Mafie

Massimo Carminati

Mafia nera, mac­ché rossa, fac­ciamo ros­so­bruna e non se ne parli più. Mafia senza con­tatti che la altre mafie, anzi no, col­le­gata alla Camorra nella per­sona di Car­mi­nati Mas­simo, però senza che i gua­glioni met­tes­sero bocca negli affari della capi­tale. Mafia che forag­gia i poli­tici da decenni. C’è chi è andato a sbir­ciare i con­tri­buti di Sal­va­tore Buzzi, sodale del noto super­cri­mi­nale, alla cam­pa­gna elet­to­rale di que­sto o quello risa­lendo sino a una quin­di­cina d’anni fa.
La vicenda di Mafia Capi­tale, soprat­tutto gra­zie a un sistema media­tico rara­mente così sciatto, è diven­tata così un cro­giuolo di veleni del tutto incom­pren­si­bile. Tale è desti­nata a restare, se non si parte dal fare chia­rezza sui pro­ta­go­ni­sti dell’affaire e sulle loro para­bole: la coo­pe­ra­tiva di Buzzi, la «29 Giu­gno», e «il Nero», Mas­simo Car­mi­nati.
La «29 giu­gno» nasce a metà anni ’80, nel clima di rina­scita demo­cra­tica che accom­pa­gnava nelle car­ceri la fine dell’emergenza. Sono gli anni di Nic­colò Amato diret­tore del Dap, del primo con­ve­gno sulle pene alter­na­tive orga­niz­zato all’interno del car­cere di Rebib­bia con la par­te­ci­pa­zione di nume­rosi espo­nenti poli­tici della sini­stra. La pro­po­sta di una coo­pe­ra­tiva mista di dete­nuti comuni, come Buzzi, e poli­tici, come la teso­riera Bugitti, ex Br, è un espe­ri­mento pilota di riso­cia­liz­za­zione, impen­sa­bile sino a poco prima. Spon­sor dell’operazione è Angiolo Mar­roni, asses­sore al Bilan­cio della pro­vin­cia di Roma, poi vice­pre­si­dente del con­si­glio regio­nale del Lazio, oggi garante dei dete­nuti nel Lazio: uno che a vederla in rosa ha dedi­cato la vita ai car­ce­rati e a guar­darla con gli occhiali scuri ci ha costruito sopra la car­riera poli­tica sua e del figlio Umberto, oggi depu­tato Pd, can­di­dato sin­daco di Roma nei sogni di Buzzi.

La coo­pe­ra­tiva decolla con l’attivissimo soste­gno di Mar­roni e gra­zie alla legge del 1991, che per­mette l’assegnazione diretta degli appalti, senza gara, alle coo­pe­ra­tive sociali. È una legge ragio­ne­vole: coo­pe­ra­tive di ex dete­nuti o di ex tos­si­co­di­pen­denti non potreb­bero altri­menti com­pe­tere con le aziende pri­vate. Ma è anche una legge con un ver­sante peri­co­loso, per­ché rischia forte di diven­tare, col tempo, uno dei vei­coli pri­vi­le­giati della clien­tela, spe­cial­mente quando que­sta, a fine mil­len­nio, esplode nelle realtà locali.
Buzzi, dete­nuto per omi­ci­dio (tru­cu­lento: 34 col­tel­late per una sto­ria di truffe), poi gra­ziato nel ’94, è un tipo ener­gico. La «29 Giu­gno» diventa pre­sto non solo un modello di riso­cia­liz­za­zione ma anche il fiore all’occhiello della coo­pe­ra­zione sociale. Buzzi vive ed è immerso fino al collo nel mondo del cen­tro­si­ni­stra romano. Lo cono­scono tutti, lo sti­mano tutti. A un certo punto però, parte nell’amministrazione Rutelli, parte in quella Vel­troni, la «29 Giu­gno” si allarga. Si fa con­sor­zio, si tra­sforma in una potenza a Roma e non solo a Roma. Buzzi diventa uno dei prin­ci­pali punti di rife­ri­mento della coo­pe­ra­zione sociale e della Lega delle coo­pe­ra­tive nella capi­tale. Dif­fi­cile non pen­sare che la sua ascesa sia anche una con­se­guenza dell’ondata di clien­te­li­smo che som­merge tutte le ammi­ni­stra­zioni e gli enti locali a par­tire da fine anni ’90.

Quando arriva al potere capi­to­lino, Ale­manno parte in quarta, deciso a far fuori la coo­pe­ra­tiva rossa, e deli­bera di con­se­guenza. Ci sono pro­te­ste, mani­fe­sta­zioni al Cam­pi­do­glio per mesi. Ma pro­ba­bil­mente Buzzi cerca anche una via pri­vata per ricon­ci­liarsi con i nuovi ege­moni, e la trova in Mas­simo Car­mi­nati. Anche su di lui, in que­sti giorni, si sono scritte parec­chie sce­menze. Neo­fa­sci­sta, sì, ma di tipo più supe­ro­mi­sta che altro. Il suo obiet­tivo nella vita era «tra­sgre­dire tutte le norme del codice penale», come rac­con­tava ai com­pa­gni di classe Fio­ra­vanti, Anselmi e Ali­brandi. Poco dopo quelli daranno vita ai Nar. Lui no: se ne tiene fuori, ma in buoni rap­porti. Mai stato nei Nar e nep­pure nella banda della Magliana (e mai ferito in uno scon­tro a fuoco con la poli­zia: gli spa­ra­rono a freddo men­tre, disar­mato, pas­sava il con­fine con la Sviz­zera clan­de­sti­na­mente. Pen­sando che fosse Fran­ce­sca Mam­bro non si peri­ta­rono di dare l’alt). «Il Nero» pia­ceva molto a uno dei prin­ci­pali boss della Magliana, Franco Giu­sep­pucci, «er Negro», che lo aiu­tava a far soldi inve­stendo a strozzo i pro­venti delle rapine e in cam­bio gli chie­deva qual­che favore, secondo i pen­titi piut­to­sto san­gui­noso. Ma nep­pure nella Magliana Car­mi­nati è mai stato orga­nico, come non sem­bra sia oggi nep­pure nella Camorra, con cui pure avrebbe fre­quenti rap­porti. È un soli­ta­rio: cono­sce, ha buoni rap­porti, ma si tiene sem­pre un passo fuori.

Un po’ gra­zie alle mani­fe­sta­zioni di pro­te­sta, un po’ gra­zie ai buoni uffici del nuovo amico, la «29 Giu­gno» torna in auge. Ale­manno rinun­cia all’offensiva, ritira la deli­bera. La famosa foto con Poletti è stata pro­ba­bil­mente presa pro­prio nel corso della «cena di ricon­ci­lia­zione». Il resto è scritto, anche se andrà veri­fi­cato, nell’ordinanza della pro­cura di Roma. Ma due cose vanno dette con chia­rezza. La prima è che Buzzi, fino a pochi giorni fa, era con­si­de­rato da tutti, nel cen­tro­si­ni­stra, un modello. Di qui i rap­porti di molti con lui. La seconda è che imma­gi­nare una città «sana», come dice Alfano, poi cor­rotta dall’arrivo del lupo man­naro Car­mi­nati, è una sem­pli­fi­ca­zione che pare fatta appo­sta per assol­vere un sistema che è stato per lustri fon­dato sulla clien­tela. Senza atten­dere Car­mi­nati di sorta.

