Anni 70 – Italia

Il regista racconta il suo documentario prodotto da MIR Cinematografica e Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Cinema e con Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico

 

Una gita a Fasano, così come me l’ha raccontata un ragazzo romano in villeggiatura nel sud. «Eravamo in due, io e la mia ragazza. In quel fottuto paese calabrese non riuscivamo a venire a capo della situazione. La roba in un paesino piccolo che vive di birra e gazzosa non sanno manco cos’è. Era il secondo giorno di rota, e mentre la ragazza che era con me reggeva stringendo i denti e spingendosi sempre più vicino al camino nella speranza di sconfiggere i brividi, io ero arrivato proprio allo stremo. Mi sono ricordato di aver letto su un giornale che nelle Puglie c’era un paesino, Fasano, appunto, che era una sorta di Bengodi per chi si fa».

La voce di Claudio Santamaria legge un articolo di Carlo Rivolta pubblicato su Lotta Continua. «Carlo ci teneva moltissimo a lavorare, che la sua esperienza di dolore, la sua conoscenza di quel mondo lì si tramutasse in lavoro di giornalismo» racconta Enrico Deaglio, allora direttore del quotidiano. «Non è che l’idea che lui si facesse un buco fosse una cosa tanto terribile: tanti si bucavano nel bagno in fondo al corridoio di Lotta Continua. Era un vivere con l’eroina». Uno sterminato materiale di repertorio sull’arrivo dell’eroina in Italia negli anni ’70 e sulla devastazione di una generazione – con i documentari di Alberto Grifi sul grande raduno a Parco Lambro e Storia di Filomena e Antonio di Antonello Branca, le trasmissioni televisive di Sergio Zavoli e le inchieste di Joe Marrazzo, i telegiornali e le radio che riportano morti e arresti come in una guerra, gli articoli, i diari, le foto e i filmini in Super 8 di Rivolta – e molte interviste a tossicodipendenti e alle persone più vicine al giornalista, la compagna storica Emanuela Forti e suo figlio Andrea Lapponi, lo zio Rinaldo Chidichimo, l’amico del cuore Luca Del Re, il collega Claudio Gerino e, appunto, Enrico Deaglio: di tutto questo è fatto La generazione perduta di Marco Turco, Nastro d’Argento 2023 per la sezione «Cinema del reale». Il documentario, scritto dal regista con Vania Del Borgo (il soggetto) e con Wu Ming 2 (la sceneggiatura), è una sinfonia corale accompagnata dalla voce di un solista, quella di Carlo Rivolta, talentuoso cronista e giornalista d’inchiesta per Paese Sera, soprattutto la Repubblica, dal primo numero, e Lotta Continua, «sempre tenendo il culo in strada, per quasi dieci anni vissuti pericolosamente», «ghermito dal drago dell’eroina», nelle parole di Wu Ming 1, morto suicida a 32 anni. Ne parlo con Marco Turco, di passaggio a Roma fra una presentazione e l’altra in giro per l’Italia.

Secondo gli autori de «L’aspra stagione», Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale, l’uscita dagli anni ’70 è costata la vita oppure l’anima di tanti: «In troppi hanno perso la prima. Molti si sono venduti la seconda». Ma c’è anche chi come te non ha perso né l’una né l’altra. Chi eri in quegli anni?
Io sono del 1960 e vengo da una famiglia comunista: mio nonno era comunista e mio padre un attivista del PCI. Ho cominciato a fare politica a 14 anni, ero uno di quelli che chiamavano figicciotti. A quei tempi si viveva di pane e politica. Nella nostra sezione, quella di Ponte Milvio, dove era iscritto anche Enrico Berlinguer, univamo l’ideale di cambiare il mondo al gioco, vivevamo tutti insieme e ci confrontavamo con tutte le età. Assistetti all’avanzata straordinaria del partito convinto che stavamo facendo la rivoluzione e che avremmo vinto. Ma la situazione si complicò per il tentativo di realizzare il compromesso storico, visto come il fumo negli occhi a sinistra del PCI e anche da molti militanti del partito. Al comizio di Lama all’università, riconosciuto poi come un grande errore da molti di noi, scoppiò la guerra di autonomia operaia e del movimento studentesco contro noi e il sindacato. Io ero nel servizio d’ordine, non eravamo preparati e ci prendemmo un sacco di botte. Da quel momento la sinistra non era più unita sullo stesso fronte contro i fascisti. Quando ci fu quello che fu definito il riflusso ho smesso di fare politica non perché non me ne fregasse più niente ma perché ho riversato la mia carica da attivista nello studio, mosso dal bisogno di capire meglio quello che andavo dicendo da anni, e mi sono iscritto alla facoltà di Storia e Filosofia.

E continui a elaborare quegli anni nei tuoi film. Come sei arrivato al cinema?
Anche il cinema è tradizione di famiglia. Mio nonno faceva il falegname a Cinecittà fin dai tempi del cinema muto, mio padre iniziò come falegname e diventò scenografo, uno zio faceva il pittore decoratore: la nostra era una famiglia che oltre che di politica viveva di cinema. Io all’inizio pensavo che avrei fatto il professore, perché era il periodo della prima crisi dovuta dall’arrivo delle tv commerciali che passavano molti film, e vedendo mio padre disperato quando non lavorava, pensavo che non avrei voluto fare quella vita. Ma un’estate mi feci portare su un set come aiuto attrezzista e fui «tarantolato», mi sentii magicamente «a casa». Ho fatto l’assistente e l’aiuto regista, e studiato in scuole di sceneggiatura con l’obiettivo di diventare regista. Gli anni ’70 sono tornati nei miei film perché sono stati gli anni che mi hanno formato, con tutti i pro e i contro. Il mio primo lavoro è stato un documentario sui rifugiati politici italiani in Francia, la generazione perduta nella lotta armata, Vite sospese, che poi divenne l’argomento del mio primo film Vite in sospeso. Con la miniserie tv Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu ho raccontato uno degli aspetti positivi, quello della musica come strumento di emancipazione e lotta. All’epoca i protagonisti delle fiction di Rai 1 erano medici, santi e commissari, mentre il mio era un giovane cantautore anche lui perso, finito male, che come Carlo Rivolta incarnava a pieno quella generazione, estremamente libero e controcorrente, non allineato a nessuno. Con la miniserie su Franco Basaglia, C’era una volta la città dei matti ho affrontato il tema dell’istituzione negata, e le istituzioni reazionarie non erano solo i manicomi, ma anche le scuole, altrimenti la ribellione non sarebbe partita da lì. Il racconto dell’eroina è un altro capitolo della stessa elaborazione, il più doloroso, anche perché era una trappola maledetta di cui i ragazzi non sapevano niente.

Che rapporto avevi con l’eroina e i tossicodipendenti?
Per anni ho rifiutato e tentato di tenere lontano da me sia i tossici che gli alcolizzati. Non accettavo l’idea che si possa dipendere da qualcosa che decide per te. Questo film mi ha permesso di avvicinarmi a loro e ho capito cose che avevo rifiutato in modo ideologico.

Dall’idea iniziale di un documentario d’inchiesta sull’operazione «Blue Moon» che poi si è rivelata senza fondamento, come siete arrivati a un lavoro sulla narrazione dal punto di vista degli eroinomani?
Nonostante tante ricerche, siamo riusciti a trovare un solo rapporto dei ROS sulla diffusione dell’LSD organizzata dalla CIA per reprimere la rivolta del movimento, che non è sufficiente per stabilire che quell’operazione sia stata fatta. In ogni caso in Italia il problema è stato quello dell’eroina, non dell’LSD. Di inchieste e film sulla mafia che ha gestito il traffico della droga ne sono fatti tanti, ma nel cinema, a parte Amore tossico di Claudio Caligari, del 1983, c’è stata una grande rimozione su quella generazione perduta. Per questo abbiamo deciso di raccontare la storia dal loro punto di vista.

