Lavoro, economia & finanza

Ci sono tre testi che tutti quelli che parlano di Ilva-Mittal dovrebbero conoscere, e per la più parte dicono di averli letti: le inchieste di Antonio Cederna del 1972 e di Walter Tobagi del 1979, e il romanzo La dismissione di Ermanno Rea.

Cederna, con due lunghi articoli sul Corriere, evidenziava il nesso fra l’insediamento industriale attuato senza alcun rispetto per gli equilibri ambientali, la devastazione del territorio, e un’urbanistica impazzita: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio, tale appare Taranto allo sbalordito visitatore. Stretta nella morsa della speculazione privata e di un processo di industrializzazione che si realizza al di fuori di qualsiasi piano di interesse generale, essa può ben essere presa a simbolo degli errori della politica fin qui seguita per il Mezzogiorno».

Tobagi sottolineava «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno», cogliendo le linee essenziali del rapporto fra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati. In sintesi, scriveva, «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia».

Rea, infine, nella figura allucinata e alienata di Vincenzo Buonocore, l’operaio che incapace di concepire una vita senza la fabbrica, è disposto a smontarla lui stesso per poterla poi ricostruire in Cina.

In questi scritti c’è tutto quello che ci sarebbe da dire, oggi: con buona pace di chi continua a recitare la fiaba del modello di sviluppo trainato dal Centro Siderurgico, che con un salto logico incongruo diventa la premessa all’ineluttabilità della sua esistenza, dunque all’impossibilità di pensare un futuro per Taranto senza Fabbrica, l’Italsider-Ilva-ArcelorMittal ha costituito per Taranto una sorta di Alien che, mentre la teneva in vita, le succhiava ogni risorsa vitale, fino a ucciderla. Avvelenandone non solo l’aria, con emissioni e polveri, e il sottosuolo, con scarichi dei quali tutt’ora si sa poco; ma anche, devastandone la struttura sociale, e imponendosi come la tetra forma mentale di un destino al quale non si può sfuggire.

Da qui, le petizioni di principio di enunciati nei quali l’impossibilità di liberarsi dall’acciaio viene dato come presupposto, laddove sarebbe da dimostrare che di un acciaio di cattiva qualità, prodotto con tecniche vetuste e altamente inquinanti non solo a valle, ma anche a monte (con prelievi di minerali ferrosi inquinanti e senza controllo in Brasile), in una fabbrica con materiale in scadenza, sia davvero necessario, a fronte di giganti della siderurgia che producono in fabbriche di nuova costruzione a minore impatto ambientale, riciclando buona parte del materiale ferroso invece di estrarlo, con una maggiore qualità del prodotto finito.

Di fatto, non c’è formazione o leader politico che non abbia, non importa con quale buon uso della lingua italiana, recitato il mantra del «Taranto non può vivere senza la Fabbrica»: un mantra nel quale Taranto diventa un luogo neutro e vuoto, una volta cancellato il tributo di sangue e tumori pagato dai tarantini. Un mantra che, con un’altra capriola logica, predica la ricerca del bravo imprenditore che risanerà la Fabbrica, o del buono e bravo Stato che, nazionalizzandola, la risanerà: ignorando la sostanza dell’imprenditoria orientata solo al profitto, o l’incapacità di una pianificazione industriale di lungo periodo. Nel quale, peraltro, i tarantini saranno probabilmente tutti morti, e sepolti in un cimitero con lapidi rosate, perché le bianche si tingono subito della polvere rossa della Fabbrica: come in un incubo benjaminiano, neanche i morti sono al sicuro, a Taranto.

* Fonte: Girolamo De Michele, il manifesto

L’articolo che Piero Bevilacqua ha pubblicato recentemente su questo giornale in occasione dell’8 marzo, è un testo esemplare dei metodi e dei contenuti che dovrebbero caratterizzare la sostanza analitica e politica del «nostro campo».

Bevilacqua mette al centro della propria riflessione un aspetto essenziale del modo in cui si estrae plusvalore dal «lavoro-vivo» femminile nei nostri tempi. Si tratta di un’importante indicazione di metodo per quanto riguarda l’insieme della questione «lavoro». Il fatto che il plusvalore creato dal «lavoro-vivo» femminile non provenga soltanto dai luoghi di produzione a ciò tradizionalmente deputati (fabbriche, uffici…), infatti, non è questione solo di genere. Il genere naturalmente mantiene nell’ambito di un processo complessivo le sue specificità, ma è appunto all’interno (nel profondo) del processo che è necessario esercitare l’indagine.

Numerosi studi basati su ampia e rigorosa ricerca empirica dimostrano come la valorizzazione del capitale (la crescita della ricchezza) avvenga in misura progressivamente più rilevante, in questi nostri tempi, attraverso una sorta di fabbrica diffusa, deterritorializzata, una fabbrica fuori della fabbrica, priva di strutture materiali, ma ricca di capitale umano.

«Quando si parla di capitale umano, per quanto tale espressione possa essere odiosa, si dice una cosa giusta: il corpo è diventato una forma di capitale fisso dotato di protesi quali l’iPhone, l’iPad, i computer» (C. Marazzi, Che cos’è il plusvalore?, 2016). La creazione di valore in maniera esterna ai luoghi classici di creazione della «merce» comporta la sempre più difficile distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita. La vita stessa è messa al lavoro, persino nello stato di disoccupazione (temporanea o meno), e nella forma, oggi sempre più ampia, del lavoro gratuito.

Tale processo, diventato ormai macroscopico per la sua imponenza negli ultimi decenni, è però elemento costitutivo della valorizzazione del capitale. Scriveva Marx nella sua opera principale: «Il lavoratore, per tutto il tempo della sua vita (il corsivo è mio, nda) non è altro che forza-lavoro e, perciò, tutto il suo tempo disponibile è, di natura e di diritto, tempo di lavoro e dunque appartiene all’autovalorizzazione del capitale» (Il Capitale, vol. I).

Cambiano le forme di valorizzazione nel tempo e nei luoghi, ma non ne cambia la logica fondamentale.

«La produttività della macchina si misura con il grado in cui la macchina sostituisce la forza lavoro umana»Karl Marx

Inoltre le forme attuali convivono con le forme precedenti, con il fordismo ad esempio, e pure con il ritorno di forme di lavoro schiavile. Ed anche questo è un fenomeno costitutivo dell’accumulazione. A proposito di nuovo il Marx de Il Capitale: «La produttività della macchina si misura con il grado in cui la macchina sostituisce la forza lavoro umana».

Ma se ci sono condizioni, o si possono creare, in cui il lavoro umano costa pochissimo? «Gli yankees hanno inventato macchine spaccapietre. Gli inglesi non le utilizzano, perché al miserabile (“wretch”[miserabile, disgraziato] è termine tecnico dell’economia politica inglese per il lavoratore agricolo) che compie questo lavoro viene pagata una parte tanto piccola del suo lavoro che il macchinario rincarerebbe la produzione per il capitalista. In qualche occasione in Inghilterra vengono ancora impiegate donne invece di cavalli per rimorchiare ecc. le barche dei canali, perché il lavoro richiesto per la produzione di cavalli e macchine è un quantum matematico dato e invece quello del mantenimento delle donne della sovrappopolazione è al di sotto di ogni calcolo».

Pensare la categoria «lavoro» nello spazio e nel tempo, pensarla nella logica suddetta, non significa fuggire nei cieli tersi della teoria, là dove tutto torna.

Significa, invece, pensare il lavoro di oggi nella sua vera concretezza, nelle sue molteplici determinazioni, nella pienezza della sua dimensione non riducibile alla funzione di merce. Una funzione che permette di parlare di uomini in termini di esuberi.

Da qui scaturiscono proposte politiche sul «lavoro» necessariamente antitetiche rispetto al contesto che partorisce le molteplici concretizzazioni del Jobs Act.

Ecco, quello che ho chiamato il «nostro campo» non può non avere come denominatore comune se non tale esercizio di «sapere profondo» che comporta scelte politiche estranee alla vacuità «progressista». Scelte politiche non a sinistra del centro-sinistra, bensì diverse nei fondamenti. Ancora la diversità appunto, che non è questione etico-antropologica, ma politica.

Al di fuori della lotta politica, diceva Piero Gobetti, manca il criterio del rinnovamento etico. E lotta politica nel «nostro campo» significa rifiuto del mercato politico, inesorabile portatore delle pratiche di trasformismo dominanti nella «sinistra» generica. Significa inversione della direzione rispetto a chi ha distrutto le strade alternative in modo che non vi fosse più alternativa.

