà fisiche, politiche e spirituali, della propria riproduzione. Difficoltà economiche e caduta di referenti politici, collettivi, di riferimenti di valore. La comunicazione è divenuta frenetica ma i significanti si scolorano nella velocità. C’è confusione negli spiriti. C’è corruzione nei linguaggi. I vecchi riferimenti di lotta sono scomparsi: destra e sinistra, sindacati e partiti, senso e significato della storia… questo è il mondo attorno a me. Non dipende dalla mia vecchiaia, dalla mia stanchezza: è così.

Quando rifletto su questa fenomenologia del presente, quanto più affino lo sguardo, tanto più l’unica, la sola figura valutativa e descrittiva che mi sembra investire il mondo dei significati e permettere di descriverlo, è quella del nihilismo. I segni mancano di significato, i visi mancano di sorriso, i discorsi sono vuoti. Non sappiamo di cosa parlare. Vedo sul viso altero dell’interlocutore una smorfia – è sempre la stessa che trovo in gran parte dei miei interlocutori. Sicché è gran festa quando se ne trova uno indenne da questa patologia. La gente è disperata. Quando ripenso a coloro che ai miei tempi, ormai antichi, hanno sviluppato concezioni nihiliste per la loro filosofia, ed hanno spesso concluso, nella krisis, al pessimismo ed all’attesa della catastrofe (ed i miei lettori sanno con che continuità e con quale asprezza li abbia combattuti) – tuttavia quando ripenso a loro, quasi mi commuove ora la loro malattia che era consapevole e sofferta. Mentre ho oggi difronte a me personaggi la cui etica è nihilista e catastrofica, non come risultato di un lavoro critico ma perché la loro esistenza è senza consistenza, anche quando, frequentandoli, sembra che vivano una vita qualunque. Sono senza passioni, in realtà, sono senza significanti, sono senza fede – per ben che vada pensano che il linguaggio debba essere depurato, lavato e rilavato e condotto a purezza significativa – la purezza del secchiaio dentro al quale hanno fatto le pulizie. Gettano davvero il significante con l’acqua sporca del bagno. Gli resta quell’ideale di purezza – il “reine“della ragione, della sensibilità, del concetto – che è diventato aggettivo del vuoto, del mero resto dopo lo svuotamento dell’essere. Quando mi guardo attorno mi sento circondato da questi zombie, da milioni di zombie.

È davvero nuovo questo mondo? Certo, si è affermato da poco, è in crescita, presto questo “nuovo” occuperà tutto. Ma non è nuovo. Ho 85 anni. Fino ai miei 25-30 questo “nuovo” mondo c’era, in forme solide ed efficaci, il mondo dell’infra due guerre e del secondo dopoguerra. Era quello che mi ha oppresso e contro il quale ho combattuto. Lo avevamo messo in soffitta e parzialmente distrutto, ora ricompare egemone, questo mondo vecchissimo. È quello fascista della mia infanzia e giovinezza. Era il mondo nel quale “patriarcato-sfruttamento capitalista-sovranità della nazione” investivano, da padroni, la vita e la testa della gente. E tradivano la generosità e l’intelligenza dei giovani per indurli a illusorie avventure: il patriottismo, la nazione, la razza, l’identità, la mascolinità erano assunti come valori superiori. Si chiama fascista questo mondo, non solo conservatore ma reazionario, non solo religioso ma fanatico nel distruggere ogni libertà. Un mondo dove la fatica di vivere dominava su ogni altra passione e una greve disciplina costringeva le anime all’insensibilità nel dolore. L’oppressione spingeva all’insignificanza. È ridivenuto così il mondo presente?

Ma se è così, come potranno leggermi, come potranno comprendermi i ragazzi di oggi? Il mio libro sembrerà loro affondare in lontane profondità, difficilmente accessibili. Sarà per loro un documento archeologico. E il mio editore, perché deve pubblicare questo testo al massimo degno di archivio? C’è ancora un numero sufficiente di vecchietti che apprezzerà questo racconto e ringrazierà l’editore per averlo pubblicato?