Le storie dei tossici sono toccanti perché come dice Filomena nel documentario di Antonello Branca da cui hai preso molto materiale, «ho iniziato a frequentare questa gente che si bucava perché la sento più vera». A volte erano i più grandi sognatori, quelli che non si tiravano mai indietro, hanno vissuto da reietti perché la guerra contro la droga era (ed è ancora) guerra contro i drogati, e molti hanno pagato con la vita. Per noi che eravamo ragazzi negli anni ’70 questo racconto è molto coinvolgente. Ma che significato ha per le generazioni successive?
A parte che l’eroina non è scomparsa, nell’epoca presente ci sono tantissime dipendenze, e questo documentario racconta come ci si può finire dentro e quanto è difficile se non impossibile uscirne. Può essere un monito per le nuove generazioni, e l’idea è di portarlo nelle scuole e nelle carceri. Alcune carceri l’hanno già chiesto.

«Milioni di giovani non sanno un cazzo della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti. Questi giovani, drogati di pregiudizi e di cazzate sulla droga, sono un terreno formidabile di mercato. Con qualche palla si convincono in quattro e quattr’otto a provare la droga, e non serve neanche dirgli cos’è». Carlo Rivolta

La generazione perduta, prodotto da MIR Cinematografica e Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Cinema e con Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, è in programmazione ad aprile e maggio nelle principali città italiane con un fitto calendario di proiezioni evento e teniture alla presenza del regista.

* Fonte/autore: Laura Salvinelli, il manifesto

«Ultimi bagliori del Moderno» di Bifo, per ombre corte. La riedizione di un testo di 25 anni fa che la distanza temporale rende molto diverso

 

L’ultima pubblicazione di Bifo, Ultimi bagliori del Moderno. Lavoro, tecnica e movimento nel laboratorio di Potere Operaio, (ombre corte, pp. 246, euro 20) è la riedizione, 25 anni dopo, del libro dedicato a Potere Operaio. Una riedizione che provoca una sorta di «effetto Pierre Menard»: come il critico letterario inventato da Borges che riscrive parola per parola parti del Don Chisciotte, Bifo ripubblica (al netto di due variazioni) un libro che la distanza cronologica rende molto diverso, pur essendo identiche le parole di cui è composto.

IL LIBRO PARTECIPAVA a un dibattito molto vivace sull’ampiezza della trasformazione sociale e antropologica causata dalla progressiva affermazione dei processi informatici nella produzione e circolazione delle merci e della comunicazione; e alle soglie di un ciclo espansivo di lotte che si distese da Seattle e Genova fino all’elezione di Trump. Il titolo era tratto da un articolo di Giorgio Bocca, che nel marzo 1979 definì «nefasta utopia» quella che non era né nefasta, né un’utopia: una definizione che pochi giorni dopo l’impianto accusatorio del bliz contro quella parte dell’Autonomia erede di Po avrebbe risemantizzato come dottrina criminale. Lo stesso Bocca avrebbe poi assunto posizioni garantiste, fondandole sull’affermazione che Po era un «gruppuscolo effimero e pasticcione», e i suoi dirigenti «professori grafomani, attivisti e casinisti».

Ed è in realtà contro questo peloso innocentismo che Bifo polemizzava, mostrando come, pur nelle sue contraddizioni, Po agì da catalizzatore di una fitta trama di esperienze filosofiche, politiche, esistenziali. Nell’introdurre il testo, Bifo scriveva che questo non è un libro di storia, e auspicava che qualcuno si facesse carico di una ricerca storica. Perché nel 1998 il lettore che avesse voluto ricostruire il lungo Sessantotto italiano aveva ben poco a disposizione: L’orda d’oro di Moroni e Balestrini, e la silloge Settantasette. La rivoluzione che viene.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

In contorni sfumanti di un inevitabile fallimento

ORA IL PANORAMA è del tutto diverso: sono oggi a disposizione ricostruzioni storiche, saggi, biografie, raccolte di documenti non solo di/su Po, ma sull’intera area della sovversione cui Po partecipava (con un deprecabile codazzo di gatekeapeer e autoproclamati custodi della memoria). Sullo sfondo di questi materiali vivi, il libro di Bifo può oggi essere considerato una ricostruzione storica che, afferrando uno dei possibili fili interpretativi, ricostruisce la genesi creativa di un sapere politico a partire da alcuni «enzimi utili per lavorare chimicamente il corpo sociale, disgregandolo e ricomponendolo, e reinventandolo». Una storia che si dipana dal background filosofico degli anni Sessanta, attraverso il 77, fino alle soglie del terzo millennio.

Quel che muove la scrittura di Bifo è la comprensione del processo storico come «intersecarsi, sovrapporsi, districarsi, comporsi, separarsi di flussi», senza «soggetti centrali portatori di volontà univoche»: la storia non ha un télos. Un metodo «composizionista» che nel 1998 funzionava, al netto della forse troppo insistita polemica contro l’opzione organizzativa «leninista» che contraddiceva le intuizioni illuminanti e l’anticipata comprensione della dottrina neoliberale come dottrina dell’impresa alla base dell’intero ciclo della produzione sociale.

BIFO SI CHIEDEVA nel 1998, e ne faceva oggetto di una conclusione aperta, cosa di questa storia fluida potesse servire non per rifondare, ma per «scoprire quali sono le possibilità di liberazione che si aprono». Queste «Varie conclusioni», nella riedizione del 2023, non ci sono. C’è una nuova introduzione che dalla sconfitta del proletariato cognitivo globale trae la conclusione che «il moderno si è concluso senza liberare la potenza produttiva dell’intelletto generale dalla forma distruttiva dell’astrazione capitalistica». Siamo entrati, secondo questo Bifo, nell’epoca della guerra civile globale, «senza universalismo e senza speranza»; come nel romanzo di Conrad, l’umanità entra nel cuore di tenebra della fine della storia: una notte nella quale tutte le lotte appaiono nere, dunque impercepibili.

Ma in questo modo non si reintroduce quel teleologismo che operaismo, composizionismo e post-strutturalismo avevano scacciato? La storia non diventa un percorso nel quale, alla fine, si realizza un disegno conclusivo? Starà dunque al lettore militante applicare a Bifo il metodo composizionista, far proprie le intuizioni che possono illuminare le tenebre del presente, e giocare, nelle lotte, Bifo contro e oltre lo stesso Bifo.