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La crisi economica e politica dei paesi del capitalismo storico, dalla quale sembra sempre più difficile uscire, è una crisi di sistema, come è stato sottolineato da molti e come appare tanto più evidente quanto più se ne analizzi il processo storico con il punto di svolta nei primi anni Settanta. La società dei consumi esaurisce la sua spinta propulsiva senza che appaia possibile la sua esportazione in paesi del Sud del mondo.

Il segno più evidente e significativo è consistito in un netto calo dei tassi di profitto protrattosi per tutti gli anni ’70 nei paesi più industrializzati. Sia negli Stati uniti che nella media riguardante Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, la diminuzione dei tassi di profitto rispetto al capitale investito è stata di circa 5,5 punti percentuali tra il 1970 e il 1980: una discesa pesante difficile da arrestare con misure congiunturali e interventi tradizionali.

A quel punto, i maggiori gruppi imprenditoriali, di qua e di là dall’Atlantico si sono trovati di fronte ad un bivio. Da un lato, era possibile riguadagnare i margini di profitto perduti innovando metodi di produzione, tipi di prodotti e organizzazione del lavoro. Ma ciò implicava maggiori e più coraggiosi investimenti, nonché mutamenti nei sistemi di vita (abitazioni, trasporti, comunicazioni, beni d’uso personale, domestico, ecc.) che avevano caratterizzato la società dei consumi nei decenni precedenti. Dall’altro lato, si poteva ricorrere a scorciatoie e soluzioni più facili senza cambiare scenari e rapporti sociali. Si è imboccata la seconda strada, e le risposte alla crisi sono state di tre ordini.

La prima ha dato luogo ad una massiccia delocalizzazione delle attività produttive in paesi in via di sviluppo dove era possibile lo sfruttamento di manodopera a basso o bassissimo costo, nonché sfuggire ad obblighi fiscali e vincoli ambientali. L’entità del fenomeno è stata e continua ad essere molto maggiore di quanto si lasci trapelare. Nel 2015 in Italia gli investimenti diretti all’estero, fatti da imprese non finanziarie, sono stati pari al 25% del Pil, in Francia hanno raggiunto il 51%, in Germania il 42%. In Gran Bretagna gli investimenti all’estero hanno rappresentato il 54% del Pil. Perfino negli Usa, paese che si suppone centripeto più che centrifugo, sempre nel 2015, gli investimenti diretti all’estero sono equivalsi al 33% del Pil. E’ chiaro che una delocalizzazione produttiva di queste proporzioni ha comportato milioni di posti di lavoro in meno nei paesi d’origine.

La seconda risposta ha riguardato un’automazione senza precedenti della produzione di beni e servizi, resa possibile dalla rivoluzione microelettronica. Com’è ben noto, i portati di quella rivoluzione sono stati straordinariamente innovativi nei settori dell’informazione e della comunicazione. Mentre le applicazioni introdotte nelle tecnologie produttive hanno obbedito alla stessa logica che ha caratterizzato tutta l’età industriale fin dall’introduzione del telaio meccanico. Una logica volta a ridurre la manodopera occorrente ad una stessa quantità produttiva, a favorire l’impiego di quella meno qualificata e, perciò, più facilmente intercambiabile e precaria, nonché meno remunerata. Automazione spinta e delocalizzazione si sono poi intrecciate nel facilitare l’impiego di forza lavoro non qualificata e sottoposta al massimo sfruttamento nei paesi meno sviluppati.

La terza risposta ha visto un progressivo e rapido spostamento degli investimenti dalla produzione alla speculazione finanziaria.

Contemporaneamente si è assistito anche ad una progressiva finanziarizzazione delle imprese dei più diversi settori. Ben presto lo scopo principale delle aziende è diventato quello di soddisfare le esigenze e aspettative degli azionisti. Il che ha condotto ad una valutazione dei risultati delle aziende in base all’apprezzamento maggiore o minore dei loro titoli finanziari, invece che sulla base dei risultati raggiunti in termini propriamente produttivi e di mercato. D’altro canto la rincorsa alla concentrazione tecnico-produttiva in rapporti di scala sempre più ampi ha ulteriormente rafforzato il ruolo del capitale finanziario in tutti i settori.

Queste tre risposte alla crisi degli anni ’70 si sono andate ben presto affermando fino a diventare le strategie principali della ristrutturazione capitalista nell’ultimo trentennio.

Tutto ciò è stato reso non solo possibile, ma apertamente favorito dalle politiche neoliberiste inaugurate nei primi anni ’80 dai governi conservatori della Thatcher e di Reagan. Politiche che hanno trovato sostanziale continuità nell’azione di governo dei vari Blair, Schröder e degli altri becchini della socialdemocrazia europea, in tandem con l’amministrazione Clinton, a partire dalla seconda metà degli anni ’90 fino agli epigoni e alle nanocrazie attuali. Questi ultimi rappresentano il terzo gradino del crescente asservimento della politica agli interessi dei maggiori gruppi economici, sotto il segno dei governi di larghe intese o di falsa alternanza succedutisi in Italia come in altri paesi europei.

Né c’è bisogno di sottolineare il peso esercitato dalle istituzioni economiche e politiche internazionali, dall’Unione europea al Fondo monetario internazionale, fino alla Nato, nel tenere ben saldo il controllo sul blocco di potere che domina lo scenario internazionale.

Va invece ricordato che, proprio grazie ai tre assi portanti della ristrutturazione tardocapitalista prima indicati, i paesi di più antico sviluppo hanno stabilito solide alleanze con i gruppi dominanti tradizionali e i nuovi ceti in ascesa in grandi paesi dell’Asia, Africa e America Latina inducendoli a perseguire modelli di sviluppo e processi di modernizzazione affatto simili. E là dove tali allineamenti hanno incontrato resistenze, si è ricorso ad ogni tipo di pressione, economica, politica e, all’occorrenza, militare.

Il risultato è un sistema di potere economico, finanziario, tecno-militare, politico e mediatico, tanto concentrato, quanto esteso e pervasivo. Tuttavia anch’esso presenta instabilità critiche, squilibri, contraddizioni e perfino spinte autodistruttive sulle quali occorre far leva per la costruzione di alternative necessarie e possibili. Ma è proprio questa la non facile analisi da compiere e di cui non siamo che all’inizio come anche nella individuazione di nuove forze e forme di lotta.

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Era già nell’aria. Ma ora la minac­cia si fa con­creta e immi­nente. Il governo Renzi si appre­sta a rifi­lare un uno-due al movi­mento sin­da­cale ita­liano, tale, per dirla con l’efficacia di Umberto Roma­gnoli, da farlo scom­pa­rire senza nep­pure darsi la pena di abrogarlo.

Da un lato il governo lavora per sna­tu­rare e limi­tare il diritto di scio­pero. Esso, con­tra­ria­mente alla nostra Costi­tu­zione, non sarebbe più un diritto in capo al lavo­ra­tore, ma un atto con­sen­tito solo a sin­da­cati aventi un certo livello di rap­pre­sen­tanza e di con­senso tra i dipen­denti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cam­bie­rebbe. Il gri­mal­dello sarebbe la que­stione della «rap­pre­sen­tanza», vec­chio nodo irri­solto. Solo che qui si parla di una rap­pre­sen­tanza rove­sciata. Non quella rispetto ai lavo­ra­tori, in base alla quale si dovrebbe giun­gere all’ovvia con­clu­sione che almeno gli accordi per avere vali­dità erga omnes dovreb­bero essere appro­vati da un voto refe­ren­da­rio di tutti i lavo­ra­tori cui si rife­ri­scono. E magari boc­ciati, come è suc­cesso recen­te­mente alla Fca di Mar­chionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garan­zia che ciò che le sigle sin­da­cali fir­mano diventi per ciò stesso norma impo­sta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scri­vere di pro­prio pugno le regole della contrattazione.

Senza nep­pure il parere delle orga­niz­za­zioni sin­da­cali e della Con­fin­du­stria, che comun­que con Squinzi si alli­nea pre­ven­ti­va­mente. L’occasione sarebbe for­nita da uno dei decreti dele­gati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla intro­du­zione del sala­rio minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Gra­zie a que­sto si can­cel­le­rebbe la con­trat­ta­zione sala­riale nazio­nale e quindi si toglie­rebbe linfa vitale al con­tratto col­let­tivo nazio­nale di lavoro, men­tre l’incremento sala­riale sarebbe abban­do­nato alla con­trat­ta­zione azien­dale – per chi se la può per­met­tere -, ma vin­co­lato agli aumenti di pro­dut­ti­vità.
Met­tendo insieme i due ele­menti qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente. Al più grande e orga­nico attacco al movi­mento ope­raio mai por­tato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accom­pa­gne­rebbe alla azien­da­liz­za­zione del wel­fare state, poi­ché alla con­trat­ta­zione azien­dale ver­rebbe affi­data anche quella per la sanità e gli altri isti­tuti di wel­fare integrativi.