 

Arrestati in 37. Il capo della banda era l’ex Nar Carminati In cella i vecchi manager di Ama e Eur Spa. Coinvolti esponenti Pd. Un’alleanza tra criminalità nera e politica ha pilotato per anni appalti e assunzioni in Comune e Regione.Trentasette arresti, anche l’ex sindaco Alemanno tra le centinaia di indagati. Bufera sulla giunta Marino
SI ERANO presi Roma. Le sue strade e il Campidoglio. Ne avevano ridotto un sindaco, Gianni Alemanno, a utile pupazzo, né il cambio di maggioranze li aveva sorpresi, perché — dicevano — di «nove cavalli » (gli assessori) della giunta Marino, «sei sono nostri». E se l’erano presa perché Lui, Massimo Carminati, er Cecato, er Pirata, l’ex camerata dei “Nar” figlio ed epigono della Banda della Magliana, di Roma aveva compreso meglio di chiunque altro l’anima.
ROMA .
È iniziata all’alba, con centinaia di perquisizioni. È proseguita con 37 arresti e 39 indagati. Ed è terminata con le dimissioni di due esponenti del Pd, invischiati in quel “mondo di mezzo” che la procura di Roma ha chiamato Mafia Capitale, Mirko Coratti e Daniele Ozzimo, rispettivamente presidente dell’assemblea capitolina e assessore alla casa. Una giornata di terremoto, politico e criminale, quella che ieri ha squassato la Città Eterna, facendo tremare la nuova giunta Marino e radendo quasi al suolo il trascorso governo Alemanno, indagato anche lui per 416bis e corruzione aggravata. Una corruzione bipartisan che ha coinvolto gli ex ad di Ama e di Eur spa Panzironi e Mancini (arrestati), Luca Gramazio, ma anche Patanè, attuale consigliere regionale e il responsabile dell’ufficio Trasparenza in Campidoglio Politano.
Cinquecento carabinieri del comando provinciale e cento finanzieri del Gico sono entrati ovunque ieri: dal Campidoglio alla Regione Lazio, dagli appartamenti della criminalità organizzata alle sedi di associazioni e delle municipalizzate. E ne sono usciti con carte e documenti, e con sequestri per 204 milioni di euro, ora al vaglio dei pm Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini titolari della maxi inchiesta. «Siamo solo all’inizio», ha dichiarato il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone in conferenza stampa, come se, quanto accaduto fino ad ora non avesse già traumatizzato abbastanza la città.
Una cupola mafiosa — quella scoperta dai militari del Ros guidati dagli ufficiali Stefano Russo e Roberto Casagrande che da quattro anni lavorano a questa inchiesta — che ruotava attorno alla figura dell’ex boss nar della Magliana Massimo Carminati. Era lui il capo, era lui a decidere tutto: dall’approvazione di bilanci in giunta, all’assegnazione di appalti, alla nomina di politici in posti strategici e funzionali all’organizzazione. E sembra incredibile, sfogliando le pagine dell’ordinanza di oltre mille pagine firmata dal gip Flavia Costantini, come a muovere le fila del mondo politico e imprenditoriale romano fosse sempre lui, Carminati, er Guercio.
Forte della sua caratura criminale, temuto e rispettato da tutti, con la complicità degli arrestati per 416 bis e la corruzione di alcuni indagati, era riuscito a infilarsi nella gestione dei campi nomadi, delle strutture riservate a profughi e immigrati minorenni, alla raccolta dei rifiuti e alla manutenzione del verde pubblico.
Seduto sulla cupola aveva Roma ai suoi piedi.
A fine giornata il ministro dell’interno Angelino Alfano commenta l’inchiesta della procura di Roma: «Ho una grande considerazione di Pignatone e sono convinto della solidità dell’indagine».

 
  

l’ex generale del servizio segreto militare Gian Adelio Maletti

Trattativa Stato-mafia: il generale Maletti interrogato in Sudafrica

Una mattinata d’interrogatorio nel caldo primaverile del Sudafrica, a Johannesburg, davanti a un giudice del distretto di Randburg, per interrogare l’ex generale del servizio segreto militare Gian Adelio Maletti, 93 anni, un pezzo di storia della strategia della tensione in Italia. L’indagine mai chiusa sulla cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia approda sull’ultimo lembo di terra prima dell’Antartide per scavare su fatti di oltre quarant’anni fa, le presunte «relazioni pericolose» con la destra eversiva di un altro generale in pensione, Mario Mori, già capo del Ros dei carabinieri e del Sisde, oggi imputato in due processi: quello sulla trattativa, appunto, e quello per la mancata cattura di Provenzano nel 1995, in appello dopo l’assoluzione di primo grado. 
Per l’Italia Maletti è ufficialmente latitante, condannato per falso nel processo sulla strage di piazza Fontana e per sottrazione di documenti coperti da segreto; eppure vive tranquillamente nel Paese che gli ha concesso una seconda cittadinanza e ancora deve decidere sulla richiesta di estradizione avanzata di Roma. 
Cinque anni fa il presidente della Repubblica Napolitano gli negò la grazia su suggerimento del suo consigliere giuridico di allora, Loris D’Ambrosio, morto d’infarto due anni dopo le polemiche seguite alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche tra lui e l’ex ministro Nicola Mancino, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa. 
In questa veste un po’ particolare Maletti è stato ascoltato ieri come testimone dai pubblici ministeri palermitani Vittorio Teresi, Francesco Bel Bene e Roberto Tartaglia, in trasferta a Johannesburg; assistito dal suo avvocato italiano, Michele Gentiloni Silveri, poiché doveva rispondere su vicende connesse a una nuova richiesta di revisione dell’ultima condanna «atteso il decesso del senatore Giulio Andreotti, l’uomo politico che più di tutti ha ostacolato il riconoscimento della mia innocenza». 
L’obiettivo dei pm, dopo lunghe ricerche negli archivi dei Servizi e tra le carte dei vecchi processi, è fare luce sul passato di Mori, a loro avviso non così trasparente come hanno sostenuto i giudici che finora l’hanno assolto. L’ex comandante del Ros prestò servizio al Sid fra il 1972 e il 1975, legato al generale Vito Miceli (anche lui coinvolto e arrestato nelle indagini sulle «trame nere»), all’epoca direttore del Servizio e in aperto contrasto con Maletti, che dirigeva il Reparto D, quello del controspionaggio. 
Ancora oggi Maletti rivendica la sua contrapposizione a Miceli e ai pm di Palermo ha confermato che Mori era vicino al direttore tramite il colonnello Marzollo. Nel 1975 fu proprio Maletti a ordinare l’improvviso allontanamento di Mori dal Sid e il suo rientro nell’Arma (dopo aver sottoscritto una nota di «eccellenza» solo pochi mesi prima), con divieto di impiego a Roma fino alla fine del processo sul golpe Borghese. 
Tra i ricordi di Maletti — non più lucidissimi per sua stessa ammissione, vista l’età e il tempo trascorso — c’è una sorta di contiguità, evidentemente ritenuta eccessiva persino nel Sid di quella stagione, di Mori con la destra eversiva. 
Al testimone i pm hanno illustrato il documento di una fonte del Sid relativo all’attività del gruppo Marzolla-Mori-Ghiron (vicino ai neofascisti dell’epoca, fratello dell’avvocato Giorgio Ghiron, legato a Mori, poi difensore dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e in seguito condannato per riciclaggio dei soldi di «don Vito») per ostacolare le attività del Reparto D guidato da Maletti sulla destra eversiva. L’ex generale ha risposto di non averne mai avuto conoscenza, tuttavia secondo lui il problema esisteva. E se Mori fu mandato via con la clausola di restare lontano dalla sede del processo Borghese è perché — ha riferito — doveva essere emerso qualche elemento concreto, non solo discorsi generici sui legami «notori» tra Mori e l’estrema destra. 
Quanto ai rapporti tra Sid e mafia, l’ex capo del reparto D ha ricordato che il capocentro del controspionaggio nei primi anni Settanta, il colonnello Bonaventura, era considerato molto legato ad ambienti di Cosa nostra, oltre che a Miceli. Per questo, sostiene Maletti, cioè per non farlo arrivare a una spia così compromessa, lui sottrasse il fascicolo riservato a causa del quale fu poi condannato a 14 anni di carcere. 
Nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia entrano così i postumi della guerra intestina al Sid in un’epoca piena di ombre, malefatte e misteri. E la testimonianza di Maletti, che probabilmente i pm introdurranno nei processi in corso, sembra ispirata anche a tentativi di autodifesa, visto che l’accusa rivolta ad altri di voler proteggere l’estrema destra arriva da un ex agente segreto responsabile della fuga di due inquisiti vicini ai «neri» coinvolti nella strage di piazza Fontana. 