* Fonte/autore: Girolamo De Michele, il manifesto

Nel 2021 si è celebrato il centenario della nascita, nell’ambito dell’Università italiana, della facoltà di architettura, ma nessuno finora ha pensato di ricordare il più drammatico avvenimento che ha colpito questa istituzione a cinquanta anni dalla fondazione, nel giugno del 1971. L’avvenimento di cui parliamo, dal quale ci dividono altri cinquanta anni, è il deferimento alla corte di disciplina, la denuncia all’Autorità giudiziaria e la sospensione dall’insegnamento di otto professori membri del consiglio della facoltà di architettura del Politecnico di Milano: Piero Bottoni, Franco Albini, Ludovico Barbiano di Belgioioso, Carlo de Carli, Guido Canella, Aldo Rossi, Vittoriano Viganò. Unico superstite è oggi soltanto l’ottavo membro, il sottoscritto, che era stato eletto preside della facoltà tre anni prima.
Le ragioni per le quali un gruppo di professori, tra i quali vi erano alcuni dei maggiori esponenti della cultura architettonica, furono allontanati dalla scuola e trattati come banditi erano due. La prima era quella di aver dato vita insieme agli studenti alla «cauta sperimentazione» che il ministro della Pubblica istruzione Misasi aveva autorizzato, in una forma che cauta non era, ma che aveva il pregio di aver colmato il fossato che divideva allora studenti e professori dopo la rivolta del ’68. La seconda era quella di aver dato ospitalità a dei «senza tetto» che avevano illegalmente occupato delle case appena costruite in via Tibaldi e, per la difficoltà di trovar loro un alloggio, erano stati costretti a passare le notti girando per la città dentro dei pullman.
La polizia sgomberò la facoltà a mezzanotte del 23 giugno mentre si svolgeva un seminario su problema della casa al quale avevano partecipato Eugenio Battisti, Umberto Eco, Guido Canella e Vittorio Gregotti e avevano assistito, tra gli altri, Paci, Fortini, Strehler e Raboni.
In un momento di sosta del seminario, mentre osservavo Belgioioso che insegnava come disegnare una casa a un bambina dei «senza tetto», mi era tornata alla mente la poesia di Brecht sul dormitorio: «Sento che a New York… / … ogni sera c’è un uomo / e ai senzatetto che là si radunano / pregando i passanti procura nel dormitorio un letto. / Il mondo così non si muta, / i rapporti fra gli uomini così non si fanno migliori / l’era dello sfruttamento così non diventa più breve. / Ma alcuni uomini hanno un letto per la notte, /il vento per una nottata viene tenuto lontano da loro…». Virgilio Savona del Quartetto Cetra scrisse allora la Ballata di via Tebaldi che ben interpreta il clima di quei giorni: «Erano in tanti venuti a Milano / Per sopravvivere, e per lavorare / e si erano accampati in vecchie catapecchie… / Ma un giorno seppero che in via Tebaldi / coi contributi pagati da loro / facevano una casa, ma solo per ricchi / di quelle con i tripli servizi. (…) / Furono presi da circa duemila / baldi ragazzi della polizia / dovettero sloggiare col solito ricatto: / minaccia di foglio di via. (…) / E fu così che i compagni studenti / li accolsero tutti ad Architettura (…) / Furono tutti “con garbo” scacciati: / donne, bambini, studenti e docenti / trattati con riguardo coi gas e i manganelli / di via Fatebenefratelli (…) / Evviva l’Italia! L’Italia dei santi / dei grandi poeti, e dei naviganti…».
Lo strano apparentamento tra studenti, professori e «senza tetto» è rimasto nella memoria di chi l’ha vissuto come un evento fuggevole ma emozionante, in qualche modo persino festoso, che dava un riscontro reale alle aspirazioni degli architetti che costruendo «case popolari» raramente possono conoscere i destinatari delle loro opere. L’argomento del seminario sulla casa improvvisamente si era trasformato in qualcosa di reale e nello stesso tempo di simbolico, che consentiva di completare l’ideale vicinanza politica con una vicinanza fisica, qualcosa su cui era importante riflettere e interrogarsi.
Più che legittimi i dubbi sul significato che un avvenimento del genere può aver avuto nei confronti della lotta di classe, ma nessun dubbio sul fatto che quando professori e studenti difendevano il diritto della facoltà ad affermare la propria agibilità politica e la nuova organizzazione basata sui gruppi di ricerca, difendevano anzitutto la tradizione scientifica e libertaria dell’università, la sua autonomia e le libertà sancite dalla Costituzione. Basta riflettere su quello che affermava Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino nel lontano 1810: «L’insegnante universitario non è più quello che si limita ad insegnare dall’alto e lo studente non è più colui che apprende passivamente, bensì colui che compie ricerche, mentre il professore guida tali ricerche aiutandolo e sostenendolo… Nell’Università la lezione ex cathedra è solo un aspetto secondario, mentre l’aspetto essenziale è che si vive una serie di anni per la scienza, in comunità con persone di eguale età e degli stessi interessi».
Dopo le occupazioni di rito, iniziate nel 1964, gli studenti milanesi avevano iniziato una radicale trasformazione dell’ordine degli studi organizzando delle ricerche sui temi più interessanti per loro, coinvolgendo solo una parte dei docenti. I docenti rimasti fuori, quelli in particolare delle materie scientifiche, furono convinti dal professor De Carli a concedere un voto politico con il risultato della sua rimozione da preside. Invitati a creare un modello sperimentale compatibile con le finalità didattiche, studenti e professori insieme riuscirono poi, durante la mia presidenza, ad arrivare a un onorevole compromesso. Ricordo che fu Massimo Scolari a consegnarmi il risultato del nuovo ordine basato su un certo numero di ricerche alle quali avrebbero dato il loro contributo anche i professori delle materie scientifiche, che avrebbero organizzato in parallelo dei corsi di apprendimento. Il voto sarebbe stato dato dal collegio dei professori per ogni ricerca alla sua conclusione. Prima che il metodo fosse collaudato dall’esperienza arrivò la radicale condanna e la denuncia all’autorità giudiziaria. Il processo, affidato al giudice Alessandrini (ucciso poi dalle Brigate Rosse), fu però rapidamente archiviato. Ricordo che Alessandrini mi mostrò ironicamente due fascicoli messi insieme dalla polizia , uno assai voluminoso dedicato alla facoltà di architettura e l’altro molto snello (meno di un quarto come spessore) dedicato alla strage di piazza Fontana. La reintegrazione dei docenti del consiglio avvenne quattro anni dopo in un clima radicalmente cambiato.
Il lettore mi scuserà per la rievocazione di un avvenimento così lontano e ormai dimenticato persino da chi allora lo condannò severamente. Ma il bisogno di raccontarlo nasce dal fatto che mantiene una imprevedibile attualità sia per quanto riguarda l’insegnamento dell’architettura, tornato, nonostante la creazione dei dipartimenti, all’isolamento dei corsi e agli esami nozionistici, sia per il significato di una esperienza – troncata allo stato nascente – che si poneva il problema di adeguare la disciplina alle esigenze della società e dell’ambiente, perché l’architettura tornasse ad essere strumento valido per migliorare la vita degli uomini.
Voglio ricordare cosa scrivevo nel 1974 sula rivista «Controspazio»: «Anche se oggi le facoltà italiane sfornano soprattutto professionisti destinati a insegnare nelle scuole medie o a trovare impieghi extraprofessionali, non c’è dubbio, se l’Italia vuol diventare un paese civile e se la nostra Costituzione deve essere attuata, che nelle nuove strutture amministrative centrali e periferiche vi sarà posto per migliaia di tecnici… dai quali dipende in larga misura la possibilità o meglio la speranza di salvare i valori positivi del territorio, di difendere la comunità da una serie di malattie non meno gravi di quelle che colpiscono individualmente i suoi membri. L’architetto come medico del territorio può sembrare una astrazione insensata in una società capitalistica solo se alla architettura e all’urbanistica v iene sottratta il valore di scienza positiva. (…) Il senso della sperimentazione milanese, della battaglia difficile che si è combattuta è tutto qui, la facoltà si avviava a formare dei tecnici nuovi per un compito nuovo: la diagnosi e la cura delle patologie urbane e territoriali, la individuazione, la denuncia, la cura dei processi di alterazione ecologica, di squilibrio, di necrosi vera e propria, che rischiano di diventare irreversibili».
I problemi che la sperimentazione didattica aveva sollevato sono problemi ancora da affrontare, e tra le poche iniziative culturali di grande spessore, il «territorialismo» italiano ha le sue origini nella esemplare vicenda umana di Alberto Magnaghi, uno dei docenti della sperimentazione , di quella saison an enfer vissuta in compagnia di persone indimenticabili, come Levi della Torre, Molon, Pugliese, Di Maio, Origoni, che non posso esimermi dal ringraziare con affetto.