Inten­dia­moci, non è il sala­rio minimo ora­rio ad essere di per sé il respon­sa­bile di que­sta per­fida costru­zione. La sua intro­du­zione in tutt’altro qua­dro sarebbe posi­tiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per para­fra­sare i giu­ri­sti, avver­rebbe con quel «velo di igno­ranza» verso la strut­tura con­trat­tuale, non diven­tando così il pre­te­sto per sman­tel­larla. In effetti al gio­vane, o meno gio­vane o all’immigrato, che non è pro­tetto da un con­tratto col­let­tivo nazio­nale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scen­dere è un ele­mento di difesa. Con il pre­gio della uni­ver­sa­lità. Su que­sta base si potrebbe imma­gi­nare una riforma della con­trat­ta­zione tale da ridurre gli attuali 380 con­tratti col­let­tivi nazio­nali a quei 5 o 6 in set­tori fon­da­men­tali entro i quali con­cen­trare le forza per otte­nere dal punto di vista retri­bu­tivo e nor­ma­tivo misure accre­sci­tive, da miglio­rare poi in un even­tuale con­trat­ta­zione di secondo livello.

Di que­sto si parla da tempo nelle orga­niz­za­zioni sin­da­cali. In par­ti­co­lare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le respon­sa­bi­lità, è inu­tile nascon­der­selo, sono anche interne al movi­mento sin­da­cale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rap­pre­sen­tanza, ove il sin­da­cato degli iscritti modello Cisl si è scon­trato con il sin­da­cato di tutti i lavo­ra­tori mutuato dai momenti migliori della sto­ria del movi­mento sin­da­cale; sia per quanto riguarda il tema del sala­rio minimo, ove la paura di per­dere ruolo ha para­liz­zato ogni proposta.

Il governo ne appro­fitta per cer­care di can­cel­lare del tutto con­trat­ta­zione e sin­da­cato. Rea­gire con uno scio­pero gene­rale sarebbe necessario.

Quinto Stato. Lo storico del movimento operaio Sergio Bologna racconta i movimenti dei freelance e il loro lavoro nell’economia della condivisione nel pamphlet “The New Workforce”(Asterios)

«È un grave errore con­si­de­rare le pro­ble­ma­ti­che dei self employed come sepa­rate e incom­pa­ti­bili con quelle di tutte le altre figure della new eco­nomy dell’era digi­tale. Il tema della new work­force, della work­force of the future [Forza lavoro del futuro, ndr] è cen­trale: sia che lo si tratti dal punto di vista socio­lo­gico, poli­tico, giu­ri­dico, cul­tu­rale o antro­po­lo­gico, è desti­nato a cre­scere d’importanza» scrive Ser­gio Bolo­gna nel pam­phlet: La New Work­force. Il movi­mento dei free­lance (Aste­rios, pp.50, euro 7), un agile libro che può essere con­si­de­rato come la guida alla tra­sfor­ma­zione del lavoro indi­pen­dente negli Stati Uniti e in Europa, Ita­lia compresa.

Sergio Bologna, La "New Workforce. Il movimento dei freelance" (Asterios)
Ser­gio Bolo­gna, La “New Work­force. Il movi­mento dei free­lance ” (Asterios)

Lo sto­rico del movi­mento ope­raio, già autore della tesi sul «lavoro auto­nomo di seconda gene­ra­zione», oggi con­ti­nua a esplo­rare il con­ti­nente emerso del quinto stato, cioè di coloro «che lavo­rano per conto pro­prio, che non hanno un sala­rio per­ché non dipen­dono da imprese pri­vate o ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che, lavo­rano da sole senza col­la­bo­ra­tori sala­riati». Per molto tempo, la mag­gio­ranza dei lavo­ra­tori indi­pen­denti negli stati capi­ta­li­sti è stata costi­tuita da tre cate­go­rie di per­sone: «i con­ta­dini pic­coli pro­prie­tari di un ter­reno o col­ti­va­tori diretti e i pic­coli com­mer­cianti che ten­gono un nego­zio» scrive Bolo­gna. I liberi pro­fes­sio­ni­sti ordi­ni­stici come medici, avvo­cati, notai o gior­na­li­sti svol­ge­vano «un’azione di sus­si­dia­rietà rispetto allo Stato». Con la crisi del ceto medio e la cre­scita delle nuove pro­fes­sioni all’interno dell’economia della con­di­vi­sione («sha­ring eco­nomy») i sog­getti sono enor­me­mente aumen­tati, modi­fi­cando i con­fini tra il lavoro sala­riato e quello auto­nomo, senza con­si­de­rare quelli tra il lavoro auto­nomo tra­di­zio­nale, pro­fes­sio­nale e il «pre­ca­riato». Con la fine dello Stato sociale, e ancor più oggi con il crollo dei red­diti e dello «sta­tus» sociale, l’enorme pla­tea degli «indi­pen­denti» (più o meno un terzo della forza-lavoro attiva negli Stati capi­ta­li­stici, con­fer­mano le sta­ti­sti­che) è stata messa ai mar­gini ed esclusa dalle poli­ti­che attive del lavoro, dai pro­grammi che incen­ti­vano l’occupazione e dalla legi­sla­zione che dovrebbe tute­lare i loro fon­da­men­tali diritti sociali.

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La bat­ta­glia della Free­lan­cers Union: “Negli Stati Uniti siamo 57 milioni, il lavoro non è gra­tis e si paga”

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Bolo­gna smonta tutti i cli­ché — non solo ita­liani — che hanno rap­pre­sen­tato il «free­lance» come un eroe soli­ta­rio che si appog­gia sul «talento» indi­vi­duale e si fa strada nella «società meri­to­cra­tica». Oppure quello che lo ha rap­pre­sen­tato come lavo­ra­tore «para­su­bor­di­nato» o «falsa par­tita Iva da ripor­tare nell’ordine sim­bo­lico del lavoro sala­riato o dipen­dente. «Il ter­mine “impresa indi­vi­duale” è un non senso — scrive — Il lavoro indi­pen­dente è sem­pli­ce­mente un diverso modo di gua­da­gnarsi da vivere lavo­rando conto terzi». Tra i primi ad avere «sco­perto» la Free­lan­cers Union (FU) di Sarah Horo­witz negli Stati Uniti, Bolo­gna descrive le carat­te­ri­sti­che di un movi­mento dei free­lance che cre­sce anche in Europa. In Ita­lia c’è Acta (affi­liata alla FU) a cui oggi si affianca una nuova sen­si­bi­lità cul­tu­rale e sociale anche tra le pro­fes­sioni «ati­pi­che» (beni cul­tu­rali, ope­ra­tori del sociale) e ordi­ni­sti­che (gli avvo­cati, archi­tetti, le pro­fes­sioni tec­ni­che nella «coa­li­zione 27 feb­braio»), forme di sin­da­ca­li­smo sociale (le Camere del lavoro auto­nomo e pre­ca­rio di Roma — Clap) e molte altre di auto-organizzazione tra cowor­kers, makers e le altre figure della «sha­ring economy».

Il capo­la­voro reto­rico delle classi diri­genti tra­di­zio­nali, dall’inizio della crisi, è stato quello di tra­sfi­gu­rare nel senso comune una crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio in una crisi del debito pub­blico. Ne è deri­vato che non sono tanto le éli­tes a dover rispon­dere della loro dis­sen­nata gestione del potere, ma sono i popoli a essere messi sul banco degli impu­tati per aver vis­suto “al di sopra delle pro­prie pos­si­bi­lità”. Su que­sta nar­ra­zione fit­ti­zia sono state costruite poli­ti­che reali, la cui natura è stata ben nasco­sta dagli appa­rati ege­mo­nici del capitalismo.