 
I verbali del pentito Flamia: “Nel 2008 un agente dell’Aisi mi disse che era stata volutamente sbagliata la data di nascita sul mandato e garantì che quando sarei finito in carcere non mi avrebbero contestato l’associazione mafiosa”. Indaga la procura di Palermo

 PALERMO . Sapeva che l’avrebbero arrestato una mattina di dicembre. Sapeva pure per quale reato, una bazzecola rispetto al suo ruolo di boss. Sapeva tante cose Sergio Rosario Flamia, rispettato padrino di Bagheria: fare il confidente dei servizi segreti gli tornava molto utile. Un giorno di fine 2008, il suo contatto lo chiamò al telefono per dire che sarebbe stato opportuno vedersi subito. Al solito posto, in campagna. Esordì: «Guarda, dovevano arrestare pure a te stanotte, io sono riuscito a spostare la carcerazione facendo volutamente un errore sulla data di nascita nell’ordinanza di custodia cautelare». Aggiunse: «Sicuramente, ti arresteranno fra tre, quattro giorni, ma stai tranquillo che noi ti aiutiamo, intanto ti stiamo facendo contestare un articolo che è una cosa poco grave rispetto all’associazione, l’articolo 418, assistenza agli associati ».
IL VERBALE IN PROCURA
Questo ha raccontato Sergio Flamia, un tempo confidente dell’Aisi oggi collaboratore di giustizia, ai magistrati del pool trattativa, che da qualche tempo indagano sui rapporti fra mafiosi e uomini dei Servizi. Flamia vuole allontanare il sospetto di essere un pentito costruito a tavolino per smontare il processo Stato-mafia, e allora ha deciso di raccontare i retroscena più segreti dei suoi incontri con gli 007: dalla ricompensa ufficiale (150 mila euro), per aver fornito nel 2008 informazioni sui nuovi boss di Palermo; ai favori e ai contatti, che ora rischiano di mettere nei guai alcuni esponenti dell’intelligence.
Flamia ha riempito 124 pagine davanti ai pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Francesca Mazzocco. E adesso le sue parole deflagrano nel cuore dell’indagine che sta facendo anche il Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, non solo sul caso del boss confidente, ma anche sul cosiddetto protocollo “Farfalla”, l’accordo fra il vecchio Sisde e il Dap per carpire informazioni nei bracci del 41 bis. Qualche giorno fa, il sottosegretario con delega ai Servizi, Marco Minniti, ha assicurato che dalla documentazione in possesso dell’Aisi non risultano incontri in carcere fra gli agenti segreti e Flamia. Incontri che sarebbero illegittimi. Ma è lo stesso Flamia a smentire questa ricostruzione.
Repubblica ha potuto leggere il verbale del neo pentito, risale al 4 febbraio scorso, di recente è stato depositato al processo trattativa oltreché al processo d’appello per il generale Mario Mori (ex capo del Sisde). A pagina 57, il pm chiede: «Ha avuto contatti mentre era in carcere?». E Flamia spiega che durante la detenzione nel carcere di Pagliarelli, «lui», il suo tramite dal luglio 2008, «mandava a chiedere qualche informazione, ma a livello di scemenze». Spiega che «una-due volte» un agente dell’Aisi «si è presentato come avvocato, mi chiamavano in cella e io andavo. “Mi manda… ne sai parlare di questo discorso?”. Una delle cose che mi ha chiesto: voleva sapere cosa intendevano dire i Graviano con il discorso “il Milan è più forte della Juventus” o viceversa, che loro pensavano erano discorsi criptati». Non era proprio una «scemenza». All’epoca, si sospettava che dietro quei riferimenti calcistici nelle lettere dei capimafia al 41 bis potessero nascondersi ordini di attentati. Dice Flamia: «Io in cambio di queste informazioni non avevo chiesto niente se non il favore per il procedimento che avevo». È a questo punto che l’ex boss racconta delle rassicurazioni avute dagli 007. Sull’arresto ritardato rispetto al blitz “Perseo”, che il 16 luglio 2008 portò in carcere una novantina di persone. Sulla data di nascita sbagliata. E soprattutto sull’imputazione annacquata.
LA CONDANNA CASSATA
Non millantava l’agente segreto. Nel provvedimento di fermo, che i magistrati hanno compilato sulla base di un rapporto dei carabinieri, la data di nascita di Flamia è sbagliata: 4 febbraio 1958, anziché 21 febbraio 1963. E in quello stesso rapporto degli investigatori, pieno di intercettazioni, Flamia viene denunciato solo per «assistenza agli associati» e non per il più grave reato di «associazione mafiosa» che meritava tutto. Quattro anni dopo, questo trattamento di favore l’hanno stigmatizzato con parole di fuoco i giudici della corte d’appello di Palermo, che hanno annullato la condanna del boss Flamia a 3 anni e 4 mesi, rimandando gli atti in procura. Proprio perché quella contestazione di «assistenza agli associati» era una vera corbelleria. Come aveva fatto l’agente dei Servizi ad alleggerire la posizione del boss confidente? Il giorno che Flamia decide di collaborare con i pm manda il figlio dal suo contatto, «per vedere come la pensa lui e se mi può dare una mano d’aiuto — spiega ai pm — per me farglielo sapere è stata anche una questione di scrupolo, per avere la coscienza a posto che io non avrei danneggiato questa situazione dello Stato. E lui mi ha garantito che tutto quello che era stato fatto con me era stato fatto alla luce del sole. Quindi, disse a mio figlio, tutto quello che sa lo deve dire tranquillamente». Ma, ora, l’agente segreto che entrato in carcere spacciandosi per avvocato rischia l’accusa di falso ideologico.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Cosa aggiunge la let­tura del ver­bale della testi­mo­nianza di Gior­gio Napo­li­tano nel pro­cesso per la pre­sunta trat­ta­tiva tra stato e mafia (86 pagine pub­bli­cate ieri sul sito del Qui­ri­nale) alle cono­scenze già acqui­site? Dal punto di vista della rico­stru­zione sto­rica degli eventi sui quali si con­cen­tra il pro­cesso, non molto. Dal punto di vista della messa a fuoco del fatto ori­gi­na­rio per il quale la pro­cura di Palermo ha voluto la cla­mo­rosa — per­ché mai vista — depo­si­zione del pre­si­dente della Repub­blica, pra­ti­ca­mente nulla.