Quando – non è passato molto tempo – un orrido personaggio fascista è asceso alla Presidenza di un grande paese, il Brasile, ad alcuni giovani amici che chiedevano: “Che cosa possiamo fare? Come comportarci per resistere?”, ho risposto: “Non abbiate paura”. È la condizione per costruire una grande ed efficace resistenza. Il fascismo si regge sulla paura, produce paura, costituisce e stringe il popolo nella paura. Non aver paura: questo è quanto bisogna esser capaci di dire alla gente, fra la gente, nella moltitudine che oggi soffre il ritorno della barbarie fascista, anche da noi, sotto il nostro sole. Non aver paura di spezzare la prigionia del linguaggio vuoto che ci viene imposto e di ridere dell’autorità, ovunque si presenti con la grottesca maschera fascista. Non aver paura significa liberare le passioni e così riempire quelle forme linguistiche che il processo di assoggettamento fascista ha lasciato vuote. Sembra che il secolo si sia oscurato: respingere la paura, produrre resistenza, è prima di tutto dissipare le ombre, riconquistare senso delle parole. Riempirle di cose, di realtà, di libertà. Soggettivarle. Ma l’operazione principale consiste nel riconoscere che il fascismo è sempre quello, è sempre ripetizione della violenza per bloccare la speranza, è il vecchio – i disvalori assoluti del patriarcato, della violenza dello sfruttamento e della sovranità – che viene riproposto illusoriamente per imporlo come necessità dello spirito ed obbligo della morale mentre è fondamento di una cultura di morte. “Viva la morte”, è la parola d’ordine del fascismo.

“Viva la vita”, è la risposta di chi non ha paura. Tornerà la primavera – ritorna sempre! Il fascismo sembra eterno ed in effetti (pur breve) sembra una troppa lunga pena – ma è fragile, il fascismo. Scontrandosi con la passione del vivere liberi, quanto poco può tenere. La libertà si impone necessariamente contro il fascismo, perché con la libertà staranno le altre passioni politiche forti, come quella per l’eguaglianza e quella per la fraternità. Tornerà la primavera e sarà una vera stagione del nuovo. Perché se il fascismo è sempre uguale, la primavera della libertà è sempre nuova, sempre diversa, sempre piena di doni.

Guardate al passato, guardate di nuovo alle grandi stagioni di lotta. Potremmo andare tanto indietro… due esempi bastano. Il 1848 e il 1968 sono date che per la mia generazione sono state fondamentali. La prima, l’inaugurazione del socialismo in Europa, dentro e contro lo sviluppo delle contraddizioni venute dalla rivoluzione francese e dalla maturazione dell’accumulazione capitalista. Da questo incontro era sgorgato l’antagonismo di libertà contro eguaglianza e quello di eguaglianza come fraternità dei popoli versus libertà come nazionalismo e sovranismo. I reazionari sempre da una parte, fissi, bloccati nella difesa dei loro privilegi; i rivoluzionari che per la prima volta innalzavano la bandiera rossa della fraternità fra i popoli. Un secolo di lotte feroci è seguito al ‘48. Il socialismo si è affermato, è stato poi sconfitto, ha comunque lasciato un’enorme eredità di beni pubblici, meglio detto, di “comune” per le nuove generazioni. È su questo terreno di innovazione e di potenza, che si è aperto il ’68. Il “comunismo” è stato il suo orizzonte. Si trattava di rendere comune quello che era pubblico, di ottenere più comune dal pubblico conquistato nel gioco democratico. Il frutto del socialismo andava moltiplicato.