Que­sti appa­rati hanno fatto pas­sare come neces­sità ogget­tive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redi­stri­bu­tivo verso l’alto, dall’altro hanno dise­gnato un nuovo ordine con­ti­nen­tale asim­me­trico a van­tag­gio dei cen­tri forti dell’economia euro­pea.
All’interno dei sin­goli paesi si è deter­mi­nato un ingente spo­sta­mento di risorse dal sala­rio – reale e dif­fe­rito – al capi­tale, e un’ulteriore con­cen­tra­zione del potere nelle mani delle éli­tes oli­gar­chi­che a sca­pito del con­trollo demo­cra­tico. Su scala con­ti­nen­tale si è giunti al con­tempo a una con­fi­gu­ra­zione gerar­chica dell’Unione euro­pea, con una divi­sione del lavoro sostan­zial­mente duale, sul modello di quella che ha con­dotto all’esplosione, nel nostro Paese, della que­stione meri­dio­nale. Le forze popo­lari e pro­gres­si­ste hanno il com­pito di sma­sche­rare l’artificio reto­rico attorno al quale le classi domi­nanti hanno costruito la nar­ra­zione della crisi: un’operazione indi­spen­sa­bile per il rilan­cio di un dise­gno contro-egemonico su scala con­ti­nen­tale.
È stata la haute finance a trarre bene­fi­cio dalle dina­mi­che della crisi, lucrando sulla “scar­sità” di risorse da essa stessa pro­dotta con la com­pli­cità dei governi. Nel caso della Gre­cia i cosid­detti “sal­va­taggi” non sono stati altro in realtà che uno stru­mento per garan­tire la ren­dita finan­zia­ria, ali­men­tando il potere di ricatto delle éli­tes del denaro. Le ban­che euro­pee, a comin­ciare da quelle tede­sche, hanno sin qui pre­stato denaro ad Atene, che, pri­vata della libertà di indi­riz­zare que­sti fondi verso reali poli­ti­che espan­sive, si è tro­vata costretta ad ulte­rior­mente inde­bi­tarsi. I prov­ve­di­menti impo­sti dalla Tro­jka hanno quindi rea­liz­zato, mediante una par­tita di giro, un raf­for­za­mento delle ban­che pri­vate, favo­rendo al con­tempo un colos­sale spo­sta­mento di risorse dal wel­fare alla ren­dita finan­zia­ria.
Le con­di­zioni impo­ste per il “sal­va­tag­gio” della Gre­cia hanno ripro­po­sto uno schema uni­ver­sa­liz­zato, dove al primo posto, imman­ca­bile, si è col­lo­cata la rac­co­man­da­zione di varare un ampio piano di pri­va­tiz­za­zioni. Que­ste ultime hanno por­tato con sé due con­se­guenze. Da un lato, la sven­dita al capi­tale metro­po­li­tano di asset pre­giati delle peri­fe­rie scon­volte dalla crisi (è di que­sti giorni la noti­zia che il gruppo tede­sco Fra­port si è acca­par­rato la gestione qua­ran­ten­nale di 14 aero­porti greci). Dall’altro, spe­cie in realtà in cui il capi­ta­li­smo nazio­nale dimo­stra ten­denze seco­lari verso la tra­sfor­ma­zione in ren­dita, una dein­du­stria­liz­za­zione fun­zio­nale alla ricon­fi­gu­ra­zione in senso gerar­chico della divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro.

Alle pri­va­tiz­za­zioni hanno poi fatto seguito un po’ ovun­que le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver deter­mi­nato una ripresa dell’occupazione, attra­verso di esse si è sta­bi­liz­zato un enorme eser­cito indu­striale di riserva, tra le file del quale pescare mano­do­pera dequa­li­fi­cata e a basso costo per la pro­du­zione di semi-lavorati, desti­nati ad essere assem­blati dai grandi gruppi indu­striali metro­po­li­tani. Con l’artificio reto­rico dell’invecchiamento della popo­la­zione, infine, i governi nazio­nali sono stati costretti a varare “riforme delle pen­sioni” che hanno pro­lun­gato nel tempo la con­di­zione di sfrut­ta­mento della forza-lavoro, garan­tendo allo stesso tempo lauti divi­dendi ai grandi gruppi assi­cu­ra­tivi pri­vati.
Senza una netta inver­sione di ten­denza, que­sta serie di misure è desti­nata ad avere un impatto di lun­ghis­simo periodo e a tra­sfor­mare in pro­fon­dità lo spa­zio eco­no­mico con­ti­nen­tale. La crisi modella la costru­zione dell’Europa gerar­chica, men­tre lo stru­mento del memo­ran­dum, moderna Magna Charta, la “costi­tu­zio­na­lizza”.
Dopo la Gre­cia è lecito sup­porre l’aggressione del grande capi­tale euro­peo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in que­sta dire­zione si hanno già. Si pensi alla cre­scita dei colossi finan­ziari tede­schi, Allianz e Deu­tsche Bank, i quali stanno acqui­sendo anche in paesi come il nostro quote cre­scenti di mer­cato, al punto che Allianz è il secondo ope­ra­tore in Ita­lia nel campo delle assi­cu­ra­zioni. Anche per quanto riguarda il nostro mer­cato finan­zia­rio si pone quindi un pro­blema di subal­ter­nità al gigante tede­sco. Ma l’aspetto deter­mi­nante per il dispie­garsi dell’egemonia tede­sca è la dein­du­stria­liz­za­zione del sud Europa, una delle emer­genze che andreb­bero affron­tate nella pro­spet­tiva di un’alternativa.

Chi pensa che il futuro della Gre­cia o dell’Italia possa essere trai­nato dall’agricoltura o dal turi­smo, se non è in mala fede, rischia comun­que di pren­dere un abba­glio. Non farebbe male ogni tanto rispol­ve­rare il pen­siero dei nostri grandi sta­ti­sti del pas­sato. Ripren­dendo una valu­ta­zione di Cavour, all’inizio del Nove­cento Fran­ce­sco Save­rio Nitti affer­mava che «l’industria dei fore­stieri, l’industria degli alber­ghi sono grandi indu­strie: ma non pos­sono con­si­de­rarsi come la base del red­dito nazio­nale. Inol­tre un paese che vive dei fore­stieri tende in certa guisa ad abbas­sare il suo carat­tere: tende à un esprit d’astuce et de ser­vi­li­sme fune­ste au carac­tère natio­nal. L’industria dei fore­stieri invece è bene­fica invece in un paese già indu­striale che può trat­tare i fore­stieri su le pied d’une par­faite éga­lité».
Rispetto alla situa­zione in atto un’inversione di ten­denza coin­ci­derà solo con un ribal­ta­mento degli attuali equi­li­bri. Il nodo di fondo da affron­tare è sem­pre lo stesso, il rap­porto fra Stato e mer­cato: il primo deve tor­nare come in pas­sato ad avere l’ultima parola sulla deci­sione su cosa, come e per chi pro­durre, comin­ciando con il recu­pe­rare quella che Beve­ridge avrebbe chia­mato una “signo­ria sul denaro”, ossia una sot­to­mis­sione della finanza al con­trollo demo­cra­tico. Sol­tanto così sarà pos­si­bile per­se­guire poli­ti­che espan­sive e rilan­ciare la pro­du­zione indu­striale e ter­zia­ria in tutte le aree d’Europa.
L’accentramento dei poteri deci­sio­nali in mano ad orga­ni­smi demo­cra­ti­ca­mente irre­spon­sa­bili ed un’asimmetrica divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro hanno pro­ce­duto fin qui di pari passo nella costru­zione dell’Europa gerar­chica. Solo un pro­cesso coor­di­nato di rico­stru­zione dell’apparato pro­dut­tivo della peri­fe­ria con­ti­nen­tale potrà inne­scare un pro­cesso oppo­sto e vir­tuoso di ricon­fi­gu­ra­zione demo­cra­tica dell’Europa.

Intervista. L’economista svizzero: «La svalutazione dello Yuan creerà una situazione incompatibile con la rigidità di Schäuble. Con il venire meno della forza della Germania, cioè lo sbocco in Oriente, non vedo come potranno funzionare le sue politiche ossessivamente austeritarie

L’Europa potrebbe rac­co­gliere la chance offerta dalla crisi cinese per rove­sciare l’assetto eco­no­mico impo­sto al con­ti­nente dall’austerità. Per l’economista Chri­stian Marazzi la sva­lu­ta­zione dello yuan voluta da Pechino mer­co­ledì scorso potrebbe aprire uno spi­ra­glio per il rilan­cio di poli­ti­che espan­sive nell’Eurozona. «Venendo meno la pos­si­bi­lità di espor­tare mas­sic­cia­mente in Cina – ragiona l’autore de E il denaro va (Bol­lati Borin­ghieri) e Dia­rio della crisi (Ombre Corte) — la Ger­ma­nia potrebbe avere inte­resse nel rilan­cio della domanda interna entrando così in una fase post-austeritaria”.