* Fonte: Paolo Portoghesi, il manifesto

«Per ordinare e capire chi noi siamo dobbiamo raccontarci». È a una frase di Antonio Tabucchi che fa appello Angelita, la protagonista di La combattente di Stefania Nardini (e/o, pp. 156, euro 15), quando la vita la mette di fronte ad un dolore che non avrebbe mai neppure saputo immaginare: la perdita di Fabrizio, il suo uomo, il compagno di oltre trent’anni di esistenza.

MA COME RACCONTARSI, come spiegare quel vuoto improvviso frutto dell’assenza, del gelo, del silenzio? E come farlo di fronte a un nuovo mistero che si è insinuato dentro quella privazione, ne ha reso ancor più indefinibili i contorni, il profilo di per sé già incerto e sfumato dallo sconforto? Angelita lo scoprirà a sue spese, attraversando con grande fatica nel senso inverso alla corrente, il mare della Storia, vincendo il vento che soffia in direzione contraria per ritrovare, alla fine, fino in fondo anche ciò che di quell’uomo di cui aveva pensato di aver diviso la vita intera, le era invece sempre stato celato, volutamente nascosto.

Il suo sarà un viaggio dentro una memoria intima, delicata, ma che al tempo stesso racconta di una stagione, un’epoca, di un insieme di altre memorie, intrecciate, contraddittorie, irrisolte. E nel farlo, nell’indagare «il segreto» del suo compagno, narrerà attraverso le pagine di questo romanzo struggente scandito dalla lingua piana e a un tempo interrogativa delle emozioni, se stessa, rendendo l’intero percorso via via più familiare e coinvolgente per chi legge.

ANGELITA E FABRIZIO si erano incontrati a Roma, a metà degli anni Settanta la prima volta durante un’azione per documentare le condizioni di vite degli internati al Santa Maria della Pietà. Poi, di nuovo, per caso, qualche tempo dopo, entrambi in partenza per le isole greche. E lì, in un paesino di poche case davanti al mare avevano capito di essere innamorati di un amore che non li avrebbe più visti divisi.Lui un po’ più grande di età, la passione del cinema e dei documentari prima ancora della politica, un futuro da sceneggiatore di successo; lei, poi giornalista e scrittrice, che aveva attraversato il ’77, il femminismo al Governo Vecchio, la «militanza» a partire dalle serate al ciclostile: «La manovella in pugno e uscivano i volantini. Era il battesimo per la rivoluzione. Funzionava così nella ’sede’ dei Cps della Garbatella, a due passi dal cinema Palladium, dove le strategie erano infarcite di sentimenti immolati alla lotta di classe, dove Marx era nei cantieri della mitica Roma Settanta, nell’autoriduzione delle bollette e nelle occupazioni».

Una vita in comune, prima a Roma e quindi in una casa in collina, un po’ fuori, in mezzo al verde, quando il clima era cambiato e gli anni del riflusso avevano reso sempre meno attrattiva la città. Un luogo scelto, speciale, dove condividere incontri e legami. Come quello con Roberta (Tatafiore), «la mia vecchia amica degli anni del femminismo», racconta Angelita, con cui entrambi avevano guardato con complicità, ancora una volta «caparbiamente controcorrente», stavolta nel segno del garantismo, a quell’«alba di una stagione di macerie» che era stata Tangentopoli.

MA SARÀ PROPRIO in quel luogo così intimo da racchiudere i loro ricordi più cari che, celata dietro a una parete, la protagonista scoprirà alcune lettere in tedesco e un pistola: le tracce di un capitolo della vita di Fabrizio che la riporteranno agli anni della lotta armata, alla Raf e all’ambiente dell’estrema sinistra di Marsiglia dove, come a Parigi, un tempo i destini di una generazione si erano intrecciati.

Per Angelita un viaggio a ritroso nel tempo e in una storia che non le era appartenuta ma che ancora la interrogava, da cui uscirà con la consapevolezza di un mistero che l’amore della sua vita aveva conservato intatto pur essendole stato vicino per tutti quegli anni. Una scoperta dolorosa e frastornante che però in un certo modo le consentirà di guardare anche alla propria di storia. Fino a confessare a se stessa che: «Sono una superstite, è vero. Ma non una naufraga».

* Fonte: Guido Caldiron, il manifesto

 

leggi di emergenza

Mi tocca fare una profonda e sincera autocritica: come tanti, impegnati in vario modo per l’umanizzazione delle condizioni di detenzione e per i diritti delle persone recluse (ancor più compressi e vulnerati nel tempo della pandemia), avevo salutato la nomina di Marta Cartabia a ministro della Giustizia come una salutare iniezione di speranza, in una situazione sempre più tesa e incattivita.

«Dopo la lunga notte arriva il ministro della Costituzione», aveva titolato sul suo sito il Gruppo Abele il mio editoriale. Che così si concludeva: «Detenere una persona non risponde solo alle prerogative e pretese punitive dello Stato, che al momento sembrano indiscutibili, anche se per fortuna rimane sempre accesa la fiammella di quelle culture che auspicano si arrivi a liberarsi dalla necessità del carcere. E chissà che a queste si richiamino pure le aspirazioni del nuovo ministro di Giustizia. Il cui dicastero, dopo decenni, con lei potrebbe finalmente recuperare, se non nel nome nella sostanza, anche la Grazia. […] allora la pena reclusiva, con l’arrivo di Marta Cartabia, potrebbe cessare di somigliare alla ritorsione per farsi processo di ricucitura e di recupero. Ai sensi e nel rispetto, finalmente, della Costituzione».

In tutta evidenza, mi ero sbagliato, non potendosi pensare che le autorità francesi non abbiano ricevuto, se non la sollecitazione, il placet di quelle italiane.

A meno che mi sia sfuggito, pur nelle ricorrenti ansie di manomissione della Costituzione in corso da decenni, non mi pare che all’articolo 27 sia stato introdotto il diritto alla vendetta. E, come la si guardi, solo a questo rimandano gli arresti odierni avvenuti a Parigi di ex militanti italiani degli anni Settanta, persone anziane, in alcuni casi gravemente malate come Giorgio Pietrostefani, a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti per i quali sono stati condannati con le sbrigative regole, e le inaudite pene, della legislazione di emergenza che ha avuto corso in Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per reprimere quel violento sommovimento che ha in vario modo coinvolto decine di migliaia di persone passato alla storia con la pessima definizione di “anni di piombo”. Anzi: NON passato alla storia, dato che si continua a trattare come cronaca, inseguendo ai quattro angoli del mondo uno sparuto gruppetto di persone anziane, e da decenni pur faticosamente integrate, affinché, viene detto dalla vulgata forcaiola divenuto sentimento della maggioranza, “non la facciano franca”.

Come se una vita precaria da fuggiaschi fosse condizione invidiabile. Certo lo deve essere per quei generali riparati impuniti e riveriti in Sudafrica, coinvolti in quelle trame e stragi di Stato che sono stati una delle concause della rivolta armata. O per quei corrotti e corruttori, ladri e profittatori, comodamente e lussuosamente ospitati in qualche Emirato arabo. Ma non per questi ex giovani, divenuti ostaggio di un diffuso sentimento di vendetta e di una bipartisan speculazione politica che in Italia non si vuole archiviare assieme alle leggi liberticide di quel periodo. Un sentimento che sopravvive alle norme, così come il potere politico e mediatico di chi quelle norme volle, collaborò a emanare, applicò e difese a oltranza, anche a fenomeno esaurito e a celle piene.

Fu un periodo cupo e insanguinato per il quale le ferite personali di chi è stato direttamente o indirettamente colpito esigono rispetto e considerazione, ma che non devono e non possono trasformarsi in vendetta come sta avvenendo.