Si tratta della famosa let­tera di dimis­sioni dell’ex con­si­gliere giu­ri­dico del pre­si­dente, Loris D’Ambrosio, let­tera del giu­gno 2012 resa pub­blica da Napo­li­tano dopo la scom­parsa di D’Ambrosio (un mese dopo). Il pre­si­dente ha detto ai magi­strati di Palermo di non poterli aiu­tare a chia­rire quel «timore di essere stato con­si­de­rato solo un inge­nuo e utile scriba di cose utili a fun­gere da scudo per indi­ci­bili accordi» messo per iscritto da D’Ambrosio, invi­tan­doli piut­to­sto a rileg­gere quello che il con­si­gliere aveva rive­lato pochi mesi prima in un libro dedi­cato alla memo­ria di Fal­cone. Non molto. Ma di più, nel 2012, D’Ambrosio non aggiunse. Né Napo­li­tano chiese. Per­cepì sì «l’ansietà» e «l’indignazione» del suo con­si­gliere, ma non per gli «indi­ci­bili» fatti risa­lenti al periodo 1989–93, quanto per la «cam­pa­gna gior­na­li­stica che» nel 2012 «lo stava ferendo a morte». E se ci fosse stato qual­cosa da denun­ciare, è la nota­zione del pre­si­dente, «D’Ambrosio era un magi­strato di tale qua­lità» che «se avesse avuto in mano degli ele­menti che non fos­sero solo ipo­tesi, lui sapeva benis­simo quale era il suo dovere, andare all’autorità giu­di­zia­ria competente».

La depo­si­zione al Qui­ri­nale ha riguar­dato anche i fatti del 1993, l’estate delle bombe di Cosa nostra a Roma e delle stragi a Milano e Firenze: allora Napo­li­tano era pre­si­dente della camera. È l’argomento sul quale i pm paler­mi­tani hanno con­cen­trato l’attenzione subito prima e subito dopo l’udienza al Qui­ri­nale. Eppure era già noto che gli atten­tati di Cosa nostra furono allora imme­dia­ta­mente letti come un ten­ta­tivo di ricatto della mafia allo stato — era scritto nelle note dei ser­vizi segreti, ne ha par­lato in libri e inter­vi­ste l’allora pre­si­dente del Con­si­glio Ciampi, arri­vando a rac­con­tare del timore di un golpe quando a palazzo Chigi sal­ta­rono i col­le­ga­menti tele­fo­nici nella notte delle auto­bombe. Ed era già noto che tanto Napo­li­tano quando Spa­do­lini (pre­si­dente del senato) furono nel ’93 per un breve periodo rite­nuti a rischio atten­tato: l’aveva rico­struito il pm di Firenze Che­lazzi. Le con­ferme di Napo­li­tano fanno sen­sa­zione essen­zial­mente per­ché pro­ven­gono oggi diret­ta­mente dal ver­tice della Repub­blica. «La valu­ta­zione comune alle auto­rità isti­tu­zio­nali in gene­rale e di governo in par­ti­co­lare — ha rico­struito il pre­si­dente a pro­po­sito delle stragi di via Pale­stro e di via dei Geor­go­fili — fu che si trat­tava di nuovi sus­sulti di una stra­te­gia stra­gi­sta dell’ala più aggres­siva della mafia, si par­lava allora in modo par­ti­co­lare dei cor­leo­nesi». Una con­ferma. Solo in parte ridi­men­sio­nata dal pas­sag­gio suc­ces­sivo: «In realtà que­gli atten­tati per met­tere i pub­blici poteri di fronte a degli aut-aut, per­ché que­sti aut-aut potes­sero avere per sbocco una richie­sta di alleg­ge­ri­mento delle misure soprat­tutto di custo­dia in car­cere dei mafiosi o potes­sero avere per sbocco la desta­bi­liz­za­zione politico-istituzionale del paese e natu­ral­mente era ed è mate­ria opi­na­bile» (cor­sivo nostro).

La let­tura del ver­bale inte­grale è più inte­res­sante per chi voglia cogliere il clima di quella ine­dita depo­si­zione al Qui­ri­nale. Con Napo­li­tano che liquida il pm Teresi che lo inter­roga sul dibat­tito par­la­men­tare del ’92 sug­ge­ren­do­gli di andarsi a leg­gere lo ste­no­gra­fico — e il pre­si­dente del Tri­bu­nale Mon­talto che si intro­mette chie­dendo alla pub­blica accusa «domande più spe­ci­fi­che». O il pm Teresi che di fronte a Napo­li­tano che difende la memo­ria del suo ex con­si­gliere vuol met­tere a ver­bale che «la pro­cura non ha mai pen­sato che il con­si­gliere D’Ambrosio fosse mini­ma­mente coin­volto». La ten­sione tra­spare evi­dente anche quando Napo­li­tano risponde al pm Di Mat­teo che vuole chie­der­gli della chiu­sura del super­car­cere di Pia­nosa: «Non ero pre­di­spo­sto a que­siti così spe­ci­fici, altri­menti mi sarei fatto carico di una rilet­tura degli atti del par­la­mento» — come dire: sono dispo­ni­bili per tutti. O infine quando il pre­si­dente stra­pazza l’avvocato Cian­fe­roni, difen­sore di Riina, che prima vuol sapere da lui chi erano i con­fi­denti di D’Ambrosio — «si legga il libro» di D’Ambrosio — e poi chiede chia­ri­menti anche sull’autobiografia di Napo­li­tano: «Vogliamo fare un talk show sulla sto­ria della Repubblica?».

