Storia & Memoria

La mostra Le fotografie per ripercorrere il cammino di una protagonista del Novecento: «Rossana Rossanda. La ragazza del Novecento» Roma, Casa internazionale delle donne, fino al 16 Febbraio 2025

 

Rossana Rossanda. La ragazza del Novecento 1924-2024: si intitola così la mostra fotografico-documentaria curata dall’Istituto veneziano della storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser) per il centenario della nascita di Rossanda che sarà a Roma, alla Casa internazionale delle donne dal 17 gennaio al 16 febbraio e poi a Milano, alla Casa della memoria, dal 4 marzo al 13 aprile. Una mostra che nasce dalla donazione fatta da Doriana Ricci all’Iveser della biblioteca, di un fondo fotografico e di alcuni mobili di Rossana Rossanda e dalla volontà di condividere la riflessione e le idee che quel materiale, custodito nelle «Stanze di Rossana» allestite per accogliere la donazione, aveva originato.

La mostra illustra il periodo già oggetto dalla autobiografia di Rossanda, La ragazza del secolo scorso (Einaudi 2020) una delle più significative memorie – un romanzo di formazione –, pubblicate negli ultimi decenni, e ne ripercorre il percorso biografico. Si illustra così la storia familiare di Rossanda dall’Istria verso l’Italia; il difficile distacco dai genitori nel momento della crisi economica e la vita veneziana di Rossanda e della sorella Marina a Venezia, presso una zia materna, negli anni Trenta; l’approdo e gli studi a Milano; il tempo della Resistenza; l’ingresso nel Pci e l’esperienza nell’Associazione Italia-Urss; la direzione della Casa della Cultura di Milano; l’impatto dei fatti del 1956; la svolta degli anni Sessanta; il passaggio a Botteghe Oscure; il 1968 e, infine, la radiazione dal Partito, con un approfondimento finale su Rossanda e Venezia negli anni Sessanta.

Se inizialmente l’obiettivo della mostra era restituire le immagini, grazie soprattutto alle foto di famiglia conservate all’Iveser, di quel percorso già raccontato a parole, progressivamente il lavoro di storicizzazione della vicenda di Rossanda ha condotto anche a inquadrare diversamente certi passaggi ed eventi.
Alcuni nodi sono emersi come particolarmente importanti. Innanzitutto, la ricerca per la mostra ha permesso di evidenziare una presa di posizione politica di Rossanda, insieme ad altri intellettuali milanesi – e la conseguente reprimenda di Secchia – nel 1956, che nell’autobiografia non emerge. Nel volume, Rossanda racconta invece solo il disagio, anche personale, di fronte a quegli avvenimenti, e il tentativo di tenere aperto il dialogo, tra le diverse correnti intellettuali e culturali della sinistra che facevano capo alla Casa della Cultura. Si tratta di un passaggio fondamentale per illustrare un percorso politico che trova nel 1968-69 un suo momento di definizione, ma che ha origini lontane.

Un altro approfondimento significativo è stato possibile attraverso l’indagine nell’archivio della Casa della cultura di Milano, che ha permesso di sostanziare il ruolo di organizzatrice culturale di Rossanda e i diversi rapporti intrattenuti da quest’ultima con l’élite della cultura e della politica milanese, italiana, e talvolta internazionale, del momento. Nella mostra abbiamo proposto uno scambio di Rossanda con Italo Calvino, del gennaio 1962, che testimonia l’ironico ma affettuoso interesse della direttrice della Casa della Cultura per la cosiddetta «associazione degli ex e simpatizzanti», e la proposta di ricomporre la ferita del 1956 con un rientro nel partito. Segno di un groviglio di riflessioni intorno al ruolo del partito e al suo rapporto con gli intellettuali, che era in pieno svolgimento in quel decennio.