Una vendetta che ci dice oggi anche di una eterogenesi dei fini di quanti – e sono tanti, ministra Cartabia compresa – hanno teorizzato, promosso e sostenuto la giustizia cosiddetta riparativa, fondata sul mettere al centro le vittime. Una centralità che, trasferita a livello politico, anziché umana vicinanza e riconoscimento verso chi ha sofferto e soffre per quella lontana stagione, è divenuta ed è stata strumentalizzata a fini di vendetta postuma, per imporre l’ergastolo della parola agli ex militanti che pur hanno scontato per intero la propria pena, per perseguitare a vita quelli espatriati e, assieme e prima ancora, per l’autoassoluzione della classe politica e degli apparati statali dell’epoca dalle proprie, dirette o indirette, responsabilità nella strategia della tensione e nelle infinite e impunite trame autoritarie, stragiste e golpiste degli anni Sessanta e Settanta.

Gli unici veri impuniti sono loro.

Un lungimirante padre della Repubblica e primo promotore dell’Europa unita, Altiero Spinelli, a lungo imprigionato e confinato dal fascismo, scrisse a un suo interlocutore: «Il carcere è concepito comunemente come uno strumento di pena e di rieducazione alla vita civile. Per quel che possono valere le mie osservazioni ed esperienze, ti assicuro che si tratta di due grossolane mistificazioni… Chi pensa che il carcere, comunque modificato, possa essere uno strumento di redenzione morale e sociale è vittima non di una illusione, ma di una ipocrisia».

Oggi l’ipocrisia francese e italiana può a ragione gridare alla vittoria. Giustizia è s-fatta, proprio quando la si vuole e la si dice trionfante.

 

(Sergio Segio, 28 aprile 2021)

 

 

foto: 1974, occupazioni a San Basilio,  © Tano D’Amico

Nel marzo del 1985 usciva il primo numero della rivista Antigone, bimestrale di critica dell’emergenza. In apertura il tema della dissociazione – vivevamo ancora la stagione della lotta armata -, con un lungo saggio di Rossana Rossanda; l’emergenza come forma di governo, con editoriale del direttore Luigi Manconi; San Patrignano l’anomalia e la forma; l’Affare Moro ; i bambini detenuti. Con scritti di Agamben, Cacciari, Baget Bozzo, Bronzini, Gallini, Palma, Mosca, Neppi Modona, Pavarini, Ramat. Chi scrive ne era il direttore editoriale. La rivista fu il punto di arrivo di una mobilitazione contro ogni legge d’emergenza e della contro-informazione quotidiana de il manifesto, protagonista Rossana Rossanda che aveva tra l’altro denunciato l’inconsistenza accusatoria del «teorema Calogero».

La nascita della rivista – collegata al quotidiano ma autonoma nella sua specificità – fu possibile grazie alla originale costruzione che, sempre per iniziativa di Rossana Rossanda, era nata pochi anni prima: la Cooperativa Il Manifesto Anni ’80. Fu una sortita organizzativa vitale di fronte ad una situazione degenerata che sembrava chiudere, tra nuove divisioni, pesantemente il ruolo del giornale e lo spazio della sinistra tutta. Una sortita lungimirante nel definire la durata di un periodo che sarebbe stato di netta transizione epocale, rilegittimando però le ragioni politiche e culturali dell’«impresa Manifesto», non con un partito ma attraverso una miriade di iniziative politico-editoriali, che avrebbero influito fortemente sulla sinistra e sulla cultura italiana.

Nacquero così L’Indice, rivista di sole recensioni, Nautilus che coordinava l’azione diffusa per la demanicomializzazione che grazie a Basaglia era diventata legge, I Giorni Cantati, che già esisteva ma in una veste grafica nuova, su storia e tradizioni popolari coordinato da Alessandro Portelli, il Gambero rosso, diretto da Stefano Bonilli sulla cultura materiale del cibo, e infine Arancia blu sulla nuova ecologia. Inoltre si aprì un lavoro di analisi sull’informatica – il manifesto diventò nel 1984 il primo giornale informatizzato d’Europa – e fecero le prime mosse le edizioni della ManifestoLibri.

La rivista Antigone in particolare divenne il crogiolo che elaborava i contenuti di tutte le battaglie sulla dissociazione dalla lotta armata, per i diritti dei detenuti, contro l’ergastolo, contro la tortura. Sei anni dopo nel 1991 nacque l’«Associazione Antigone» che da allora coniuga sul campo idee, campagne e movimenti.

Per molto tempo ho pensato che l’«antigonista» Rossana Rossanda fosse Antigone «rediviva», inverata nel suo sforzo sovrumano, drammatico, di essere dalla parte del torto. E per esser chiari: questo breve tratto di storia non è per raccontare come eravamo ma come dovremmo essere.

* Fonte: Tommaso Di Francesco, il manifesto

Il 21 marzo di quattro anni fa ci lasciava Mario Dalmaviva. Se ne andava dopo una lunga malattia una persona speciale, molto vicina alla storia de «il manifesto» nel periodo delicatissimo che fu la fine degli anni Settanta e l’avvio degli anni Ottanta. A lui questo giornale ha davvero voluto molto bene. Mario Dalmaviva era stato militante di Potere Operaio e pubblicitario, venne coinvolto nell’inchiesta del 7 Aprile 1979 su Autonomia Operaia e subì un lungo periodo di detenzione preventiva prima di essere condannato ad una pena di sette anni, poi ridotta a quattro (già scontati). Fu quello della battaglia contro il teorema del magistrato Calogero, un impegno costante del quotidiano comunista «il manifesto» e dell’iniziativa di Rossana Rossanda.

Come scrisse salutandolo per l’ultima volta il «fratello» Alberto Magnaghi «la sua ribellione all’ingiustizia era cominciata nel 1981, con uno sciopero della fame di sessanta giorni, per rivendicare la propria innocenza: il giudice Caselli lo aveva, poco prima del “teorema” del giudice padovano Calogero, prosciolto da tutti i reati torinesi per cui era inquisito. Ma anche per rivendicare la propria estraneità, dal carcere speciale di Fossombrone, al progetto delle Br di rilancio della lotta armata, attraverso le rivolte carcerarie».

Mario è stato un rivoluzionario gentile, sempre incline al sorriso. Veniva da lontano, da sociologia di Trento; aveva conosciuto Sergio Bologna a Milano e Vittorio Rieser a Torino, con il quale aveva fondato la Lega studenti–operai, anticipatrice, con gli scioperi alla Lancia, dell’incontro sociale fra università e fabbrica ai cancelli della Fiat: così nacque la fondativa assemblea permanente operai-studenti.

Dal carcere di Torino l’autore cominciò a inviarci una serie di vignette fatte in scarsità di mezzi e spazi, facendo così di necessità virtù. Tutte avevano come unico protagonista la porta sbarrata di una cella: dall’interno e dall’esterno quei tratti contaminati di parole e sbarre rappresentavano un infinito recluso. Pareva impossibile che da quella condizione uscissero delle nuvole pensierose e divertite che ponevano domande sui contenuti della nostra residua libertà. La libertà di tutti. La cella diventava un espediente narrativo che chiedeva l’ascolto di una generazione, dando la misura dell’angoscia e della claustrofobia non solo della detenzione carceraria, in una forma e misura grafica. Furono quelle le prime vignette uscite sul «manifesto». Ebbero subito un grande successo, anche perché fortemente segnate dalla volontà di restituire nel segno e nello spazio breve del fumetto dentro la nuvola e nel modo della satira, tutta la pesantezza del tempo.