 
ROMA Nella sala del Bronzino adibita ad aula di corte d’assise, i giudici sono sistemati un gradino più in alto rispetto ad avvocati e pubblici ministeri, seduti di fronte a loro. Quando il presidente Alfredo Montalto, verbalizzate presenze e assenze, invita a far entrare il capo dello Stato, si apre una porta laterale e fa ingresso Giorgio Napolitano. I corazzieri scattano sull’attenti, gli avvocati si alzano in piedi, giudici e pm restano seduti. Il capo dello Stato prende posto sullo stesso piano rialzato della corte, alla sua destra, con in mano una cartellina che raccoglie alcuni documenti. Si siede e pronuncia la formula di rito, impegnandosi a dire tutta la verità. 
Alle 10,05 comincia una testimonianza da cui l’accusa incassa una frase che — nella propria visione — conferma il quadro del ricatto allo Stato portato dai mafiosi e favorito da alcuni rappresentanti delle istituzioni. Riguardo agli attentati di Firenze, Roma e Milano nella primavera-estate del 1993 Napolitano, all’epoca presidente della Camera, dice: fu subito chiaro che erano nuovi sussulti della fazione più violenta di Cosa nostra, per porre lo Stato di fronte a un aut aut ; o si alleggeriva la pressione nei confronti della mafia o si rischiava il proseguimento degli attacchi destabilizzanti. 
I sospetti di D’Ambrosio
Ma l’esame dei pm comincia con una premessa del procuratore aggiunto facente funzioni di capo, Leonardo Agueci, il quale sottolinea il riguardo dell’intero ufficio per Napolitano e l’alta funzione che esercita. Subito dopo tocca all’altro procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, che comincia dal riepilogo degli incarichi istituzionali ricoperti dal testimone, per arrivare alla conoscenza con il magistrato Loris D’Ambrosio, nel 1996, quando Napolitano era ministro dell’Interno e lui capo di gabinetto al ministero della Giustizia. Salito al Quirinale nel 2006, Napolitano lo ritrovò che era già consigliere giuridico di Ciampi, e lo confermò nell’incarico: «Avevamo un rapporto direi quotidiano, che sfociò in affetto e stima ma sempre sul piano del lavoro, non facevamo conversazioni a ruota libera». 
Ed eccoci al cuore della deposizione: la lettera con cui il 18 giugno 2012, un mese prima di morire, D’Ambrosio comunicò a Napolitano le proprie dimissioni (respinte), ed espresse il timore di essere stato trattato, fra il 1989 e il 1993, da «utile scriba» e «scudo per indicibili accordi». Il pm Teresi chiede a più riprese se il capo dello Stato abbia saputo di più circa questi sospetti. 
«No — è la sintesi delle risposte — D’Ambrosio mi aveva trasmesso solo ansietà e sofferenza per la strumentalizzazione delle intercettazioni tra lui e Mancino. La lettera fu per me un fulmine a ciel sereno. Non ebbi sentore o percezione delle sue inquietudini relative al 1989-’93, ma dell’indignazione per il trattamento ricevuto, dopo aver dedicato una vita alle istituzioni, a costo di minacce che ebbero effetti sui suoi familiari (il riferimento è alle indagini svolte da D’Ambrosio sul terrorismo nero e i Servizi deviati alla Procura di Roma, ndr ). Era profondamente scosso perché veniva messa in dubbio la sua fedeltà istituzionale, si sentiva ferito a morte». 
Difficili interpretazioni 
La riservatezza costituzionalmente garantita delle attività presidenziali, «anche informali», consentirebbe a Napolitano di non parlare delle sue conversazioni con D’Ambrosio, ma il presidente non si ferma: «Non ebbi con lui discussioni sul passato». Nessun cenno agli «indicibili accordi», che del resto erano «ipotesi prive di sostegno oggettivo, ché altrimenti da magistrato avrebbe saputo cosa fare, mentre di questi dubbi non ha parlato né nelle audizioni parlamentari né ai pubblici ministeri». E gli accenni a ciò che avrebbe scritto, e invece non compare, nel libro di Maria Falcone in ricordo del fratello trucidato dalla mafia, «rimangono righe a cui è difficilissimo dare un’interpretazione». 
La scorta dei Nocs 
Con le domande del pm Nino Di Matteo, alle 11,10, si passa al dibattito parlamentare del 1992 sull’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che introdusse il «carcere duro» per i boss. Napolitano spiega che «il presidente della Camera non entra nel merito dei provvedimenti né si confronta con i gruppi parlamentari», ma si dice «convinto che la strage di via D’Amelio rappresentò un colpo di acceleratore» all’approvazione della legge. 
Ad altre domande su questo tema Napolitano risponde pur sottolineando più volte che «ci stiamo allontanando molto dal tema dell’esame»; lui ha buona memoria, garantisce, «ma non quella di un elefante», né può paragonarsi «a Pico della Mirandola», e il presidente della corte fa notare che certe dimenticanze, a tanti anni di distanza dai fatti, sono più che comprensibili. 
Ricorda bene, invece, il testimone d’eccezione, le «voci» di attentato ai danni suoi o di Giovanni Spadolini raccolte dal Sismi nell’estate del 1993; ricorda che gliene parlò l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, affidandogli una discreta sorveglianza da parte dei Nocs durante una sua trasferta parigina; e ricorda anche di aver cambiato abitazione, trasferendosi nell’alloggio di Montecitorio, perché casa sua era in un vicolo di Roma dove sarebbero state a rischio altre persone. 
Attacco allo Stato
Così come ricorda le ipotesi sulle strategie mafiose del ‘93 sebbene l’interpretazione dei fatti sia «materia opinabile», e i timori di Ciampi (all’epoca capo del governo) per un possibile colpo di Stato; la notte delle bombe ci fu un black out telefonico, tipico ingrediente del golpe come riportato in un libro degli anni Settanta citato da Napolitano. Una situazione di «fibrillazione» e attacco frontale allo Stato che però — nella ricostruzione del presidente — non impedì una prosecuzione della «lotta senza quartiere» alla mafia, non inficiata dalle minacce personali: lui e gli altri responsabili istituzionali avevano vissuto la stagione del terrorismo «quando non volavano solo minacce ma anche pallottole, e servire il Paese significa anche mettere a rischio la propria vita». 
A novembre del ‘93 però il ministro Conso decise di non prorogare il «carcere duro» per oltre 300 detenuti, sulla base dell’idea che era meglio favorire la fazione mafiosa meno violenta nel rapporto con lo Stato, «ma sono analisi oggetto della pubblicistica, di cui io non seppi niente»; quanto ai «41 bis» il presidente della corte blocca la risposta: «La domanda non è ammessa, non è rilevante». 
Dopo una pausa di venti minuti, alle 12,35 cominciano il controesame dei difensori e le domande dell’avvocato Cianferoni, per conto di Riina. Ci sono specificazioni e approfondimenti, e a un quesito del legale del «capo dei capi» di Cosa nostra Napolitano ribatte: «Non voglio rubare il mestiere alla pubblica accusa avventurandomi nei rapporti tra mafia e servizi segreti». Un ulteriore quesito sulle opinioni di Scalfaro viene bloccato, e alle 13,35 la deposizione finisce. Il presidente della corte Alfredo Montalto stringe la mano al capo dello Stato, che saluta gli altri presenti con un cenno del capo. L’udienza è tolta. 
Giovanni Bianconi