Non meno importanti, ma parte di una storia più conosciuta, la selezione di documenti dedicati alla nascita del manifesto e alla radiazione dal Pci. Una vicenda sulla quale ci fa riflettere anche la lettera di Massimo Mila a Luigi Nono, del gennaio 1966, conservata all’archivio della Fondazione Nono, e qui riprodotta, in cui si fa riferimento al ‘siluramento di Rossana Rossanda’ già in quella data, nell’ambito di una discussione tra i due intellettuali che ha a che fare proprio con i modi e le forme della politica culturale del partito.
Si tratta solo di tre piccoli episodi di un percorso molto più ampio che permettono di ragionare su un nodo essenziale della vicenda di Rossanda, che è quello del rapporto tra intellettuali e politica, e tra autonomia e appartenenza che appare cruciale in un’Italia e in un’Europa attraversate da un conflitto politico durissimo. Le foto poi permettono di ritrovare un’aria del tempo, e il personale porsi di Rossanda rispetto a quel contesto, nella fisicità degli atteggiamenti, delle posture, dell’abbigliamento. Ma anche di rivedere Rossanda in alcuni viaggi importanti, primo tra tutti quello a Cuba con il suo compagno Karol, nel 1967, dove incontrò e dialogò con Fidel Castro e Che Guevara, e che è qui ripercorso anche attraverso alcune corrispondenze e articoli su Rinascita.

La mostra è stata per noi soprattutto un’occasione di riflettere sulle condizioni particolari grazie alle quali una protagonista del Novecento come Rossanda sia diventata una delle più significative figure politiche e intellettuali del paese.

***

Il programma della mostra fotografica
«Rossana Rossanda La ragazza del Novecento» Roma, 17 Gennaio-16 Febbraio, Sala Ingargiola – Casa Internazionale Delle Donne, Via della Lungara, 19, h10- 19, ingresso libero (in streaming (rossanarossanda.it) Inaugurazione 17 Gennaio 2025 h 18:00 con Giulia Albanese, Loretta Bondì, Maura Cossutta, Andrea Fabozzi, Francesco Giasi, Massimiliano Smeriglio, coordina Doriana Ricci; «Noi, le altre» 1 febbraio ore 17 con Simona Bonsignori, Lidia Campagnano, Michela Cicculli, Carlotta Cossutta, Alisa Del Re, Vinzia Fiorino, Chiara Giorgi, Ludovica Jaus, Alessandra Pigliaru, coordina Maria Palazzesi;«Rossana Rossanda a Roma: politica e giornalismo) 12 Febbraio h 17:30 con Maria Luisa Boccia, Luciana Castellina, Ida Dominijanni, Gabriele Polo, coordina Chiara Giorgi

* Fonte/autore: Giulia Albanese, il manifesto

Il 9 gennaio di 75 anni fa la polizia spara sui manifestanti che scioperano contro i licenziamenti alle Fonderie Riunite. Sei morti, centinaia di feriti. E in tutta Italia scoppia la protesta

 

Il 9 gennaio del 1950 a Modena si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. Una vertenza sindacale. Come tante nella storia del nostro Paese. In questo caso, però, restano uccisi sei scioperanti, tutti per colpi d’arma da fuoco esplosi dalle forze dell’ordine: Angelo Appiani (meccanico ed ex-partigiano di 30 anni), Renzo Bersani (operaio metallurgico di 21 anni), Arturo Chiappelli (spazzino disoccupato di 43 anni), Ennio Garagnani (carrettiere nelle campagne di Gaggio di 21 anni), Roberto Rovatti (fonditore di 36 anni) e Arturo Malagoli (operaio ed ex-partigiano di 21 anni).

SEI MORTI e centinaia di feriti. La città è sconvolta, ma nel pomeriggio le organizzazioni sindacali e i partiti della sinistra tengono ugualmente il loro comizio. In una Piazza Roma circondata dalla forza pubblica parlano il senatore socialista Alcide Malagugini, Sergio Rossi per la Camera del lavoro e Attilio Trebbi per la Fiom.

In tutto il Paese vengono organizzate proteste e scioperi generali e la contestazione arriva anche in parlamento dove, il 31 gennaio, la deputata modenese Gina Borellini – Medaglia d’oro al valor militare, una delle 19 donne italiane decorate (quasi tutte alla memoria) con la massima ricompensa militare per la loro attività durante la lotta di Liberazione – esprime la sua indignazione con un gesto plateale: con molta difficoltà, in quanto amputata ad una gamba, si alza dal suo scranno e affermando «in quel banco siedono degli assassini» raggiunge i banchi del governo per lanciare le foto degli operai morti in faccia al presidente del consiglio Alcide De Gasperi e al ministro Scelba.

La Cgil, al termine della riunione straordinaria del suo esecutivo del 10 gennaio, dirama un veemente comunicato di protesta. Esplode la rabbia popolare.

«Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!», titolerà l’Unità fotografando quanto accaduto nelle ore precedenti.
«Affoga nel sangue il governo», chioserà l’Avanti!.

«Il mitra facile e la poltrona comoda» è il titolo del Giornale della Sera; «Ai vivi in nome dei morti» il fondo di Sandro Pertini su l’Avanti! del 10 gennaio.

E non sono soltanto i giornali della sinistra a condannare.

In città accorrono insieme a Palmiro Togliatti e Giuseppe Di Vittorio (al suo fianco un giovanissimo Luciano Lama) i vertici nazionali del Pci, del Psi, della Cgil.

IL GIORNO DEI FUNERALI, l’11 gennaio, la risposta è ferma, la partecipazione popolare imponente ma composta, rigorosamente diretta dalle organizzazioni politiche e sindacali.

Togliatti «mostra in pubblico un turbamento autentico e inusitato» che viene notato da molti che gli sono vicino (diversi dicono di averlo visto piangere). Per l’Unità scrive un cronista d’eccezione: Gianni Rodari. «Le bare – dirà – erano portate a spalla da operai, ferrovieri tranvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli».

Dal palco parlano il sindaco di Modena, Alfeo Corassori, e il segretario della Camera del lavoro, Arturo Galavotti, poi Giuseppe Di Vittorio, Pietro Nenni e infine Palmiro Togliatti.

«L’eccidio di Modena pesa – tornerà a dire una settimana più tardi dalle colonne di Lavoro il segretario della Cgil – e continuerà a pesare per lungo tempo sulla vita italiana. Se De Gasperi e Scelba credono che si tratti d’un semplice “incidente”, d’un fatto di cronaca che sarà presto dimenticato, si ingannano. Il raccapriccio per questo orrendo massacro, diviene più acuto ed implacabile quando si pensa che non si tratta d’un fatto isolato, accidentale. Il numero dei lavoratori uccisi, in soli due mesi, è salito a quattordici! È un primato, un ben triste primato Non un incidente, quindi, ma un sistema, un metodo, una politica».

UN SISTEMA, un metodo, una politica. Una pagina tristissima della nostra storia che però si chiude con una nota di speranza.
Togliatti deciderà infatti, insieme alla compagna Nilde Iotti di adottare – in realtà un affidamento per motivi di studio – una bambina di sei anni e mezzo, Marisa Malagoli, sorella di Arturo.

«Il giorno in cui venne ucciso ricordo che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata – dirà – Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c’era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c’era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all’obitorio dell’ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti».
Il processo – intentato peraltro solo contro alcuni operai che avevano partecipato alla manifestazione – dimostrerà in modo inequivocabile «l’uso frettoloso delle armi da fuoco» da parte della polizia, la mancanza di giustificazioni per un intervento armato e pesanti responsabilità del prefetto e di altri funzionari di polizia. La magistratura – fatto mai successo in precedenza in Italia – ordinerà un risarcimento alle famiglie dei caduti.

«IO NON C’ERO – scriveva qualche tempo fa Arturo Ghinelli – per il semplice motivo che ero ancora nella pancia di mia madre. Infatti sono nato sei mesi dopo, l’undici luglio. Ma quello che successe quella mattina di gennaio influenzò non poco la mia vita. Il mio stesso nome viene da lì. Io mi chiamo Arturo perché tra i sei operai uccisi dalla polizia davanti alle Fonderie c’era mio zio Arturo Malagoli, fratello di mia madre. Arturo aveva 21 anni, mia madre 23. Per molti anni della mia vita io non sono stato altro che “il figlio della Malagoli”. Anche perché la cosa non si è fermata lì. In conseguenza di quella tragedia famigliare, Togliatti e la Iotti decisero di adottare mia zia Marisa. Così fino a quando abitammo nella vecchia casa popolare di via Como, sul mio letto non c’era la Madonna ma il quadro con il ritratto di mio zio, a cui aggiunsi la foto di Togliatti quando morì nel ’64.

Riflettendo penso di aver capito perché mi è sempre piaciuto studiare e poi insegnare storia. Tuttavia non ho mai insegnato ai miei ragazzi gli avvenimenti del 9 gennaio 1950, perché mi sento troppo coinvolto emotivamente. Una sola volta mi è scappato detto: “Un mio zio è stato ucciso dalla polizia”. Perché era un ladro?, mi hanno chiesto. No, mio zio non era un ladro. Mio zio era un lavoratore che lottava per ottenere il diritto al lavoro per tutti come dice l’articolo 1 della Costituzione».