Ci siamo stati dentro e ci staremo dentro a questa battaglia, nostra e dei nostri figli. È stata nuova quella ventata di volontà democratica che ancora una volta ha messo sottosopra il mondo. E si ripete: ogni dieci anni, più o meno, abbiamo grandi episodi, diffusi e diffusivi, di rivolta. I cicli Kondriatev sono finiti. I cicli di soggettivazione del comune hanno preso il sopravvento. Ogni volta adeguando la resistenza al superamento di ostacoli predisposti da una repressione divenuta ormai “scienza di governo”. Ogni governamentalità è un’operazione capitalista, sovrana, per bloccare e imbragare i movimenti produttivi del lavoro vivo. Gli risponde un rinnovato attacco da parte dei movimenti dei cittadini-lavoratori ed una capacità di mettere a frutto le conquiste ottenute.

Guardiamolo con attenzione, questo gioco che dopo il ’68 si è messo in atto. Resistenza dei lavoratori per conquistare la soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni, poi repressione. Ma riesce la repressione a raggiungere l’obiettivo di bloccare l’azione sovversiva? Spesso fummo costretti a dare risposta positiva a questo interrogativo. Ma anche quando il movimento sovversivo sia bloccato, andiamo a vedere se davvero la lotta abbia avuto una risultante negativa (o relativamente tale). Ebbene, non è così. Le riforme che le lotte, anche perdenti, accumulano, sono importanti, sono un aumento del “comune” nelle mani delle moltitudini del proletariato. Attenzione a vecchie voci che vengono dal passato: significa, la positività di questo processo, che si deve essere “riformisti” nella conduzione del movimento? Assolutamente no. I riformisti non accumulano nulla di comune, accumulano solo sconfitte e demolizioni del comune, collaborano alla governance capitalista e insozzano e pervertono le lotte. Di contro, solo le lotte di resistenza che divengono sovversive, accumulano la ricchezza comune e la suddividono fra istituzioni del comune. Circondati da istituzioni del comune, un certo progresso lo abbiamo conquistato per la nostra vita e per quella dei nostri figli. Lo testimonio volentieri nella mia vecchiaia.

Ma per tenere aperto questo dispositivo del “comune”, della sua conquista e della sua accumulazione, la storia delle lotte ci insegna che dobbiamo organizzarci. Ho passato la vita provando a risolvere questo compito. Non credo di esserci riuscito – vale a dire, a scoprire una formula organizzativa che avesse l’efficacia del “sindacato” nella Seconda Internazionale o del “soviet” nella Terza. Abbiamo identificato il terreno della moltitudine come insieme di singolarità, operante come sciame, come rete, probabilmente organizzabile in una vera democrazia diretta. Non siamo tuttavia mai riusciti ad andar oltre esperienze “in vitro“. Ma la strada è quella e già percorrerla permette alla dialettica di resistenza e sovversione, di destabilizzare il potere nemico e di destrutturarne il sistema produttivo, quindi di disporsi alla conquista del comune e alla costruzione di istituzioni del comune. La strada da percorrere è ancora lunga e i vuoti di organizzazione, i tempi vuoti dell’impresa sovversiva, si pagano.

Ci scontriamo con un fascismo risorgente. Sappiamo che la lotta si fa difficile. Non abbiamo paura. Stiamo sulla linea del fronte. Pensiamo che la nostra resistenza è efficace. Ma bisogna prepararsi alle estreme conseguenze alle quali il fascismo può arrivare: la guerra. Chi ha vissuto la guerra, chi l’ha subita, sa che la guerra è, è stata e sarà un’irresistibile macchina di distruzione. È questa volta, dell’umanità intera, dati i mezzi bellici di cui le grandi potenze capitaliste possono servirsi. Guerra fra potenze = distruzione delle radici dell’umano. Il fascismo può produrre questo disastro dell’umano, questo massacro della sua storia sul pianeta. Combattere il fascismo è quindi battersi in favore dell’umano. Senza mai dimenticare che il fascismo è capace di distruggerlo, quando avverte che le regole patriarcali della società, la struttura del comando per lo sfruttamento, e la sovranità del proprio interesse nella forma politica dello Stato, sono messi in pericolo. Concentriamoci su questo punto ed organizziamoci per non subire la decisione di guerra di un capitale incrociatosi al fascismo. Evitare la guerra, combattere e vincere sul capitale senza passare attraverso la guerra è il nostro compito. Come fare? Il pacifismo sarà la nostra arma perché la pace è il nostro desiderio.