Il presidente nega di aver mai saputo di «indicibili accordi» Il procuratore: piena collaborazione. Il Colle: subito la trascrizione

ROMA Più di tre ore per ricostruire quei giorni in cui, secondo l’accusa, maturò la trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Per spiegare che lui, Giorgio Napolitano, all’epoca presidente della Camera, non ne ebbe mai notizia. E che gli «indicibili accordi», dei quali gli parlò il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, in una lettera nella quale espresse il timore di avervi fatto da «scudo», erano una «mera ipotesi priva di basi oggettive».
È finita così la deposizione del capo dello Stato nel processo di Palermo. Con una nota del Quirinale mirata ad evidenziare che il presidente ha risposto a tutte le domande poste e anche ad alcune non ammesse dalla Corte, auspicando che venga messa al più presto a disposizione la trascrizione. Con la soddisfazione dei magistrati: «Da parte del capo dello Stato c’è stata una grande collaborazione. Napolitano ha risposto a tutto in modo molto ampio», ha detto il procuratore di Palermo Leonardo Agueci, e Vittorio Teresi ha aggiunto: «Ci ha dato un importante contributo per la ricerca della verità».
Con l’eccezione di nullità sollevata dall’avvocato Massimo Krogh perché al suo assistito, l’ex ministro Nicola Mancino, è stata «preclusa la partecipazione costituzionalmente prevista». E con la precognizione dell’avvocato di Totò Riina, Luca Cianferoni: «Se resta viva un po’ di gente questa vicenda del ‘93 alla fine darà molte sorprese». Oltre alle consuete polemiche. Un post del M5S Massimo Fraccaro che ha accusa Napolitano di «reticenza» e di «trascinare nel fango le istituzioni» ha scatenato e accuse di vilipendio.
Ma lui, Napolitano, in abito blu, ieri si è mostrato, a detta di molti, «sereno e rilassato». Pronto anche a sdrammatizzare con «non sono Pico della Mirandola». Ma c’è chi dice commosso, nel ricordare Loris D’Ambrosio: «Eravamo una squadra». Seduto al suo scrittoio nella sala del Bronzino ha risposto alle domande poste dai pm e degli avvocati: quelli di Dell’Utri, Giuseppe di Peri e Pietro Federico, e dell’ex generale Mori, Basilio Milio non ne hanno poste «per rispetto — ha detto quest’ultimo — alla figura e alle funzioni del capo dell Stato».
Nessuno ha chiesto a Napolitano se abbia mai saputo di una «trattativa» Stato-mafia. La stessa parola non è stata pronunciata. Napolitano ne ha parlato in riferimento alla lettera sugli «indicibili accordi» inviatagli da Loris D’Ambrosio prima di morire stroncato da un infarto, dopo aver deposto sulle telefonate ricevute dall’ex ministro Mancino, accusato di falsa testimonianza. Al legale di Mancino, Krogh, Napolitano ha confermato che il timore di D’Ambrosio di essere considerato «un utile scriba» per la trattativa «era una mera ipotesi priva di basi oggettive».
Ma rivelazioni importanti ne ha fatte, Napolitano. A partire dall’aut aut di Cosa nostra percepito dalle massime istituzioni dopo le stragi del ‘93. Ai ricordi dei timori di un colpo di Stato, condivisi con Carlo Azeglio Ciampi, dopo un black out a Palazzo Chigi, via via fino alle conferme di aver saputo dall’ex capo della Polizia, Parisi, di un rischio di attentato nei suoi confronti. La domanda sul famoso «io non ci sto» di Oscar Luigi Scalfaro è stata esclusa dalla lista.
Virginia Piccolillo

Giorgio Napolitano

L’inizio uffi­ciale è fis­sato per le dieci di que­sta mat­tina. A quell’ora, nella sala del Bron­zino al Qui­ri­nale, per la prima volta un pre­si­dente della Repub­blica in carica sarà ascol­tato come teste in un pro­cesso. E non si tratta certo di un pro­cesso qua­lun­que, ma quello che si sta svol­gendo da due anni a Palermo sulla trat­ta­tiva inter­corsa tra lo Stato e Cosa nostra per met­tere fine alle stragi mafiose dei primi anni ’90.

Sarà un’udienza blin­data per volontà dello stesso Gior­gio Napo­li­tano che, salvo sor­prese dell’ultimo minuto, ha impe­dito la possibilitàper i gior­na­li­sti di assi­stere alla sua depo­si­zione anche a distanza e ha vie­tato l’ingresso nella sala di cel­lu­lari, tablet, com­pu­ter e qua­lun­que altro stru­mento utile alle regi­stra­zioni. L’udienza sarà ripresa da un tec­nico del Qui­ri­nale (e non della pro­cura come avviene di solito) che poi con­se­gnerà le imma­gini alla corte. Pre­senti, oltre ai giu­dici togati e popo­lari, una qua­ran­tina di per­sone tra can­cel­lieri, avvo­cati di parte civile, difen­sori dei dieci impu­tati — a par­tire dal legale del boss Totò Riina — oltre, ovvia­mente, ai pm della pro­cura di Palermo Nino Di Mat­teo, Roberto Tar­ta­glia e Fran­ce­sco Del Bene, al pro­cu­ra­tore aggiunto Vit­to­rio Teresi e al pro­cu­rato facente fun­zioni Leo­nardo Agueci..

E sarà pro­prio Teresi il primo a pren­dere la parola. Il pool di magi­strati sici­liani ha lavo­rato fino a tardi ieri sera per met­tere a punto la lunga serie di domande da rivol­gere al capo dello Stato. Domande che sono diven­tate ancora più nume­rose dopo che la pro­cura di Firenze ha ritro­vato un rap­porto del Sisde datato 20 luglio 1993 e ammesso nei giorni scorsi tra gli atti del pro­cesso dal pre­si­dente della corte d’Assise Alfredo Mon­talto. Nel docu­mento, in cui per la prima volta si farebbe rife­ri­mento all’esistenza di una trat­ta­tiva, si parla di un pro­getto della mafia di com­piere un atten­tato con­tro lo stesso Napo­li­tano e Gio­vanni Spa­do­lini quando rico­pri­vano rispet­ti­va­mente le carica di pre­si­dente della Camera e del Senato. Pro­prio gli anni in cui si sarebbe svolta la trat­ta­tiva e che pon­gono Napo­li­tano nella posi­zione di dover rispon­dere anche a domande rela­tive a quel periodo. Gli venne rife­rito del peri­colo? E gli furono aumen­tate le misure di sicu­rezza?
Dun­que al capo dello Stato i pm non chie­de­ranno più solo chia­ri­menti rela­tivi alla let­tera che nel giu­gno del 2012 gli scrisse il suo con­su­lente giu­ri­dico Loris D’Ambrosio, morto in seguito, e nella quale gli rivelò i suoi dubbi per alcuni epi­sodi avve­nuti tra i 1989 e il 1993, quando lavo­rava al mini­stero della Giu­sti­zia con Gio­vanni Falcone.