L'economista Christian Marazzi
L’economista Chri­stian Marazzi

La Ger­ma­nia sof­fre da almeno un anno la crisi cinese, ma il suo governo non sem­bra inten­zio­nato a cam­biare impo­sta­zione. È uno sce­na­rio cre­di­bile?
In effetti ci con­fron­tiamo con un fana­ti­smo ordo­li­be­ri­sta sem­pre più poli­tico. La rigi­dità con la quale i tede­schi con­ti­nuano ad affron­tare la Gre­cia, osten­tando la loro ege­mo­nia, lascia in sospeso que­sta chance. Ma la situa­zione che è stata uffi­cia­liz­zata dalla Banca del popolo cinese (Bpc) è incom­pa­ti­bile con la rigi­dità di Schäu­ble. Con il venire meno della forza della Ger­ma­nia, cioè lo sbocco in Oriente, non vedo come potranno fun­zio­nare le sue poli­ti­che osses­si­va­mente auste­ri­ta­rie. Si potreb­bero addi­rit­tura imma­gi­nare le sue dimis­sioni o una crisi seria del governo.

Quali saranno i con­trac­colpi di que­sta deci­sione sull’Europa e le poli­ti­che di Dra­ghi?
La Bce sarà costretta a con­ti­nuare il quan­ti­ta­tive easing anche oltre il set­tem­bre 2016 dato che uno degli effetti che avrà la deci­sione cinese sarà quello di espor­tare defla­zione pro­prio nel momento in cui la Bce sta cer­cando di debel­larla. Biso­gna dire che il Qe non genera neces­sa­ria­mente una cre­scita omo­ge­nea, que­sta situa­zione com­pli­cherà ancora di più l’obiettivo che intende rag­giun­gere Dra­ghi. Nei pros­simi mesi assi­ste­remo inol­tre alla recru­de­scenza degli attac­chi al sala­rio, alle pen­sioni e alla pre­ca­riz­za­zione dei lavo­ra­tori per far fronte ad uno sce­na­rio glo­bale desta­bi­liz­zato. Sarà come prima, ma più di prima. In que­sta cor­nice potreb­bero raf­for­zarsi una serie di riven­di­ca­zioni poli­ti­che anche in Ita­lia, ad esem­pio quella di sgan­ciare il costo del lavoro dalle con­di­zioni di vita, tra­sfor­mando il sala­rio in red­dito di esi­stenza e non più in costo del lavoro. Una situa­zione che potrebbe faci­li­tare una fase di costi­tu­zione di movi­menti tra­sver­sali e postsindacali.

Il fal­li­mento di Tsi­pras sem­bra avere invece raf­for­zato le posi­zioni sovra­ni­ste, noeuro e xeno­fobe, l’opposto di que­sto sce­na­rio…
Siamo tutti ancora stor­diti per quanto è suc­cesso in Gre­cia. La forza della neces­sità pre­vale ormai sull’ottimismo di una ver­ti­ca­liz­za­zione dei movi­menti. La sva­lu­ta­zione cinese e la realtà esplo­siva e tra­gica dei pro­fu­ghi sono i due aspetti più visi­bili di una situa­zione in equi­li­brio pre­ca­rio. Non so quanto potrà durare senza sca­te­nare rivolte che non avranno neces­sa­ria­mente un esito posi­tivo e costi­tuente. Detto que­sto, è il caso di notare che il piano Schäu­ble pre­vede l’uscita dall’euro della Gre­cia e di altri paesi, cioè la stessa cosa che vogliono i suoi avver­sari. Il dibat­tito euro si-euro no mi sem­bra una grande trap­pola. È stato giu­sto inve­stire su Syriza, ora biso­gna pun­tare su una fase di con­creta soli­da­rietà, di spe­ri­men­ta­zione di monete di scam­bio locali. Non dev’essere il movi­mento a ver­ti­ca­liz­zarsi, com’è acca­duto in Gre­cia, ma la poli­tica a farsi oriz­zon­tale e a misu­rarsi inte­gral­mente con le sue istanze.

Quali sono invece gli sce­nari che si aprono in Cina?
Già pro­spet­tando le con­se­guenze sul governo tede­sco delle deci­sioni della Bcp di Pechino abbiamo com­preso che la Cina è, non da oggi, un attore estre­ma­mente potente dell’economia glo­bale. Non lo è solo dal punto di vista degli scambi com­mer­ciali, ma ormai anche da quello mone­ta­rio inter­na­zio­nale e degli equi­li­bri dei mer­cati finan­ziari. Que­sta deci­sione è stata presa per rime­diare al ter­re­moto avve­nuto sulla borsa di Shan­gai e ha molto a che fare con una lotta nel par­tito comu­ni­sta. Il ven­tre del Pcc si è ven­di­cato con­tro XI Jin­ping ven­dendo in massa i titoli. La base del par­tito non sop­porta la cam­pa­gna con­tro la cor­ru­zione voluta dai ver­tici. È in atto una lotta interna che XI Jin­ping sta vin­cendo, almeno per il momento. La banca cen­trale agi­sce secondo le diret­tive del par­tito per con­te­nere que­sta resi­stenza della base.

Quella cinese è una mossa pre­ven­tiva con­tro il rialzo dei tassi che la Fede­ral Reserve ame­ri­cana dovrebbe deci­dere in autunno?
Janet Yel­len, la gover­na­trice della Fed, ha seguito una poli­tica intel­li­gente orien­tata all’uscita gra­duale dalle poli­ti­che di tassi di inte­resse nulli. Sem­brava che si fosse pros­simi alla pos­si­bi­lità di farlo, ma quanto suc­cesso in Cina l’ha azze­rata o posti­ci­pata. Non è cosa da poco per­ché l’aumento dei tassi è neces­sa­rio per gli Usa in vista di una pros­sima di crisi. Per gli ame­ri­cani è neces­sa­rio avere un mar­gine di mano­vra per con­tra­stare la reces­sione. Se non pos­sono aumen­tare i tassi, non avranno que­sti mar­gini nel futuro. Que­sti eventi pos­sono avere risvolti anche preoccupanti.

Quali?
Si sono visti subito quando il ren­di­mento dei buoni del tesoro Usa a due anni è calato in pre­vi­sione dell’impossibilità della Fed di aumen­tare a breve i tassi per gli effetti defla­zio­ni­sti della sva­lu­ta­zione cinese. Pen­siamo alle con­se­guenze sui fondi pen­sione, cioè i mag­giori acqui­renti di buoni del tesoro al mondo. Con que­sti tassi di ren­di­mento nulli o addi­rit­tura nega­tivi si tro­ve­ranno nei pasticci quando dovranno ero­gare le ren­dite pen­sio­ni­sti­che. Poi c’è l’effetto sulle mate­rie prime, come l’oro o il rame che subi­scono con­trac­colpi forti per il calo della domanda mon­diale. Infine c’è il calo del petro­lio che dall’anno scorso ha pesanti effetti sull’industria del frac­king. L’unica cosa che potrebbe con­tro­bi­lan­ciare la rigi­dità dei tassi di inte­resse pros­simi allo zero è che in que­sti mesi sono stati fatte tante fusioni e acqui­si­zioni visto che il denaro costa nulla. Tutti teme­vano un rialzo dei tassi di inte­resse e quindi un effetto peri­co­loso sulle grandi cor­po­ra­tion che si sono com­prate a vicenda, indebitandosi.

Per­ché il Fondo Mone­ta­rio man­tiene la calma in que­sta situa­zione?
Per­ché un cam­bio più fles­si­bile per­mette di avere un’economia dina­mica e favo­ri­sce l’entrata del ren­minbi nel paniere dei diritti spe­ciali di pre­lievo, costi­tuito dal dol­laro, l’euro, la ster­lina e lo yen. Dall’inizio del 2014 il ren­minbi si è riva­lu­tato di oltre il 10 % a causa del suo legame con il dol­laro. La terza sva­lu­ta­zione della moneta cinese rie­qui­li­bra in maniera nor­male la parità con le valute dei part­ner com­mer­ciali occi­den­tali ed è un primo passo verso la mer­ca­tiz­za­zione di quella cinese che non sarà più una moneta cir­co­scritta agli scambi con i paesi asia­tici più vicini. Secondo la loro tra­di­zione, i cinesi hanno astu­ta­mente rove­sciato la cri­tica degli ame­ri­cani (rigi­dità del ren­minbi) a loro van­tag­gio. Oggi il loro van­tag­gio sta nella sva­lu­ta­zione che com­pensa il calo della pro­du­zione e delle espor­ta­zioni che è molto più grave di quella annunciata.

Si raf­forza allora la trap­pola dell’economia finan­zia­ria: tassi bassi, cre­scita bassa e liqui­dità a go go?
Sì, l’economia è desta­bi­liz­zata e lo resterà. In que­sto sce­na­rio va inteso il con­trat­tacco cinese con­tro una poli­tica finan­zia­ria ame­ri­cana che ha voluto pena­liz­zare i paesi emer­genti, e la Cina in primo luogo.