Come dice l’Articolo 1 della nostra Costituzione. Repubblicana, democratica e antifascista. Figlia della Resistenza e della Liberazione.

* Responsabile archivio storico Cgil nazionale

Fonte/autore: Ilaria Romeo, il manifesto

L’uso ipertrofico della penalità per governare le questioni sociali attuali è figlio della legislazione di emergenza della fine degli anni ‘70. Storicizzare e superare questa concezione significa asciugare il terreno democratico da quel panico sociale che ha favorito il prosperare delle destre

 

Il rinvio a giudizio di alcuni ex-brigatisti ottuagenari, tra cui spicca il fondatore, Renato Curcio, per la sparatoria avvenuta alla Cascina Spiotta il 5 giugno 1975, in cui persero la vita il brigadiere D’Alfonso e la brigatista e moglie di Curcio, Mara Cagol, suscitano alcune riflessioni su amnistia storica e amnesia politica. La vicenda marcia di pari passo all’arresto, poi annullato, dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi a Buenos Aires.

Giorgio Agamben, nel suo lavoro Stasis (Bollati Boringhieri, Torino, 2015), analizza il nesso che sussiste tra l’amnistia e l’amnesia. Quando si sceglie di svuotare gli eventi politici della loro valenza penale, lo si fa per dimenticare le conseguenze che questi ebbero sulla comunità che, in nome del ripristino di un minimo di convivenza civile, sceglie di non procedere nei confronti di chi viene ritenuto responsabile di disordine, sovversione, atrocità.

Nel caso italiano, l’amnistia varata nel 1946 dall’allora Guardasigilli-segretario del Pci, Palmiro Togliatti, si prefigurò come un tentativo di stemperare le tensioni createsi in seguito alla dittatura fascista, alla guerra, alle vessazioni subite dalla popolazione in seguito all’occupazione nazista, con l’attiva collaborazione dei repubblichini. Si trattò di un provvedimento discusso, che consentì agli ex-fascisti di reintegrarsi nella vita civile senza rendere conto delle loro condotte, mentre la giustizia penale continuò a perseguitare i partigiani. I risentimenti, mal sopiti, continuarono a serpeggiare a lungo all’interno della nostra società. Si trattò di un’amnesia/amnistia di tipo giudiziario, ma di una vera e propria rimozione sul piano politico e sociale.

In Sudafrica, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita dal primo governo post-apartheid, scelse di seguire un percorso diverso, proprio allo scopo di smussare i risentimenti che allignavano dopo oltre 40 anni di politiche attive di discriminazione razziale. I protagonisti di quella stagione decisero di accettare l’invito della Commissione parlamentare, presentandosi per ammettere e confessare le loro responsabilità in cambio dell’impunità. Si tratta, tuttora, di un caso unico, che è servito ai sudafricani per avviare un percorso di elaborazione del trauma che quella tragica esperienza politica comportò.

Nel caso sudafricano, a differenza di quello italiano, ci troviamo di fronte a un approccio che si muove sul solco dell’amnesia agambeniana. Agamben, infatti, inquadra il percorso di amnesia/amnistia all’interno del processo di creazione di un equilibrio statico, che si mantiene fino all’erompere di un nuovo conflitto. In Sudafrica si è tentato di produrre la stasi del conflitto separando la sfera giudiziaria, investita dell’amnesia, da quella politica, dove l’amnistia è filtrata da un’elaborazione collettiva che tira in ballo la memoria. Non si tratta però di quella “memoria condivisa” che la destra italiana vorrebbe imporre per sminuire la Resistenza e rivalutare il Fascismo. Se in Sudafrica è stato possibile intraprendere questo percorso, è perché la minoranza boera che prosperava sotto l’apartheid ha accettato che il vecchio regime rappresentasse un’istituzione iniqua e inumana. Su questo terreno, le parti, hanno tenuto le loro posizioni e accettato di raccontarsi, senza confrontarsi.