Ho vissuto e subito il fascismo. Il mio cuore è offeso e il mio cervello traumatizzato quando ripenso quella esperienza. Ho vissuto poi, dal ’68 ad oggi, senza paura del fascismo. I crimini che gli venivano imputati, la Shoah in primo luogo, impedivano che fosse nuovamente desiderato, la gran massa delle popolazioni sembrava averlo definitivamente ripudiato. Solo i funzionari della sovranità riuscivano ad accompagnare nel ricordo (e ad essere conniventi nelle pratiche) quelle condotte criminose – talora rinnovandole. La repressione del ’68 europeo ne fu un esempio. Io comunque non ho mai avuto paura, ho solo sviluppato disprezzo per quei delinquenti. Oggi la cosa è diversa: una nuvola di fumo solforoso, un’atmosfera spessa, impossibile da attraversare con lo sguardo, ci circonda. Il fascismo è ubiquo. Dobbiamo ribellarci. Dobbiamo resistere. La mia vita sta andandosene, lottare dopo gli 80 diviene difficile. Ma quel che mi resta dell’anima, mi conduce a questa decisione.

Nella resistenza al fascismo, nel tentativo di rompere questo dominio, nella certezza di riuscirci, questo libro è stato scritto. Non mi rimane, amici miei, che lasciarvi. Con il sorriso, con dolcezza, dedicando queste pagine, questi tre volumi che sto concludendo, a quegli uomini virtuosi che nell’arte della sovversione e della liberazione mi hanno preceduto, e a quelli che seguiranno. Abbiamo detto che sono “eterni” – l’eternità ci abbracci.

Fonte: Euronomade

 

foto di Tano D’amico

Anarchico, filosofo, rapinatore. Muore a 86 anni Alfredo Bonanno, il più importante teorico dell’insurrezione: tra esaltazioni della violenza e polemiche con Sartre

 

Seduto al banco degli imputati in un’aula del tribunale di Roma il 15 dicembre del 1999, un mercoledì, Alfredo Bonanno si sente domandare dal procuratore Antonio Marini quale sia la sua idea di rivoluzione. La risposta è un compendio teorico che abbraccia quasi due secoli di pensiero libertario, tra dotte prolusioni e citazioni d’alto rango. Il pm non è soddisfatto, però. Insiste sul merito della questione. Dice che, al di là delle pur ben argomentate teorie, il punto riguarda una bomba, che per poco non causava una strage di poliziotti, e un sequestro di persona finito male, con la morte della persona rapita. È così dunque che si fa la rivoluzione?

«Non so cosa dirle», fa Bonanno. Marini allora insiste: «Bisogna abbattere anche gli individui?».
«Ma è logico», risponde l’imputato, come stesse parlando della necessità di aprire l’ombrello quando piove.
Non c’è mai stato sottinteso nelle parole del siciliano Bonanno – morto ieri mattina a Trieste, dove abitava ormai da diversi anni con la moglie Annalisa -, è sempre stato tutto chiaro, spiegato per filo e per segno, senza metafore, senza mezze parole.