Strategie. La crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative sono il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle borse – visti i margini esistenti – da parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente decisione della Banca centrale rimette fortemente in discussione

Men­tre le miopi e ingorde élite euro­pee si acca­ni­scono con­tro la pagliuzza greca, la trave cinese è pene­trata nell’occhio della finanza mon­diale. Due sva­lu­ta­zioni dello yuan stanno met­tendo in fibril­la­zione il mondo intero e le Borse vanno in pic­chiata. Solo l’Europa «bru­cia» circa 230 miliardi nello spa­zio di un mat­tino. Pra­ti­ca­mente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.

Indub­bia­mente la mossa della Banca cen­trale cinese si iscrive nel capi­tolo delle «sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive», come giu­sta­mente scritto qui Pie­ranni. Pechino doveva rea­gire in qual­che modo al crollo del pro­prio export che a luglio ha matu­rato una fles­sione dell’8%. D’altro canto il ten­ta­tivo di svol­tare nelle poli­ti­che eco­no­mi­che, pun­tando sulla valo­riz­za­zione e il poten­zia­mento del mer­cato interno, era ed è obiet­tivo troppo ambi­zioso per potersi rea­liz­zare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fal­lito, ce ne corre. Almeno per il momento ed in base ai dati dispo­ni­bili. Alcuni com­menti letti in que­ste ore pec­cano di una evi­dente sot­to­va­lu­ta­zione delle capa­cità pro­tei­formi del capi­ta­li­smo, di quello cinese in par­ti­co­lare. Troppo pre­sto per suo­nare le cam­pane a morto, anche se lo si vorrebbe.

La mossa cinese ha più moti­va­zioni. C’è innan­zi­tutto un fatto in con­tro­ten­denza al qua­dro mon­diale che va messo in evi­denza. In Cina si è venuta rea­liz­zando negli ultimi anni una cre­scita dei salari medi, come ha regi­strato anche la stampa eco­no­mica main­stream. Niente di ecce­zio­nale, visto che par­ti­vano da livelli molto bassi. Ma pur sem­pre un ele­mento signi­fi­ca­tivo, soprat­tutto per­ché non deriva solo da una mag­giore capa­cità nel pre­ve­nire e nel fron­teg­giare gli effetti della crisi mon­diale da parte delle classi diri­genti cinesi rispetto a quelle di altri paesi — basta pen­sare alla Unione euro­pea — ma soprat­tutto da una presa di coscienza da parte delle classi lavo­ra­trici cinesi nei set­tori manifatturieri.

Ovvero la cre­scita dei salari e qual­che miglio­ria nelle pre­sta­zioni lavo­ra­tive è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rina­scente lotta di classe in Cina e una qual­che dispo­ni­bi­lità ad allen­tare i cor­doni delle borse — visti i mar­gini esi­stenti — da parte delle classi diri­genti. In altre parole si aprono spazi di rifor­mi­smo reale, che però la recente deci­sione della Banca cen­trale rimette for­te­mente in discussione.

Infatti l’aumento delle retri­bu­zioni è già suf­fi­ciente per intac­care la pro­ver­biale com­pe­ti­ti­vità delle merci cinesi, ma non ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero all’incremento dei con­sumi. La crisi mon­diale impe­di­sce che que­sta venga sosti­tuita, senza inter­venti di tipo mone­ta­rio, dalla domanda estera. Nello stesso tempo le pre­vi­sioni sulla cre­scita quan­ti­ta­tiva cinese non sono otti­mali. Alcuni cen­tri di ana­lisi le sti­mano infe­riori per­sino di parec­chio a quelle uffi­ciali, tenendo conto dell’andamento dei con­sumi ener­ge­tici e della stessa pro­du­zione indu­striale. Lo stu­pore dei cinesi di fronte alle rea­zioni stiz­zite inter­na­zio­nali, ma non di tutti, non deriva solo dalla tra­di­zio­nale astuta dop­piezza orientale.

Non hanno torto quando affer­mano che non hanno fatto altro che quello che il resto del mondo capi­ta­li­stico chie­deva loro, ovvero aprirsi al mer­cato. L’obiettivo non è dun­que una gene­rica e con­fusa guerra valu­ta­ria — peral­tro già in corso con altri mezzi — quanto quello di rispon­dere posi­ti­va­mente alle con­di­zioni poste dallo stesso Fmi — che infatti ha gra­dito — per per­met­tere allo yuan di affian­care le altre monete impor­tanti nel paniere dei Diritti spe­ciali di pre­lievo (Sdr nell’acronimo inglese). Que­sto farebbe dello yuan una moneta di riserva glo­bale. Il che la ren­de­rebbe più sta­bile e ridur­rebbe il biso­gno di dete­nere riserve mas­sicce, libe­ra­liz­zan­done l’uso.

I primi a subire le con­se­guenze nega­tive della deci­sione cinese sono i paesi del sud est asia­tico, come il Viet­nam (mai amato, come è noto, dai cinesi) che ha prov­ve­duto anch’esso ad allar­gare la banda di oscil­la­zione della pro­pria moneta per reg­gere la con­cor­renza inter­na­zio­nale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro che impre­ve­di­bile. Vuole rispon­dere al ten­ta­tivo ame­ri­cano di strin­gerle attorno un cap­pio con il Tpp, l’accordo com­mer­ciale con i paesi del Paci­fico, che non a caso la esclude. La stessa mas­sic­cia immis­sione di liqui­dità (il quan­ti­ta­tive easing) da parte della Fed ha reso iper­com­pe­ti­tivo il dol­laro. Se di qual­cosa ci saremmo dovuti stu­pire è che prima o poi non si mani­fe­stasse una rea­zione cinese.

Ma chi rischia vera­mente grosso è come al solito la nostra Europa. Da un lato le merci cinesi diven­te­ranno più com­pe­ti­tive e pro­ba­bil­mente i cinesi spen­de­ranno meno da noi. Il tutto potrebbe tra­mu­tarsi per­sino in un cam­pa­nello d’allarme utile a smor­zare i toni trion­fa­li­stici della Ger­ma­nia, molto inte­res­sata al mer­cato orien­tale, ma ci ver­rebbe un’altra poli­tica a Ber­lino. La crisi sta cam­biando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una dire­zione ben diversa da quella auspi­cata da Bob Dylan più di 50 anni fa.

Il volto gri­gio e tirato di Mar­tin Schulz, pre­si­dente dell’Europarlamento, costretto a bal­bet­tare il suo com­mento «isti­tu­zio­nale» al risul­tato del refe­ren­dum greco è forse l’immagine più vivida dello stato in cui versa quella che fu la social­de­mo­cra­zia euro­pea. Solo poche ore prima, a urne ancora aperte, era inter­ve­nuto, con un gesto inam­mis­si­bile per il ruolo che rico­pre, a soste­gno dello schie­ra­mento del sì. Per poi, una volta scon­fitta la sua «parte», offrire, inde­cen­te­mente, un soste­gno «umanitario»alla Gre­cia. Herr Schulz , le cui dimis­sioni dovreb­bero essere cosa scon­tata, rispec­chia tut­ta­via pie­na­mente l’idea di demo­cra­zia pre­va­lente nelle segre­te­rie delle for­ma­zioni social­de­mo­cra­ti­che euro­pee. Il suo par­tito, la Spd, si è speso tanto acca­ni­ta­mente in favore del rigore e delle poli­ti­che di auste­rità da osta­co­lare per­fino quel tanto di aper­ture che la can­cel­liera Angela Mer­kel avrebbe potuto azzar­dare in alcune fasi del nego­ziato con Atene. Nean­che per un istante la diri­genza social­de­mo­cra­tica, in buona com­pa­gnia di ita­liani e fran­cesi, si è disco­stata, sia pur di poco, da quello schema che pone al cen­tro della costru­zione euro­pea il rap­porto tra debi­tori e cre­di­tori e il rispar­mio a disca­pito dei red­diti e dei diritti. Cosic­ché oggi la social­de­mo­cra­zia tede­sca è tagliata fuori, per eccesso di zelo, (e per for­tuna) da qua­lun­que pos­si­bile ruolo nella ripresa di un nego­ziato con Atene. Come una can­ti­lena, ormai stan­tia, si limita a ripe­tere che il refe­ren­dum greco ha reso la ricerca di una solu­zione ancora più dif­fi­cile, per non dire impos­si­bile. Ma si guarda bene dall’ aggiun­gere che que­sta «dif­fi­coltà» altro non è che il rifiuto di Syriza di gover­nare secondo regole ostili o indif­fe­renti alla volontà dei gover­nati, come sarebbe auspi­ca­bile secondo la gover­nance euro­pea. L’Europa sarebbe insomma minac­ciata da una over­dose di demo­cra­zia che rischia di legare le mani dei governi. E non è un caso che nell’Italia delle «riforme» si lavori a ren­dere sem­pre più dif­fi­col­toso il ricorso allo stru­mento refe­ren­da­rio, suscet­ti­bile di scom­pa­gi­nare i gio­chi dell’esecutivo. Oltre che sociale, la social­de­mo­cra­zia ha dun­que ces­sato anche di essere democratica,