Nel caso della lotta armata che caratterizzò il panorama politico degli anni ‘70, non si riesce a raggiungere né la soluzione togliattiana, né quella sudafricana. Soprattutto, a oltre quarant’anni dalla fine di quella esperienza, non si riesce a darle una collocazione definita all’interno delle rappresentazioni collettive. Diviene necessario interrogarsi sulle ragioni che impediscono che anche in Italia, rispetto agli anni ‘70 si crei, come nel caso sudafricano, un delicato equilibrio tra memoria politica e oblio giudiziario.

Innanzitutto, rispetto ai due casi summenzionati, in Italia assistiamo a una sproporzione tra le forze in campo. Dalla sinistra alla destra dello spettro politico istituzionale, tutti concordano nel demonizzare le vicende politiche dell’epoca. Se da un lato è incontestabile che il progetto portato avanti dai gruppi eversivi di estrema sinistra, in particolare nel caso delle BR, abbia prodotto conseguenze estremamente negative, dall’altro lato si rinuncia a fare chiarezza sulle cause e le conseguenze. Per esempio, si sorvola sulla repressione di piazza portata avanti dall’approvazione della legge Reale in poi, si rimuove la portata della legislazione speciale, si sorvola su esperienze giuridico-penale aberranti, come la vicenda del 7 aprile, mentre solo recentemente è affiorato il caso del cosiddetto “professor De Tormentis”, vero e proprio ideologo e tecnologo delle torture ai danni dei membri, presunti ed effettivi, delle formazioni armate.

In secondo luogo, la rimozione della complessità politica degli anni ‘70, marcia di pari passo a una demonizzazione delle formazioni di estrema sinistra, armate o meno, che si articola su due piani. Il primo è quello dell’accusa di fanatismo, a partire da episodi di scontri che si conclusero con le morti di esponenti neofascisti, come il caso Ramelli o la vicenda di Acca Larenzia. Il secondo piano è quello del complottismo, che gravita attorno a una nutrita letteratura dietrologica che, sulla base di illazioni, mira a dimostrare l’esistenza di un filo diretto tra le organizzazioni eversive e centrali di potere occulte, possibilmente straniere.

Si tratta di due letture che danno spazio alla destra, sia quando collocano il fanatismo a sinistra, dimenticando la ferocia e l’approccio intimidatorio e prevaricatore dei neofascisti, sia quando dipingono BR, Prima linea e altre formazioni come le quinte colonne di agenti stranieri. In quest’ultimo caso, ci si dimentica delle stragi avvenute da Piazza Fontana in poi, con le inchieste giudiziarie che hanno dimostrato l’esistenza di un certo livello di collateralità tra apparati deviati dello Stato, neofascisti italiani e stranieri, potenze estere. In altre parole, laddove in Sudafrica gli attori in campo hanno mantenuto la loro memoria, in Italia si è creata una memoria condivisa, egemonizzata dalla destra, che continua ad attribuire alla sinistra, in particolare alle formazioni più estreme, la responsabilità delle degenerazioni della politica italiana contemporanea. Un’egemonia pericolosa, che rischia di alterare il tessuto democratico del Paese.

In terzo luogo, bisogna chiedersi perché gli anni ‘70 rappresentano ancora oggi il convitato di pietra della politica italiana, attorno al quale si costruiscono carriere, consensi elettorali, audience mediatiche. Un primo assaggio si ebbe con la cattura di Cesare Battisti, accolto al rientro in Italia dall’allora Ministro dell’Interno, che lo ostentò come un trofeo. Oggi assistiamo alla magistratura che istruisce un processo contro due ottuagenari, sorvolando sul fatto che già fossero stati assolti per lo stesso reato. Il fatto che la sentenza di assoluzione sia andata persa, agevola il loro compito, mentre non si fa luce sulle dinamiche della morte di Mara Cagol. Assistiamo a uno scambio di favori tra la premier e il suo nuovo alleato argentino, che aveva tentato di forzare la magistratura revocando lo status di rifugiato a una persona di 73 anni, da oltre 40 anni estraneo alle vicende della lotta armata. Perché tutti, a destra e a sinistra, pescano ancora negli anni ‘70?