ERA IL 1977 quando nel classico La gioia armata (dodici edizioni in italiano, svariate traduzioni, almeno centomila copie vendute) si domandava in maniera sarcastica per quale motivo gli attentatori di Indro Montanelli gli avessero sparato alle gambe e non in testa: «Sbrigati ad attaccare il capitale, prima che una nuova ideologia te lo renda sacro. Sbrigati a rifiutare il lavoro prima che qualche nuovo sofista ti dica, ancora una volta, che il lavoro rende liberi. Sbrigati a giocare. Sbrigati ad armarti», era l’invito al lettore. Il volume, ovviamente, fu sequestrato quasi subito e lui, l’autore, venne condannato a un anno e mezzo. Non era la prima volta: cinque anni prima, per un pezzo che incitava alla rivolta uscito su Sinistra Libertaria, di anni di condanna ne prese due. Nei ’90 farà parte del mucchione degli imputati del processo Marini: decine di persone a processo; una complicata inchiesta condotta dal Ros; un teorema che metteva insieme anarchici e banditi senza particolari affiliazioni politiche; una storia di rapine, sequestri, riviste, volantini, comizi, bombe esplose, bombe difettose, bombe solo ipotizzate. Tutto per dimostrare l’esistenza di una banda armata che non è mai esistita, l’Orai, «Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionalista», di cui lui, Bonanno, sarebbe stato il capo e l’ideologo. In realtà era solo un’idea, l’unica traccia esistente dell’Orai è nella sbobinatura di un incontro tenuto in Grecia al quale aveva partecipato anche lo stesso Bonanno. Alla fine non se ne fece niente. Del resto ogni tentativo politico di mettere insieme gli anarchici insurrezionalisti è sempre stato un buco nell’acqua e ancora oggi quell’area è un arcipelago frastagliato di piccoli collettivi, singoli individui, gruppetti che talvolta neanche si parlano tra loro.

Infatti il processone di Marini, cominciato tra squilli di tromba, arresti in mezza Italia e capi d’accusa altisonanti, finì con poche condanne per singoli fatti, con l’associazione sovversiva solo sullo sfondo, priva di reale concretezza nelle prove (e nelle sentenze). Bonanno ne uscì con una condanna a sei anni per apologia e propaganda sovversiva, senza però reati associativi a suo carico.
L’ultima impresa è dell’ottobre 2009, quando venne arrestato a Trikala, in Grecia, per due rapine. Condannato a quattro anni dal tribunale di Larissa, verrà scarcerato quasi subito perché ormai aveva superato i 70 anni di età.

LA SUA CARRIERA di uomo d’azione finisce lì, ma quella di teorico è andata avanti fino alla fine, soprattutto grazie alla casa editrice Anarchismo, che ha dato alle stampe tutti i suoi scritti (si contano nell’ordine delle decine) e ospitato svariate curatele.
A dimostrazione di una statura intellettuale fuori dal comune, una volta Bonanno fece arrabbiare – e pure parecchio – niente meno che Jean-Paul Sartre. Nel 1978, per le solite edizioni Anarchismo, uscì un libro a firma del filosofo francese, per la traduzione di tale Giuseppe Alvisi. Titolo: Il mio testamento politico. Dedica in esergo: «Ai miei amici anarchici da me ingiustamente disprezzati e alla memoria del mio amico Camus», a testimonianza di un ravvedimento teorico e della decisione di abbracciare i sin lì sempre disprezzati ideali libertari. Il testo, peraltro ristampato di recente, è un lungo e sanguinario elenco di nefandezze contro lo Stato, contro la religione, contro l’aristocrazia, contro la società borghese. Si evoca la violenza rivoluzionaria più brutale, l’insurrezione più violenta delle masse proletarie oppresse. Era un falso, ovviamente. Bonanno si era limitato a tradurre uno scritto – che lui stesso definì «follemente delirante» – dell’anarchico ottocentesco Joseph Déjacque.

La notizia finì comunque su tutti i giornali: La Stampa definì lo scherzo come «opera di imbecilli», il Corriere della Sera ne parlò invece come di un tentativo di suscitare le ire del francese per smascherarne le ambiguità ideologiche. Infatti, via telegramma, Sartre inviò una minaccia di querela alla quale in ogni caso non avrebbe mai dato seguito.
«Era più che evidente che il vecchio stalinista non poteva rivolgersi alla magistratura, proprio per le sue non remote posizioni contro la repressione in Italia», commentò Bonanno, consapevole di averla fatta grossa.