Resta così, nel ruolo sem­pre più pate­tico e impro­ba­bile di «pon­tiere», la figura più pal­lida e impo­po­lare che i par­titi socia­li­sti d’Europa abbiano mai espresso : Fra­nçois Hol­lande. Mezzo medi­ter­ra­neo e mezzo gover­nante sem­pre più in bilico di una grande nazione deci­siva per l’Unione euro­pea, ma del tutto subal­terno a quella visione tede­sca del Vec­chio con­ti­nente, che un tempo pre­oc­cu­pava non poco i governi di Parigi. La Fran­cia, da tempo, più che una solu­zione è diven­tata una parte rile­vante del pro­blema. È il paese che ha votato no alla Costi­tu­zione poli­tica euro­pea, affos­san­done defi­ni­ti­va­mente per­fino l’idea, ma che in nes­sun modo si è poi spesa nel cor­reg­gerne la costi­tu­zione mate­riale, ossia i rap­porti di forze eco­no­mici e gli assetti gerar­chici che ne con­fi­gu­rano l’equilibrio: «No alla Costi­tu­zione, si ai Memo­ran­dum» , que­sta la lieta novella che pro­viene da Parigi. Nel repub­bli­ca­ne­simo fran­cese si anni­dano molti più sen­ti­menti anti­eu­ro­pei di quanti se ne pos­sano incon­trare dalle parti di Atene. E non è sor­pren­dente che nel suo seno pro­speri e si svi­luppi una forza come il Front Natio­nal di Marine le Pen. Né che la social­de­mo­cra­zia fran­cese si riveli del tutto inca­pace di farvi in alcun modo fronte . Sotto un velo reto­rico sem­pre più sot­tile e tra­spa­rente l’Unione va tra­sfor­man­dosi in un tavolo nego­ziale tra crip­to­scio­vi­ni­smi di potenza dise­guale, con l’entusiastica ade­sione delle social­de­mo­cra­zie in costante declino di cre­dito elet­to­rale. Affan­nato e petu­lante, truc­cando spu­do­ra­ta­mente i numeri del «suc­cesso», il nostro Pd par­te­cipa alla gara nelle seconde file. La «prio­rità dell’interesse nazio­nale» non è più l’evocazione impro­nun­cia­bile di una sto­ria obbro­briosa, ma un buon argo­mento da cam­pa­gna elettorale.

In un sif­fatto con­te­sto in cui l’ipocrisia si fa neces­sità sto­rica diventa essen­ziale soste­nere che il «no» uscito trion­fante dal refe­ren­dum greco è un no all’Europa e una delle molte insor­genze «popu­li­ste» o «ros­so­brune» che minano la costru­zione euro­pea e aprono sull’ignoto. Sem­bre­rebbe esservi una sin­go­lare teo­ria che cir­cola da qual­che tempo nei prin­ci­pali media euro­pei e nel dibat­tito pub­blico. Se una volta anda­vano in gran voga gli «oppo­sti estre­mi­smi» ora sem­bra venuto il tempo dei «con­ver­genti estre­mi­smi» che, da destra e da sini­stra, allean­dosi fra loro, pun­tano a demo­lire la sta­bi­lità del Vec­chio con­ti­nente e a inde­bo­lirne le auree regole. Ogni voce cri­tica viene auto­ma­ti­ca­mente attri­buita a que­sto inquie­tante sce­na­rio. Non manca nem­meno chi anno­vera Alba dorata tra i soste­ni­tori di Tsi­pras, comun­que ricor­ren­te­mente assi­mi­lato al Front natio­nal, al Movimento5 stelle o ai nazio­na­li­sti polac­chi. Natu­ral­mente in com­pa­gnia del temu­tis­simo Pode­mos. Que­sta opera di disin­for­ma­zione ha rag­giunto il paros­si­smo alla vigi­lia del refe­ren­dum in Gre­cia. Il quale espri­meva invece un punto irri­nun­cia­bile, riba­dito con gran­dis­sima insi­stenza: la per­ma­nenza nell’Unione euro­pea e la crea­zione di con­di­zioni tali da non far dipen­dere que­sta appar­te­nenza da un rap­porto tra cre­di­tori e debi­tori uni­ver­sal­mente rico­no­sciuto come inso­ste­ni­bile. Ciò che risulta vera­mente indi­ge­ri­bile dell’esperienza greca è appunto il suo con­vinto euro­pei­smo. Il quale minac­ce­rebbe non tanto i trat­tati euro­pei quanto gli inte­ressi nazio­nali (sovente più ideo­lo­gici che con­ta­bili) degli stati che gover­nano di fatto l’Unione. Se di «salto nel buio» si deve par­lare non è certo rife­ren­dosi alla mossa refe­ren­da­ria di Tsi­pras, quanto alla capar­bia difesa di uno squi­li­brio che sta spia­nando la strada alle peg­giori forme di nazio­na­li­smo, alle quali la social­de­mo­cra­zia euro­pea risponde facen­dosi a sua volta por­ta­voce «ragio­ne­vole» dell’«interesse nazio­nale». E’ que­sta la deriva che sta minac­ciando l’Europa e che la crisi greca non ha certo pro­dotto, ma piut­to­sto chia­ra­mente rivelato.

Tempi presenti. La crisi vista da Berlino in una prospettiva critica nei confronti delle politiche di austerity dell’Unione europea nel nuovo libro dello storico Karl Heinz Roth. Un’analisi dei tentativi finora riusciti della Germania di imporre ai paesi europei, a partire dalla Grecia, misure draconiane neoliberiste a difesa del modello tedesco

«Per due volte nella sua sto­ria più recente la Gre­cia si è tro­vata sull’orlo dell’abisso: durante la Seconda guerra mon­diale e nell’immediato Dopo­guerra, così come dopo la crisi eco­no­mica mon­diale del 2008/9 e fino a oggi, negli anni della depres­sione in corso.» Così apre Karl Heinz Roth il suo Grie­chen­land am Abgrund. Die deu­tsche Repa­ra­tions­schuld (per i tipi Vsa Ver­lag, Amburgo), agile opu­scolo dato alle stampe nel marzo scorso, a due mesi dalla vit­to­ria elet­to­rale di Syriza.

Un testo da leg­gere pro­prio in que­ste ore, alla vigi­lia del deci­sivo refe­ren­dum sulle pro­po­ste pre­sen­tate dalle cosid­dette «Isti­tu­zioni euro­pee» ovvero la Troika, insieme al pre­ce­dente volu­metto, redatto nel mag­gio 2013 dallo sto­rico tede­sco insieme a Zis­sis Papa­di­mi­triou, socio­logo e poli­to­logo all’Università Ari­sto­tele di Salo­nicco, e tra­dotto lo scorso anno in Ita­lia da Deri­veAp­prodi col titolo Mani­fe­sto per un’Europa egua­li­ta­ria. Come evi­tare la cata­strofe.

Quella cupa tendenza

Allora si trat­tava di ana­liz­zare i tratti omo­ge­nei delle poli­ti­che domi­nanti la scena con­ti­nen­tale, indi­vi­duando i costanti effetti sociali dell’austerity imple­men­tata nei pre­ce­denti quat­tro anni: ritorno della disoc­cu­pa­zione di massa, gene­ra­liz­za­zione del lavoro pre­ca­rio, sman­tel­la­mento delle resi­due garan­zie sociali e col­lasso dei diritti demo­cra­tici segna­la­vano per Roth e Papa­di­mi­triou «la cupa ten­denza» dell’Europa contemporanea.

Oggi l’attenzione torna sulla Gre­cia, assunta come caso para­dig­ma­tico delle con­se­guenze di quelle poli­ti­che e, al tempo stesso, spe­ci­fica variante di cui vanno com­prese fino in fondo le genea­lo­gie, fino al punto di indi­vi­duare pre­cise ricor­renze sto­ri­che. In que­sto senso, quello che può essere con­si­de­rato uno dei più signi­fi­ca­tivi espo­nenti dell’ «ope­rai­smo» di lin­gua tede­sca arti­cola in due momenti la sua let­tura dell’attuale passaggio.