La risposta la si può ottenere percorrendo una strada che, focalizzando le questioni giudiziarie, parte dal contesto contemporaneo per arrivare al decennio in questione. Il securitarismo, con l’uso ipertrofico della penalità per governare le questioni sociali attuali, è figlio della legislazione di emergenza della fine degli anni ‘70. Fu allora che i conflitti sociali vennero letti come fenomeni delinquenziali, che si enfatizzò l’importanza delle forze di polizia, che si potenziò il ruolo suppletivo della magistratura. Le formazioni armate ci misero senza dubbio del loro, compiendo omicidi insensati ed efferati ai danni di esponenti dell’apparato statale, ma queste tragiche vicende rappresentarono il pretesto per promuovere un legalitarismo declinato in senso repressivo, attraverso il conferimento di un ruolo eccessivamente centrale all’apparato giudiziario-penale.

La legalità a tutti i costi, sin da quegli anni, venne declinata come una questione di moralità, trasversale a tutte le classi sociali e a tutti gli interessi. Una narrazione che incrociò agevolmente quella sull’insicurezza diffusa all’inizio degli anni ‘90, finendo, in assenza di filtri politici e ideologici adeguati, per generare quel panico morale a cui hanno attinto a man basse nel corso degli anni la Lega, i 5 Stelle, Fratelli d’Italia. Uscire dagli anni ‘70 significherebbe prosciugare il terreno di coltura per queste forze, ma anche per chi, più a centro o a sinistra, o negli interstizi degli apparati di Stato, persegue pervicacemente un legalitarismo ormai esangue, che continua però a deteriorare la vita pubblica italiana. Rovesciando lo schema agambeniano, in Italia ci troviamo di fronte alla memoria (condivisa) giudiziaria, e all’oblio della politica. Sarebbe ora di assumerne consapevolezza.

* Fonte: Vincenzo Scalia, Centro Riforma dello Stato

Venezia 81. Nella sezione dei classici restaurati torna «Il terrorista», del 1963: la Resistenza dietro le quinte, con Gian Maria Volonté

 

Alla fine degli anni Cinquanta, nel quadro politico italiano si sta avviando il processo di riequilibri di potere e di alleanze che darà vita, dopo la caduta del governo Tambroni nel ‘62, alla coalizione governativa di centro-sinistra nel ‘63. Vi è nel Paese una forte ripresa della produzione industriale, un vero e proprio boom economico. Negli studi di Cinecittà il clima è però ancora da «guerra fredda»: i partigiani e la Resistenza sono per lo più sinonimi di comunismo ed evitando di mettere in scena il tema ci si sottrae anche da possibili noie censorie e politiche. Meglio raccontare altro. Tuttavia, alla XX Mostra del cinema di Venezia del 1959 vince il Leone d’oro, in ex-aequo con La grande guerra di Mario Monicelli, Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini dove più che il coraggio antifascista sembra prevalere l’improvvisato orgoglio emotivo.

Il successo del film di Rossellini è comunque un segnale per i produttori cinematografici, e a Cinecittà si riprendono immediatamente le fila del discorso resistenziale e della dittatura mussoliniana. Nel 1960, con le manifestazioni antifasciste di Genova e i dimostranti uccisi dalla polizia in varie città italiane, nei cinema si proiettano La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, Era notte a Roma di Rossellini, Il carro armato dell’8 settembre di Gianni Puccini, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di Luigi Comencini, Il gobbo di Carlo Lizzani, ai quali seguiranno La ragazza di Bube di Luigi Comencini, La mano sul fucile di Luigi Turolla, Il processo di Verona di Lizzani, La marcia su Roma di Dino Risi, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. Una «nuova ondata», quasi inaspettata ma forse figlia di un momento di profonda trasformazione della storia del Paese.

Il limite di questa seconda ondata è, tranne in alcuni casi, la connotazione da commedia, oscillando spesso tra la satira e la farsa, rinunciando, sempre con le dovute eccezioni, a un autentico approfondimento, a una rielaborazione critica e autocritica di quanto era accaduto. I conti con la dittatura vengono saldati male, senza puntare il dito sui colpevoli che magari continuano a spadroneggiare nel paese, evitando di mettere in luce le connivenze, la strategia degli interessi grandi e piccoli che avevano sorretto dapprima il fascismo, poi la Repubblica sociale italiana e infine il blocco conservatore democristiano. Più che ricordare e fare i conti con il passato, gli italiani vogliono dimenticare: sottolineiamo, che, tranne Il gobbo di Lizzani, dal discreto successo di pubblico, gli altri film incassano cifre piuttosto modeste, segno di un Paese anestetizzato dai crescenti consumi.