Sommerso dagli eventi e mai in cerca di notorietà, negli ultimi anni Bonanno si era ritirato a Trieste, con la moglie e un figlio che porta il suo stesso nome. Una vita tranquilla, anche se sempre sotto gli occhi della questura, che ha continuato a trattarlo come un nemico pubblico fino alla fine, anche perché il tenore dei suoi scritti non si è ammorbidito con il tempo. Anzi. Anche per ammissione degli investigatori, però, i legami tra l’insurrezionalismo storico e la cosiddetta Federazione Anarchica Informale sono sempre stati pochi e fortemente conflittuali.
Diverse visioni del mondo, in sostanza, anche se Alfredo Bonanno e Alfredo Cospito erano imputati insieme nel processo Marini (il secondo con una posizione molto marginale, infatti ne uscì quasi subito). Al vecchio siciliano non è mai piaciuta la componente spettacolare delle nuove leve, pensava che fosse un odioso tentativo di personalizzazione della rivolta. Il dibattito, confinato tra i blog e le pubblicazioni semiclandestine di area anarchica va avanti ancora oggi. Bonanno ha scritto parecchio al riguardo, con la verve che è riuscito a mantenere fino all’ultimo. Parliamo, infatti, di un intellettuale, anche raffinato nel suo argomentare, oltre che ricercato, quasi vezzoso, nell’eloquio.

LAUREATO in economia e poi in filosofia (con una tesi su Max Stirner), Bonanno ha lavorato quasi undici anni al Banco di Sicilia e poi per altri sette ha diretto un’industria farmaceutica. Sul punto, in uno degli svariati processi a cui ha partecipato come imputato, un giudice lo provocherà: «Insomma, lei è stato un capitalista».
E lui: «No, capitalista no, però servitore dei capitalisti sì». Per sua stessa ammissione, infatti, Bonanno non era un ribelle. «Sono sempre stato quello che tristemente si definisce il primo della classe – spiegava di sé -, e resto sempre la stessa persona. Il rifiuto del potere da parte mia non è stato semplicemente una conseguenza del ragionamento, ma anche una questione di cuore».
La sua aspirazione, in fondo, è sempre stata quella di cercare di dar corpo alle idee. E se l’idea di fondo è la libertà, questa non può che essere assoluta, inarrestabile, impossibile da rinchiudere.

* Fonte/autore: Mario Di Vito, il manifesto

 

 

 

 

ph by Einige solidarische AnarchistInnen, CC BY-SA 2.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

Fu giovanissima segretaria del sindacato tessile a Vicenza, quando nell’aprile ’68 a Valdagno gli operai abbatterono per protesta la statua del fondatore del gruppo Marzotto. È stata decisiva nella nostra storia per avere approfondito il tema dei Consigli e delle nuove lotte operaie: su queste, non solo su Praga, si caratterizzò la rottura tra Manifesto e Pci

 

E ieri se ne è andata da questa vita la penultima vivente del primo nucleo del manifesto, quello che cominciò a esistere, sia pure informalmente, da prima che la rivista venisse alla luce: Ninetta Zandigiacomi.

Negli ultimi anni l’abbiamo vista poco, si era molto ritirata, anche per accudire il suo straordinario compagno, parecchio più anziano di lei, Michele Rago, uno dei più acuti e importanti intellettuali comunisti. Con Vittorini dette vita al Politecnico, fu uno dei primi inviati de l’Unità a Parigi, autore di scritti preziosi su Gramsci ma anche su Sciascia, e poi molto su Sartre di cui fu stretto amico. Ninetta e Michele si conobbero nella storica sede di Piazza del Grillo già piuttosto maturi e ambedue reduci da altre unioni e fu un amore grandissimo, anzi lo definimmo tutti «leggendario».