Innan­zi­tutto deli­neando, a par­tire dalla pun­tuale descri­zione del con­te­sto socio-economico elle­nico, una pro­po­sta fina­liz­zata a soste­nere su scala euro­pea quella che defi­ni­sce, in rife­ri­mento alla nuova sta­gione inau­gu­rata dall’insediamento del governo gui­dato da Ale­xis Tsi­pras, «una ripar­tenza della Gre­cia».
I dik­tat della Troika e i tagli sociali che sono stati impo­sti – argo­menta Roth – hanno por­tato il paese alla «rovina»: è stato bru­ciato circa il quin­dici per cento del «capitale-sostanza» e il ren­di­mento eco­no­mico com­ples­sivo dra­sti­ca­mente ridotto per oltre il trenta per cento. I dati sono cata­stro­fici sia che si guardi agli inve­sti­menti pro­dut­tivi, sia ai livelli della domanda interna. Lo sto­rico ricorda come sia stato pro­prio The Eco­no­mist ad affer­mare che «l’economia greca corre sul vuoto.» Con quali rica­dute sociali è noto: gli indici di disoc­cu­pa­zione supe­rano ormai il 26 per cento, 340.000 per­sone hanno ali­men­tato una nuova ondata di emi­gra­zione, il red­dito reale è crol­lato di un altro 26 per cento, men­tre il 40 per cento della popo­la­zione soprav­vive al di sotto della soglia uffi­ciale di povertà.

L’espansionismo tede­sco

Nella capar­bia, e insen­sata anche dal punto di vista macro-economico, insi­stenza del per­se­guire poli­ti­che di auste­rity Roth chiama da subito in causa il ruolo gio­cato dalla Ger­ma­nia a par­tire dagli anni Cin­quanta. «Un’opzione stra­te­gica fon­da­men­tale» fin da quando gli Stati Uniti deci­sero di fare prima della Repub­blica Fede­rale, poi della nazione riu­ni­fi­cata, la potenza ege­mone in Europa: quella del «neo-mercantilismo» ovvero del siste­ma­tico con­te­ni­mento dei salari (e del red­dito sociale indi­retto) com­bi­nato con una stra­te­gia di dum­ping per l’export della pro­du­zione mani­fat­tu­riera. In altre parole «per per­met­tere un pro­cesso eco­no­mico espan­sivo, è stata costruita un poli­tica interna estre­ma­mente restrit­tiva».
Tale opzione viene raf­for­zata, dalla fine degli anni Set­tanta in poi, dalla crea­zione del sistema mone­ta­rio euro­peo, fino alla nascita della valuta unica. Per que­sto le élite tede­sche non pos­sono per­met­tersi di accet­tare la «virata verso mode­rati modelli di poli­tica eco­no­mica neo-keynesiani», che è certo al cuore delle pro­po­ste pro­gram­ma­ti­che di Syriza, ma costi­tui­sce anche il tratto carat­te­riz­zante alcune scelte negli Stati Uniti: «le com­bat­tono con feroce acca­ni­mento per sal­vare il modello tedesco.»

La pro­po­sta di Roth per sal­vare non solo la Gre­cia, ma per sot­trarre l’intera Europa a una situa­zione molto peri­co­losa, guarda però ancora più indie­tro. «Vi è una sorta di com­plesso d’inferiorità da parte delle élite ger­ma­ni­che nei con­fronti dei greci», sia per l’esito dell’invasione nazi­sta del 1941, sia per i nego­ziati sui risar­ci­menti di guerra con­clusi nel 1953.

Nel primo caso pen­sa­vano di annet­tersi facil­mente la Jugo­sla­via e la Gre­cia stessa, e invece incon­tra­rono un forte e radi­cato movi­mento di resi­stenza. Nel secondo il governo elle­nico fu allora tra i pochi a pre­ten­dere che fos­sero rico­no­sciute con­si­stenti ripa­ra­zioni per le tra­gi­che ingiu­sti­zie subite. E – sot­to­li­nea Roth – non si trattò «sol­tanto di un paio di vil­laggi dati alle fiamme» quanto di una pesan­tis­sima «ipo­teca posta dall’occupazione» sull’economia, sulla società e sulla vita stessa dei greci. Ad Atene e din­torni furono testate quelle pra­ti­che di deva­sta­zione e sac­cheg­gio, desti­nate poi ad essere scien­ti­fi­ca­mente appli­cate nell’attacco all’Unione Sovie­tica: la Gre­cia fu costretta a farsi carico dei costi dell’occupazione, ma anche a finan­ziare con un pre­stito for­zoso i costi com­ples­sivi delle infra­strut­ture per la pro­se­cu­zione della guerra in Nord Africa e in tutto il Medi­ter­ra­neo orien­tale. «Il risul­tato fu che, nell’inverno 1941/42, oltre cen­to­mila per­sone mori­rono di fame nelle grandi città dell’Ellade». Que­sto portò, si noti il paral­le­li­smo sto­rico, alla com­bi­na­zione di «un’economia alter­na­tiva di sus­si­stenza, esodo urbano verso le cam­pa­gne e dif­fu­sione della resi­stenza armata nelle aree rurali». I nazi­sti furono sor­presi dalla rea­zione popo­lare e rea­gi­rono con una «poli­tica del mas­sa­cro acce­cata dall’ira». Solide stime par­lano di 100mila case distrutte e 56mila tra bam­bini, donne, uomini bestial­mente assassinati.

Ma non c’è stata alcuna pro­por­zione tra la «dimen­sione mostruosa dell’occupazione e del sac­cheg­gio nazi­sta» – segnala qui lo sto­rico – e l’entità dei risar­ci­menti di guerra poi rico­no­sciuti. Diversi giu­ri­sti, di ogni pro­ve­nienza, si sono già espressi ricor­dando come la par­tita delle ripa­ra­zioni non possa essere con­si­de­rata affatto con­clusa, nono­stante le ipo­cri­sie di tutti i Governi Fede­rali fin qui suc­ce­du­tisi. Karl Heinz Roth ha il merito di affron­tare il tema fuori da ogni logica nazio­na­li­sta e can­cel­lando ogni facile reto­rica revan­chi­sta: come in tutto il suo per­corso di stu­dioso e mili­tante, è il nesso strin­gente e inag­gi­ra­bile tra memo­ria e schie­ra­mento di classe a bal­zare in primo piano.

La Bun­de­sbank ha riserve auree suf­fi­cienti, per non par­lare di altre risorse che potreb­bero essere messe in campo, per finan­ziare con un «atto gene­rale di risar­ci­mento» un piano straor­di­na­rio in cui, come punto di par­tenza deci­sivo, dovrebbe col­lo­carsi la deci­sione del Governo tede­sco di appro­vare una imme­diata «mora­to­ria e taglio del debito» greco.

Il tra­collo europeo

È que­sto l’ossigeno per la crisi eco­no­mica e sociale della Gre­cia, neces­sa­rio anche a con­sen­tire una «nuova fon­da­zione euro­pea.»
Per­ché – come già soste­nuto da Papa­di­mi­triou e Roth in Die Kata­stro­phe verhin­dern, e reso a tutti evi­dente dalla miope e cri­mi­nale gestione, da parte delle oli­gar­chie euro­pee, dell’ultima fase dei nego­ziati e dell’indizione del refe­ren­dum – di fronte a que­sto «l’Eurozona e l’intera Unione Euro­pea rischiano il tra­collo, sul fronte eco­no­mico con l’esplosione di povertà su vasta scala e sul fronte poli­tico con l’emergere di destre estreme e nuove spinte nazio­na­li­sti­che.» Se figura cen­trale dell’odierno assetto euro­peo è pro­prio la Ger­ma­nia, che con­tra­sta aper­ta­mente ogni ini­zia­tiva volta a rie­qui­li­brare i rap­porti sociali, nes­sun ritorno alle sovra­nità nazio­nali, poli­ti­che o eco­no­mi­che, è ormai pra­ti­ca­bile. La rispo­sta sta in altri pre­sup­po­sti: nello svi­luppo di un nuovo e più vasto moviemnto sociale, che «non solo sostenga e pro­tegga l’esperimento di governo greco, ma impari anche ad affron­tare la que­stione etico-politica di una radi­cale ridi­stri­bu­zione». Che sap­pia – aggiun­giamo – con­trap­porre alla domi­nante pro­du­zione poli­tica della paura, la capa­cità di «por­tare la paura nel campo nemico» (come si poteva leg­gere su uno degli stri­scioni di Bloc­kupy a Fran­co­forte lo scorso 18 marzo), quello delle oli­gar­chie e del capi­ta­li­smo finan­zia­rio. Solo così sarà forse pos­si­bile pro­muo­vere pro­cessi di cam­bia­mento in tutti gli ambiti della vita, den­tro un nuovo pro­getto di Europa demo­cra­tica e fede­rale. Solo così sarà forse pos­si­bile «evi­tare la catastrofe».

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