Mario Dalmaviva, non volle mai rinunciare alla cifra poetica della sua serenità. E utilizzava – come abbiamo scritto per ricordarlo quattro anni fa – ogni vignetta, ogni balloon, come fossero una lima per segare le sbarre delle prigioni, concrete e mentali di una generazione. Sempre siglando «Viva», una nuova firma per noi, una sigla luminosa, un neon fantasmagorico dal nero-cella, un «segno» del suo rimanere in vita nonostante tutto, a memoria della radice «umanitaria» del suo cognome. Un timbro di testimonianza lucida e allegra.

* Fonte:Tommaso Di Francesco, il manifesto

Sono stati tanti finora i romanzi, e i film – una litania, a volte molto importanti a volte assai ripetitivi -, che hanno raccontato la lotta armata in Italia, quella del «terrorismo rosso» di chi auspicava una scorciatoia a dir poco sbagliata per la rivoluzione comunista, che invece piuttosto che di avanguardie che vanno a sostituirsi ai rappresentanti del potere borghese, dovrebbe perlomeno essere di massa, sociale e così profonda da costruire nuove forme del potere stesso. Ma nessuno che noi sappiamo ha finora raccontato il dolore e lo sgomento di chi, innocente, veniva accusato di organizzare a mano armata la rivoluzione. Ha rimediato con un sapiente quanto innovativo romanzo, Loris Campetti del quale siamo abituati a leggere – come accadeva su il manifesto – le inchieste sulla condizione operaia e sulle fabbriche. Stavolta invece con L’arsenale di Svolte di Fiungo (Manni editori, pp. 170, euro 14) è a un romanzo vero e proprio che ci troviamo di fronte, inserito nel contesto storico che, dalla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969 per attraversare tutta la stagione che i governi democristiani gestirono come quella degli «opposti estremismi», cambiò per una generazione la percezione insieme della storia ma che della vita di tutti giorni.

FATTO SINGOLARE, è scritto in prima persona, così tanto che sembra accadere sotto i nostri occhi, nella forma del resoconto autobiografico. Sì, perché quel che è scritto è accaduto davvero, vuole ricordarci Campetti. È accaduto che la provocazione del sistema fosse così diffusa e preparata per rispondere agli stravolgimenti in corso del ’68 studentesco e delle esplosione di lotte operaie, che permeava di sé ormai l’intera realtà della provincia e delle periferie – scoprimmo poi che esisteva Gladio, il terrore di destra e dello Stato, capillare, nascosto, disseminato e «sotterrato» ovunque.
L’innocenza non è facilmente raccontabile e può diventare retorica di sé. Qui invece l’autore costruisce una scrittura di confessioni minime che lo trasformano in un picaro fantozziano-kafkiano, sospeso tra il tragico e il comico. Tragico, perché è «semplicemente» indagato per associazione sovversiva dopo che vicino Macerata nella sua città natale, a Camerino viene «scoperto» un arsenale di armi attribuito subito al terrorismo rosso, e la «prova» è una cartina geografica dettagliata con i cerchietti di pennarello rosso del luogo, acquistata però per andare a funghi: siamo nel pieno di una surreale ma, ahimé, concretissima macchinazione che alla fine – ma dopo molti anni – nei dettagli verrà scoperta e finirà raccontata perfino nelle trame nere, del potere e dei suoi Servizi più o meno deviati, della Strage di Stato; intanto conviene deviare e fuggire, diventare latitante suo malgrado, non «eroicamente» come chi avrebbe messo in conto quel mascheramento di sé, perché alla fine – infittendo le paure del protagonista – il terrorismo rosso arrivò davvero. Ma dove? E con chi parlarne? Quale ambiente rendere partecipe dell’ansia improvvisa e dell’insicurezza che ormai mette in discussione tutto, comprese le esperienze di vita finora realizzate?

PER UN MILITANTE critico ancora del Pci è uno stravolgimento di senso della realtà, uno svelamento del clima generale di lotta e cambiamento ma senza ancora avere ben capito quali siano la «armi» del potere nemico. E allora compare l’aspetto minuto e perfino divertente che aiuta il fuggiasco a trovare nella solitudine gli interlocutori necessari: se non le vesti della mamma lo zio stalinista che si chiama Lontano; e nei ripari dov’è costretto a cambiare nome, i vecchi militanti che, dopo un interrogatorio di verità, lo accolgono in casa come un figlio pronti ad ospitarlo aprendo gli armadi a letto…Sempre continuando a vivere e a lavorare in clandestinità, da rappresentante di farmaci a collaudatore di macchine Fiat, e finendo pure – dopo le prime indagini che solo in parte chiariscono le accuse – abile alla leva. Nel frattempo ha aderito al Manifesto, e sotto la Naja coordina i collettivi dei soldati legati al nuovo e nostro gruppo politico, più rischioso che mai vista la sua condizione. Nella trama di una vicenda, anche per le origini familiari, intessuta di una memoria presente di lotta partigiana, epica comunista, eresia manifestina.

NELL’ATMOSFERA dell’Italia degli anni Settanta, che perdeva la serenità e si ammantava di nubi incerte da qualcuno spiate, dove ancora si beve spuma e il fiasco dei Castelli; e se il sottofondo musicale è l’Internazionale, arrivano pure le canzoni di Jimmy Fontana e di Paul Anka mentre l’autore corre a Recanati, vicino casa, per vedere «se la siepe di Leopardi è sempre al suo posto». Solo verso la fine compare una bottiglia di champagne per brindare, con l’atto del processo che terrà conto delle ammissioni pubbliche dei fascisti, e confortato dall’avvocato Di Giovanni, protagonista di tante arringhe di quella temperie e dalle storiche inchieste del giudice milanese Guido Salvini. Ma, tra corsi e ricorsi, ci vorranno quaranta anni per la fine di quella provocazione. Sì, la voglia è di brindare alla capacità di tenere nel lungo periodo vivo e cogente il proprio «arsenale». Non deposito di armi, ma il cuore, la mente e la passione di una generazione di militanti comunisti che, nonostante i tentativi vicini e lontani di confondere le tracce delle loro vite e di manipolare le loro volontà, hanno conservato la posizione dell’orizzonte. Il resto, ne vale la pena, è tutto da leggere, da scoprire.

* Fonte: Tommaso Di Francesco, il manifesto

Storia recente. Esce, inoltre, la monumentale edizione critica del «Memoriale di Aldo Moro 1978», da De Luca edizioni d’arte

«Durante il caso Moro ho avuto la certezza di essere dentro un complotto di cui era impossibile arrivare a capo, di cui non sarei mai riuscito a capire nulla»: con queste parole Cesare Garboli spiegò quale fosse lo stato d’animo che lo aveva spinto a lasciare per sempre Roma e a rifugiarsi nella solitudine di Vado di Camaiore. Allora, fummo in molti a pensarla così. E se ci vollero ancora tante altre convulsioni e tanti altri rivolgimenti non solo italiani – a partire dal crollo del muro di Berlino – non c’è dubbio che cominciò proprio allora a muoversi la grande slavina che doveva seppellire la «prima Repubblica».

La metafora della slavina ci viene riproposta da Miguel Gotor nel volume L’Italia del Novecento Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (Einaudi, pp. XVIII – 590, € 22,00) per connotare la scomparsa totale di Pci (1991), Dc e Psi (1994) insieme a tutto l’assetto del sistema dei partiti. E tuttavia anche quella morte dei partiti era cominciata nel ’78, col caso Moro. Era stato l’episodio terminale della guerra a colpi di bombe e di terrorismo cominciata nel 1969 con la strage della Banca dell’Agricoltura. Fu quello il «momento umano» in cui, secondo la definizione di Marc Bloch, tanti processi e avvenimenti giunsero a stringersi «nel nodo possente delle coscienze». Nessuna occasione recente si presta come altrettanto ideale a verificare la celebre tesi del grande storico francese circa la natura psicologica dei fatti storici.