Ninetta veniva da tutt’altro mondo, sebbene anche questo del Pci: giovanissima segretaria del sindacato tessile a Vicenza, nell’epoca in cui gli operai a Valdagno buttarono giù per protesta la statua del fondatore del gruppo Marzotto, quando la bianca regione veneta diventò esempio di lotte esemplari. Proprio sui nuovi Consigli di Fabbrica Ninetta scrisse anche un libro: “Autonomia operaia. Esperienze di giornalismo operaio”, pubblicato dal nostro comune editore di allora, Bertani, di Verona, che editò anche una raccolta antologica sull’esperienza consiliare, in cui Ninetta scrisse della Montedison.

Più tardi, proprio su questa innovativa problematica che caratterizzò la rossa stagione degli anni ’70, Ninetta andò a insegnare all’università di Lecce, come assistente del prof. Cosimo Perrotta, docente di Storia economica.

Mi è difficile ricordare Ninetta senza parlare di sua madre Pina, fondatrice dell’Udi nel Veneto, una donna la cui carica innovativa, politica ed umana, ne fece un punto di riferimento per la mia generazione.

Prima della radiazione dal Pci – stessa data di quella di Valentino – Ninetta era stata spostata al centro, a Botteghe Oscure, alla commissione di massa (così si chiamava allora quella che si occupava di lavoro sindacale), allora diretta da Giorgio Amendola, la stessa dove lavorava anche Lucio Magri. (Fra le mie carte nei files sul sindacato ho rintracciato un inserto de l’Unità sulle le lotte del settore tessile nei primi anni ’60, a cura di: Accornero, Limiti, Magri e Zandigiacomi. Furono gli anni in cui diventò aspro il disaccordo interno al Pci proprio sulle lotte operaie, venuto alla ribalta in particolare in occasione della conferenza operaia del ’65, organizzata da Luciano Barca che allora dirigeva la specifica commissione operaia ed era assai vicino alle posizioni degli ingraiani.

Non c’è dunque da meravigliarsi che Ninetta, così come Eliseo Milani, allora segretario della sempre ribelle federazione di Bergamo, abbiano pagato per le loro posizioni – quelle sulla questione operaia che caratterizzarono la rottura del Manifesto che, nonostante quanto viene generalmente ricordato non furono solo relative a Praga – con la non rielezione, all’XI congresso del Pci del 1966 nel Comitato centrale del partito, dove erano stati eletti proprio perché figure esemplari del movimento. Quelli di noi che non eravamo nel C.C. fummo allontanati, come è noto, da Botteghe Oscure. Alcuni che invece lo erano ma furono «graziati» – Rossana, Pintor, Natoli, per esempio. finirono allontanati da cariche delicate e magari promossi nel Parlamento che allora era molto meno ambito del Partito.

Da questo mio racconto nostalgico – perché fu duro ma anche appassionato – capirete quanto Ninetta sia stata importante nella storia del manifesto. Ho scritto perché so che molti fra i giovani di quel periodo sanno poco, e della compagna Zandigiacomi anche meno perché negli ultimi anni si è allontanata dalla nostra quotidianità. Ma l’avete rivista in tanti quando, a piazza S. S. Apostoli, nell’autunno del 2020, abbiamo dato il nostro addio a Rossana Rossanda. Anche lei, sebbene già non proprio in salute, si unì a Filippo Maone e a me nel prendere la parola dal palco. Gli ultimi tre «moikani». Oggi di quel pezzo di storia sono rimasta la sola. E però già dalla fine del ‘’69 – come sapete bene – entrò una folla di sessantottini che poi, nella sostanza, hanno fatto e continuano a fare la vera e lunga storia del Manifesto.

Ninetta aveva 95 anni, uno più di me. Sono ancora giovane. Ma sapete cosa mi succede ora? Mi telefona ahimè quasi ogni mattina, qualche compagno per dirmi : “Mi spiace tanto doverti annunciare la morte del comp.Tal dei tali…”. Poi una sosta e tutti, senza eccezione, aggiungono: “…beh, del resto aveva 80 anni…”.

E a me mi tocca incassare. Auguro a tutti di poter fare altrettanto!

* Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto

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