Le ultime novità di certo non sono pia­ciute al Colle. Con una let­tera inviata nei mesi scorsi al pre­si­dente della corte d’Assise, Napo­li­tano aveva infatti detto non avere novità da rife­rire in merito alla let­tera di D’Ambrosio, accet­tando comun­que in seguito di testi­mo­niare, sep­pure all’interno dei paletti ben pre­cisi impo­sti dalla Corte costi­tu­zio­nale. Adesso però lo sce­na­rio sul quale può essere chia­mato a rispon­dere si è allar­gato, tanto più che riguarda pro­prio gli stessi anni a cui D’Ambrosio faceva rife­ri­mento nella sua mis­siva. Esclusi colpi di cena, come una mar­cia indie­tro sulla dispo­ni­biltà a testi­mo­niare, Napo­li­tano potrebbe però rifiu­tarsi di rispon­dere a domande rela­tive pro­prio all’epoca in cui era pre­si­dente della Camera.

Dopo i pub­blici mini­steri sarà la volta dei difen­sori degli impu­tati in par­ti­co­lare dell’avvocato Luca Cian­fa­roni, che difende Totò Riina. Ieri il legale ha rife­rito che il boss si sarebbe detto «dispia­ciuto» di non poter par­te­ci­pare in video­con­fe­renza all’udienza di oggi al Qui­ri­nale. Poi ha spie­gato di avere - oltre al con­tro­in­ter­ro­ga­to­rio — anche lui molte domande da rivol­gere al capo dello Stato, su un tema più ampio e rela­tivo «a quanto accadde tra il 1993 e il 1994». Non è detto però che accada oggi. Per­ché la corte potrebbe deci­dere di rin­viare le domande dei legali, ma anche per­ché Napo­li­tano potrebbe, come è suo diritto, riti­rare la sua dispo­ni­bi­lità a testimoniare.

Mario Mori

Al processo d’appello contro l’ex generale Mori affiora il «Protocollo Farfalla» siglato da Sisde e Direzione delle carceri nel 2003-2004 — Mori guidava il servizio segreto civile — per pagare informazioni a mafiosi reclusi

PALERMO Dalle carte del processo d’appello contro l’ex generale Mario Mori affiora uno dei segreti inseguiti più a lungo dalle indagini antimafia dell’ultimo decennio. Il cosiddetto Protocollo Farfalla, siglato dal Sisde e dalla Direzione delle carceri tra il 2003 e il 2004, quando Mori guidava il servizio segreto civile. Un patto per raccogliere informazioni a pagamento da detenuti di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, all’insaputa di investigatori e inquirenti. Che ora, per la Procura generale di Palermo, diventa una nuova prova a carico dell’imputato.
Dopo una vita spesa nei reparti antiterrorismo e anticrimine di servizi segreti e Arma dei carabinieri, a 75 anni Mori sembra un imputato più imputato degli altri. Chiamato a rispondere per la presunta trattativa tra Stato e mafia, dopo l’assoluzione definitiva per la perquisizione mai fatta al covo di Riina nel 1993 e quella di primo grado per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Ieri, al processo d’appello per quell’episodio, la Procura generale rappresentata in aula dal capo Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio ha chiesto l’acquisizione di nuove prove a carico di Mori. Con l’obiettivo di dimostrare che anche quando era ufficiale di polizia giudiziaria «ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete, perseguendo finalità occulte, e per tale motivo ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali di lealtà istituzionale, traendo in inganno i magistrati».
Passato dal servizio segreto militare tra il 1972 e il 1975, quando i vertici del Sid furono coinvolti in trame golpiste e despistaggi, nel 2001 Mori assunse la direzione del Sisde, il servizio segreto civile. E in questa veste attivò il Protocollo Farfalla, operazione «per la gestione di soggetti di interesse investigativo» che secondo il pg Scarpinato aveva un «punto critico»: «La mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura, unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia secondo severe e garantiste disposizioni di legge».
Alla fine di luglio il governo ha annunciato di aver tolto il segreto di Stato dal protocollo. Ai magistrati di Palermo è giunto dalla Procura di Roma, alla quale l’aveva consegnato il successore di Mori al Sisde, Franco Gabrielli. Un appunto del Servizio datato luglio 2004 dà conto di una «avviata attività di intelligence convenzionalmente denominata Farfalla, attraverso l’ingaggio di preindividualizzati detenuti». Da mesi gli agenti segreti avevano verificato una «disponibilità di massima» a fornire informazioni da un gruppo di reclusi al «41 bis», il regime di carcere duro, «a fronte di idoneo compenso da definire». L’elenco comprende una decina di nomi tra appartenenti alla mafia, alla ‘ndrangheta e alla camorra da cui attingere notizie. Con alcune particolarità: «esclusività e riservatezza del rapporto», nel senso che gli informatori non potevano parlare con altri, né altri dovevano sapere della loro collaborazione; «canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio», per cui solo il Sisde avrebbe deciso se e quando avvertire inquirenti e investigatori, e di che cosa; «gestione finanziaria a cura del Servizio», con pagamenti «in direzione di soggetti esterni individuati dagli stessi fiduciari». Familiari dei detenuti, presumibilmente.
Tra i detenuti contattati ci sono quattro appartenenti a Cosa nostra. Tre dell’area palermitana: Cristoforo «Fifetto» Cannella, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio; Salvatore Rinella, della mafia di Caccamo, considerato vicino al boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che in quel periodo stava collaborando con la magistratura; Vincenzo Buccafusca. E poi il catanese Giuseppe Di Giacomo, del clan Laudani. Tra i calabresi viene indicato Angelo Antonio Pelle, mentre per i campani ci sono Antonio Angelino e Massimo Clemente, più qualche altro. I risultati dei contatti non si conoscono, né quanto siano costati. Per gli uomini dei Servizi è tutto legittimo, mentre per i pm palermitani è un ulteriore prova dell’attività «opaca e occulta» di Mori. Il quale, secondo il testimone Angelo Venturi (ex uomo del Sid oggi 84enne, coinvolto e prosciolto nell’indagine sul golpe Borghese), «gli propose di aderire alla loggia P2 di Licio Gelli e fu allontanato dai Servizi perché intercettava abusivamente il telefono d’ufficio del suo superiore Maletti (iscritto alla P2, ndr )». Uno degli informatori di Mori era Gianfranco Ghiron, fratello dell’avvocato Giorgio, difensore dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Lo stesso Ghiron ha fornito un appunto del 1974, «nel quale si fa riferimento a Mori, indicato col criptonimo “dr. Amici”, per comunicazioni urgenti concernenti la fuga di Licio Gelli, indicato come “Gerli”». Lì si diceva che se l’allontanamento dall’Italia del Gran Maestro «danneggiava Mr. Vito» — probabilmente Miceli, l’ex capo del Sid, piduista, arrestato poco prima — «fate in modo di fermarlo, se è meglio che se ne va, lasciatelo partire». L’elenco delle nuove prove indicate da Scarpinato e Patronaggio è talmente lungo da sembrare già una requisitoria; Mori in aula ascolta e prende appunti, affiancato dagli avvocati Basilio Milio e Enzo Musco. «Quando toccherà a noi parleremo e replicheremo», si limita a commentare l’ex generale. Che ha rinunciato alla prescrizione del presunto reato, decorsa da tempo, con la volontà dichiarata di inseguire un’assoluzione piena.
Giovanni Bianconi