Oggi, il tentativo di gettare lo sguardo al di là di quella frontiera sembra quasi una forma di archeologia, un campo ancora aperto alla curiosità ma a una curiosità fredda, senza passione. È il segno del tempo che passa e ci costringe a vederci – noi vecchi – per quello che siamo: dei sopravvissuti. Di fatto, solo Mario Deaglio, in La bomba Cinquant’anni di Piazza Fontana (Feltrinelli) fra i tanti che ne hanno parlato in questa fase di bilanci e ricorrenze, ha scritto pagine veramente appassionate, traboccanti d’ira e di dolore: forse perché ormai guarda all’Italia da una distanza non solo temporale ma anche geografica, che riaccende il fuoco di un amore deluso.

Verità figlia del tempo
Oggi, anche i preparativi della ricorrenza cinquantenaria della strage del 12 dicembre 1969 hanno avuto la compostezza e l’ufficialità riservate alle ricorrenze storiche di eventi vetusti. Sappiamo da tempo, ormai, che quella fu una dichiarazione di guerra alla Repubblica nata dalle Resistenza. Da allora, il nostro paese non è più tornato a una normale temperatura di convivenza civile. Tuttavia è un fatto che la nebbia di allora si è in gran parte dissolta. Verità, figlia del tempo, così dicevano gli antichi. Del nostro tempo, comunque, non dei secoli che ci sono voluti per leggere i documenti del caso Galileo.

Tornando all’ampia sintesi storica di Miguel Gotor in L’Italia del Novecento, questo libro rovescia il paradigma del mai citato «secolo breve» di Eric Hobsbawm. Il secolo scorso, che appare qui lunghissimo, resiste ancora al tentativo di essere consegnato a una storia finalmente e definitivamente chiusa, per non parlare delle eterne risse di cui ogni testimone di quegli anni – e Gotor era fra questi – porta ancora l’eco. La materia italiana è come un magma sotterraneo ancora ribollente. Ci sono protagonisti vivi e attivi: quanti dei lettori capiranno che Franco Freda, colpevole acclarato, impunito e impenitente di quell’attentato, resta tale insieme al defunto Giovanni Ventura per un balletto di vicende giudiziarie che definire vergognoso è insufficiente. E vive e scrive Adriano Sofri, colui che condannato sulla base di un processo che seppe di vendetta, come dimostrò uno storico dell’acume di Carlo Ginzburg, si rifiutò di fuggire davanti alla dura pena carceraria.

A una volontà di conoscenza particolare risponde la monumentale, accuratissima edizione critica del cosiddetto Memoriale di Aldo Moro 1978 (a cura di Francesco M. Biscione, Michele Di Sivo, Sergio Flamigni, Miguel Gotor, Ilaria Moroni, Antonella Padova, Stefano Twardzik, De Luca editori d’arte) coordinato da Michele Di Sivo, che riconosce come «dei precedenti inquisitori di antico regime quel processo aveva le caratteristiche essenziali», essendo il documento prodotto di un autore inquisito, capace di redigere un «raffinato e ponderato ragionamento» destinato a essere gestito da parte dei suoi carcerieri in un tempo più lungo di quello del gioco politico immediato a cui furono destinate le sue lettere. Edizioni di processi celebri della stessa dimensione e curati con lo stesso ricorso a filologia e ricerca storica furono quelli dell’Inquisizione a imputati eccellenti: a Galileo Galilei, per esempio, o a Giordano Bruno, che col caso Moro hanno in comune qualcosa che va al di là delle moltissime differenze, per riguardare piuttosto il sentimento di vergogna di chi ha voluto i processi: da un lato l’Inquisizione cattolica, dall’altro le Brigate rosse.

Nessuna scoperta
L’ombra di Giordano Bruno e quella di Galileo hanno certamente occupato le menti di chi, a distanza di tempo, si è trovato davanti all’errore compiuto e ha lottato in tutti i modi contro la sopravvivenza della memoria e la conoscenza di quelle carte. Con tutte le differenze del caso, forse qualcosa di simile ha riguardato anche la vicenda delle carte di questo processo. Il sedicente «tribunale del popolo» nel celebrarlo annunciò solennemente che vi si sarebbe accertata la verità su errori e delitti come la bomba di Piazza Fontana e che quella verità sarebbe stata annunciata. Ma non ci fu nessuna verità da comunicare: l’imputato fu ucciso e le carte del processo restarono invisibili.

Quando apparve alla luce, nel 1978, abbandonato nel «covo» milanese di via Montenevoso, il Memoriale aveva la forma di un dattiloscritto: del quale, va ricordato, si sono perdute le tracce. Passarono non pochi anni. Ma fu ancora in quel «covo» che nel 1990 una ispezione fortemente richiesta e voluta da Sergio Flamigni fece scoprire dietro una intercapedine la fotocopia di un originale manoscritto. All’inizio preso in carico dal generale Alberto Dalla Chiesa, questo documento è stato oggetto di un versamento anticipato da parte della Procura di Roma all’Archivio di Stato di Roma grazie all’interessamento di Michele Di Sivo, esperto studioso di processi storici, e viene adesso pubblicato: una grande opera elaborata con studi pazienti e approfonditi che trasforma quella serie non organica di fotocopie di un documento scritto in condizioni di violenza e di drammatica tensione in pagine di stampa dall’aria definitiva.

L’immagine di copertina mostra un Aldo Moro solenne e profetico. Ci si chiede se possiamo davvero dirci nella condizione di consegnare questo documento «alla storia». Le ragioni sono diverse, alcune di dettaglio ma non trascurabili, intanto, perché quelle fotocopie casualmente accozzate corrispondono a documenti autentici che forse sopravvivono, e chissà quante sono le persone ancora in vita che potrebbero completare, arricchire o almeno contestualizzare meglio il dossier. Ma è la natura stessa di quel documento a contrastare la voglia di leggerlo come una profezia. Il lettore si sente combattuto e perplesso davanti alla domanda su chi sia l’Aldo Moro di questo scritto: se il testimone e protagonista di una durissima battaglia politica ancora aperta, oppure il martire designato che guarda al futuro di un mondo senza di lui e lascia in eredità ai posteri la sua profezia.
Se scegliamo questa seconda via, Moro si distacca dalla scena di lotte non solo intellettuali per il possesso e la gestione del potere politico e si sposta di lato per unirsi a una ben diversa e più solenne compagnia: quella delle grandi ombre della tradizione intellettuale e religiosa italiana che hanno avuto nella prigione il loro luogo di macerazione e di sacrificio.

Grafia di stati d’animo
Un fatto è certo: Moro scrisse queste pagine nella fase in cui si preparava a una liberazione attesa a giorni, ricorrendo a stilemi a lui familiari e ad argomenti degni di un congresso della sua Dc, per giocare le proprie carte politiche in una partita viva come non mai. Su questo i curatori sembrano concordi. Michele Di Sivo pone correttamente il dilemma sulla natura del lavorio di Moro quando si chiede se il Memoriale fosse «il frutto di una manipolazione», oppure espressione «della capacità di Moro di vigilare il testo». E ricorda quale fosse la natura della risposta scritta di Moro alle domande dei carcerieri: una natura speciale, non di immediato consumo politico ma di più duratura e di lunga gestione, simile in questo alle confessioni dei prigionieri del carcere segreto dell’Inquisizione ecclesiastica.
Chi lo scrisse dovette elaborarlo come un testo che non si esponesse a smentite nell’immediato, ma anche tale da poter circolare di lì a non molto nel contesto di una battaglia nel paese da condurre in prima persona: non ha il tono, dunque, della profezia di una vittima in procinto di immolarsi. Di fatto, quando Antonella Padova cerca – nel volume – di cogliere dai segni grafici lo stato d’animo d ello scrivente, registra una vera e propria veemenza di toni alti nel rispondere a chi aveva dichiarato non autentiche le sue scritture.

L’autografia, secondo Padova, rivela l’ansia di decidere se potesse apparire più convincente e personale una calligrafia incerta e tremolante o una copiatura accurata e leggibile. Di nuovo – noi che fummo testimoni di quei lunghissimi giorni – ci troviamo davanti alla polemica suscitata allora dalla sciagurata dichiarazione di diversi «amici di Moro», persone peraltro note e rispettabili che sottoscrissero un pubblico disconoscimento dei suoi messaggi, in uscita dalla prigione brigatista. Un dato è indiscutibile: l’atroce ambiguità della posizione di Aldo Moro, che mentre ha davanti a sé le domande dei carcerieri, sa anche che quanto scriverà potrà essere reso noto e tornargli indietro con gli esiti e le risposte del mondo esterno – quelle dei compagni di partito e quelle di una opinione pubblica sconcertata, spaventata, non tutta disposta a simpatizzare per lui.

Non gli resta se non una soluzione: parlare di politica nel modo che gli è familiare e che gli ha consentito di esercitare sul suo partito una egemonia intellettuale e sull’opinione pubblica una funzione quasi soporifera, anestetizzante, ambedue in funzione del suo progetto di lentissimo avvicinamento – le allora famose e fumose «convergenze parallele» tra forze moderate cattoliche e masse comuniste. Se ne ha un buon campione nella risposta alla domanda sulla strage di Banca dell’Agricoltura: era questo un argomento su cui i brigatisti avevano promesso di scoprire la verità e di rivelarla al «popolo» di cui si autonominavano tribunale. Ma non raccontarono nulla di quanto Moro scrisse e oggi leggiamo nel Memoriale. Perché: ecco la domanda da rivolgere a chi ancora conserva ricordi e carte e responsabilità di cose e fatti.

Una sintesi infedele
Una sola verità ci resta, sulla strategia della tensione e sulla vicenda Moro: il complotto che allora ci apparve così enorme da evocare oscure potenze straniere in lotta sul corpo del paese Italia ha finito con lo svelare quasi soltanto volti familiari e le già conosciute tare radicate nella nostra società. Questa verità, tuttavia, non è diventata patrimonio delle nuove generazioni. Come ha scritto Antonio Carioti: «se chiedi a uno studente che cosa è successo quel 12 dicembre 1969, lui ti guarda perplesso: le Brigate rosse, risponde».

* Fonte: Adriano Prosperi, il manifesto

Quando si tenne a Roma, il 29 novembre 1969, la manifestazione nazionale dei metalmeccanici comparve un cartello: «Saragat, operai 171, poliziotti 1». Si ricordava polemicamente in questo modo al Presidente della Repubblica la lunga lista dei lavoratori uccisi dal 1947 in scontri con le forze dell’ordine.
Il poliziotto menzionato era invece morto solo pochi giorni prima, il 19 novembre a Milano, nel corso degli incidenti scoppiati durante lo sciopero generale per la casa indetto da Cgil-Cisl e Uil, la prima manifestazione unitaria dal 1948, cui aderì quasi il 95% dei lavoratori italiani. Si chiamava Antonio Annarumma di soli 22 anni, originario di Monteforte Irpino, una delle aree più povere d’Italia. Di «azione criminosa di un dimostrante» parlò il ministro dell’Interno Franco Restivo, mentre il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in un telegramma divenuto famoso, sentenziò che si era trattato di un «barbaro assassinio». Da qui il cartello.
La ricostruzione di quella tragica vicenda, a distanza di cinquant’anni, la dobbiamo ora al libro del giornalista Cesare Vanzella, già direttore di «Polizia e Democrazia», Il caso Annarumma. La rivolta delle caserme e l’inizio della strategia della tensione (Castelvecchi, pp.160, euro 17.50), intenzionato a superare narrazioni precedenti e verità ufficiali basandosi scrupolosamente sull’analisi dei fatti, gli atti giudiziari disponibili e il recupero fondamentale di inedite testimonianze.

IN QUEL NOVEMBRE si era in pieno «autunno caldo». I lavoratori rivendicavano assieme miglioramenti complessivi, una maggior democrazia nei luoghi di lavoro e contare di più nella vita di fabbrica e nel Paese. La richiesta di riforme andava dalle pensioni, da agganciare ai salari, alla riforma sanitaria incentrata sulla prevenzione, alla casa, da cui lo sciopero generale del 19 novembre.
A fronte di queste grandi lotte di massa i fascisti, veri e propri manovali del padronato più retrivo, si scatenarono in aggressioni e violenze. In quel 1969 si conteranno alla fine ben 145 attentati, quasi tutti di riconosciuta marca fascista. La «strategia della tensione» andava prendendo corpo.
Giorgio Benvenuto, all’epoca segretario della Uilm, in una delle due introduzioni al libro (l’altra è di Mario Capanna), ricorda ancora con angoscia quando fu convocato subito dopo il 19 novembre, insieme ai segretari di Fiom e Fim, dal ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin. «Siamo alla vigilia dell’ora X» – disse loro – «Il golpe è alle porte, bisogna mettere un coperchio sulla pentola che bolle».
Si riferiva quanto accaduto nell’aprile del 1967 in Grecia con la presa del potere da parte dei colonnelli e alla necessità di firmare immediatamente il contratto dei metalmeccanici. La strage di piazza Fontana arriverà il 12 dicembre successivo.
Già a partire dal pomeriggio del 19 novembre scoppiò letteralmente una rivolta in due caserme di Milano, dove centinaia di agenti tentarono di varcare i cancelli per farsi «giustizia» da soli. Dovettero schierarsi alcuni reparti di carabinieri per impedirlo. La morte di Annarumma aveva fatto da innesco a un malumore profondo e diffuso dovuto ai turni massacranti, a una disciplina ferrea, nonché a condizioni di vita davvero misere in alloggi scadenti, con vitto mediocre e paghe bassissime. Annarumma percepiva una retribuzione netta di 82.630 lire mensili. La repressione fu durissima con trasferimenti punitivi e allontanamenti dal corpo. Da qui comunque si svoltò, almeno sul piano di alcune iniziative di natura economica per le forze di polizia. La smilitarizzazione e il sindacato di polizia arriveranno solo molto dopo, nel 1981.

I FUNERALI di Antonio Annarumma si svolsero venerdì 21 novembre. Una gran folla, stimata in cinquantamila persone, si radunò nel centro di Milano. I fascisti colsero l’occasione per riprendersi la piazza. A centinaia, organizzati in squadre, scatenarono la caccia ai «rossi», magari individuati solo per l’abbigliamento o i capelli lunghi. A farne le spese furono in diversi, ma soprattutto Mario Capanna, il leader del Movimento studentesco che si era recato alle esequie. Rischiò il linciaggio. Venne salvato a stento da alcuni funzionari di polizia che in compenso lo ammanettarono.
Per la morte di Annarumma non fu mai individuato chi avrebbe colpito con una sbarra il poliziotto alla guida del gippone. Tredici furono invece gli imputati per i disordini. Otto di loro furono assolti e cinque ebbero pene minime. Chi era accanto ad Annarumma testimoniò di non ricordare nulla. Fu il festival delle amnesie. Il professor Vittorio Staudacher, primario del Policlinico, mise in dubbio che l’agente fosse stato colpito da una sbarra. L’autore di un filmato amatoriale dichiarò di aver «ripresi due gipponi che si scontravano e un agente che moriva».
La conclusione di Cesare Vanzella è amara: nessuno ha mai cercato «una verità accettabile», tanto meno la polizia. «La sensazione» è che «Annarumma debba restare ancora, e forse per sempre, una storia da non raccontare».

* Fonte: Saverio Ferrari, il manifesto

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