 
Stato-mafia, si indaga sugli 007 in carcere
 QUELLO che fa paura a qualcuno non è il processo sulla trattativa Stato-mafia ma sono le nuove indagini su quel patto. Inseguono tracce dimenticate, incontrano altri personaggi immischiati nella tela dei ricatti fra gli apparati e i boss. Tutti appartenenti ai servizi segreti italiani. Appena l’inchiesta giudiziaria ha cominciato a scavare nei misteri dell’intelligence per le vicende stragiste del 1992, in quel momento, esattamente in quel momento, si è scatenata la caccia grossa al magistrato. C’è chi vuole seppellire per sempre bombe e morti.
Per capire cosa sta accadendo in questi mesi a Palermo bisogna mettere in fila i fatti e scoprire chi c’è dietro quell’ “Agenzia della Paura” che fabbrica falsi, imbecca testimoni, minaccia sostituti procuratori, invade fisicamente uffici super blindati, piazza microspie, spedisce lettere anonime con lo stemma della Repubblica italiana. I magistrati indagano sulle spie e le spie scivolano alle spalle dei magistrati. Questa è la guerra che si sta combattendo nell’ombra in Sicilia.
È un “metodo” che ritorna. Dopo più di 25 anni dall’attentato all’Addaura (e nessuno ci ha ancora spiegato chi sarebbero state quelle “menti raffinatissime” alle quali alludeva Giovanni Falcone subito dopo il tentativo di ucciderlo con la dinamite), sono sempre gli stessi a provocare quello stato di fibrillazione permanente ogni qualvolta un’inchiesta fuoriesce dai tradizionali binari della Cosa nostra nuda e pura per inoltrarsi nelle complicità in alta uniforme.
Sono loro ancora oggi – come allora, quando tenevano sotto controllo le linee telefoniche di Falcone – a spadroneggiare nelle stanze della procura generale e lasciare missive minatorie («Ti raggiungiamo ovunque») a Roberto Scarpinato. Quelli che rubano dalla scrivania di casa una chiavetta al pubblico ministero Roberto Tartaglia (lì dentro aveva dati appena acquisiti a Forte Braschi, il quartiere generale del servizio segreto per la sicurezza esterna) o che sabotano la centralina elettrica dell’abitazione del sostituto Nino Di Matteo. Un avvertimento dopo l’altro, un’ “operazione” partita quando in procura c’era ancora Antonio Ingroia e che non si fermerà certo con la scorribanda contro Roberto Scarpinato. «Sembra firmata», si è lasciato sfuggire il procuratore Vittorio Teresi. Sembra? È firmatissima. Nel linguaggio, nello stile grafico (simile se non identico ad altre minacce arrivate recentemente via lettera), scritta allo stesso tipo di computer e probabilmente nello stesso luogo. Chi l’ha recapitata, violando rigidi controlli e guardie armate, sapeva bene che su quella lettera stava lasciando le sue impronte digitali. È la guerra psicologica, sono gli specialisti della strategia della tensione che avvisano i pubblici ministeri: state attenti, sappiamo tutto di voi, cosa fate, dove indagate, cosa cercate.
Le incursioni dell’ “Agenzia” si sono intensificate proprio quando le nuove indagini hanno virato. Rovistando nel labirinto losco delle carceri, individuando le scorrerie degli 007 nei bracci del 41 bis per invitare mafiosi al loro servizio. Smascherando falsi testimoni come quel Flamia, ufficialmente amico di Provenzano ma in realtà agganciato dagli spioni tanto tempo prima. Svelando sempre di più la figura di Mario Mori, colonnello del Ros negli anni delle stragi, poi capo del servizio segreto civile quando Berlusconi era presidente del Consiglio, ma anche con una militanza nel vecchio Sid, nome in codice “dottor Giancarlo Amici”.
A Palermo hanno acquisito carte sulla Falange Armata e su quelle inquietanti rivendicazioni dopo le bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, a Caltanissetta cercano ancora l’uomo “estraneo a Cosa Nostra” che caricò di tritolo – insieme a Gaspare Spatuzza – l’utilitaria che fece saltare in aria Paolo Borsellino. E cercano ancora anche l’agenda rossa. Ecco su cosa stanno indagando i magistrati che sono sorvegliati passo dopo passo.
Tutte attività investigative che non sono orientate su Totò Riina e il suo esercito di corleonesi ormai in disfatta, ma sull’altro volto della mafia. Toccano fili di alta tensione istituzionale. Si può indagare su Cosa Nostra ma lì bisogna fermarsi. Territorio nemico.
Un ultimo capitolo di questa guerra riguarda gli sproloqui di Totò con quell’Alberto Lorusso, un mezzo balordo senza quarti di nobiltà criminale ma a quanto pare molto vicino a certa sbirraglia. Perché Riina parla con lui? Perché parla pur sapendo di essere ascoltato? A chi sono destinate le sue invettive? La partita si sta giocando anche attraverso i “discorsi” di Totò Riina e di chi li ispira. Una parte ancora inedita dei suoi comizi nel carcere di Opera è sul famigerato covo del boss e sulla misteriosissima mancata perquisizione. Incalzato da Lorusso il capo dei capi a un certo punto dice: «Perché… perché…non ho potuto mai capire io…perché sospendono questa (la perquisizione, ndr)».
Dopo più di 20 anni non lo sa ancora neanche lui. Se i magistrati di Palermo vogliono davvero scoprire qualcosa di più sulla trattativa Stato-mafia dovrebbero ricominciare da lì, da quel covo. Di sicuro nessuno ci ha mai raccontato tutto. Né i carabinieri naturalmente, quelli che fecero credere di sorvegliarlo e poi furono assolti dall’accusa di favoreggiamento «perché il fatto non costituisce reato». Né le carte degli stessi magistrati, ricostruzione imperfetta di ciò che avvenne la mattina del 15 gennaio del 1993, giorno della cattura di Riina. Né l’ex procuratore Caselli che – ancora oggi – non dà chiarimenti sufficienti sul perché non fu aperta subito un’indagine quando la casa di Riina fu svuotata. L’inchiesta venne aperta solo 4 anni e 9 mesi dopo. Troppo tardi.

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