Alcuni dei film dei primi anni Sessanta tentano comunque un discorso diverso sulla Resistenza da quello affermatosi nella prima ondata che, per un brevissimo periodo, aveva assunto il ruolo di riferimento per la legittimazione reciproca delle forze politiche, una sorta di nuovo pactum associationis, e diventato ben presto un limite divisorio. Il paradigma antifascista, elemento comune di una possibile identità dopo il trauma del fascismo, aveva vissuto lo spazio di un fulgido mattino, forse solo quanto era bastato per scrivere la carta costituzionale e piangere tutti assieme commossi per la morte di Pina in Roma città aperta. Poi, era sceso velocemente il silenzio.

Uno dei film che nel 1963 cambia il paradigma cinematografico resistenziale è Il terrorista di Gianfranco de Bosio. Il regista veronese porta sullo schermo la figura di un gappista veneziano, apparentemente legato al Partito d’azione, ma solitario ed insofferente alle ragioni della politica, agli equilibri all’interno del Comitato di liberazione nazionale (Cln), alle conseguenze dei suoi gesti. È pervaso da un furore che si trasforma in azioni «terroristiche» contro i nazifascisti: un cane sciolto da quelle dinamiche politiche che già strutturavano la lotta partigiana e poi il dopoguerra repubblicano.

Il terrorista è uno dei pochi film, se non l’unico, che analizza e mette in scena in modo accurato ciò che stava «dietro le quinte» della Resistenza e cioè l’organizzazione politica e non solo militare della lotta antifascista. Ed è forse il primo, autentico, film resistenziale; di sicuro il più anomalo anche rispetto agli esordi cinematografici di quegli anni.

De Bosio conosceva bene, e non per sentito dire, la lotta partigiana nel Veneto e a Venezia. Studente all’università di Padova, dopo il proclama del rettore Concetto Marchesi, decide di aderire dapprima al Cln universitario e poi ai Gruppi di azione partigiana, piccole formazioni cittadine isolate in una clandestinità assoluta. Il Gap è comandato da Otello Pighin (nome di battaglia Renato), un ingegnere tra i primi organizzatori della Resistenza, che, caduto in un’imboscata l’otto gennaio del 1945, viene torturato e fucilato. Anche il giovane de Bosio è arrestato nel marzo del 1944, ma viene rilasciato (o, forse, riesce a scappare) e inviato da Igidio Meneghetti a Verona ad organizzare la lotta partigiana.

Il terrorista nasce per volere della «22 Dicembre», la società di produzione fondata, appunto, il 22 dicembre del 1960, da Tullio Kezich, Ermanno Olmi, Alberto Soffientini e Filippo Meda, i quali chiesero a de Bosio, fino ad allora regista teatrale, di proporre alla società un soggetto cinematografico per un film da produrre. De Bosio si mette subito al lavoro assieme a Luigi Squarzina per passare dal soggetto alla sceneggiatura. Nella sceneggiatura i ricordi del regista del periodo resistenziale entrano prepotentemente nel tono complessivo del racconto. Sono citati, seppure in modi e tempi diversi dai fatti reali, due importanti avvenimenti accaduti a Venezia tra il luglio del ’44 e la primavera del ’45. Il primo, con il quale si apre il film, è l’attentato a Ca’ Giustinian del 25 luglio del 1944 al quale partecipa, ed è ormai assodato, anche Franco «Kim» Arcalli, futuro montatore cinematografico e sceneggiatore di fama. Il secondo avvenimento, citato verso il finale del film, è la fucilazione, il 3 agosto del ’44, nell’allora riva dell’Impero, di sette detenuti politici come rappresaglia al presunto assassinio di un militare tedesco (probabilmente annegato casualmente).

Il tono che permea tutto il film è invernale, grigio, segnato da una profonda solitudine e dall’assenza. Venezia, la città minore e marginale che fa da set al film, è svuotata, piovigginosa, lontana. Vi domina un profondo senso di vuoto, come se i partigiani si muovessero in una zona morta, da soli, o, al massimo, in contatto solamente con altri partigiani. È la stessa dimensione de Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, la stessa solitudine, dei due ex partigiani de I nostri anni di Daniele Gaglianone (non a caso, crediamo, due film girati nel 2000, un periodo in cui la Resistenza torna ad essere «memoria inquieta»): è come se il «corpo» della Resistenza si trovasse al di fuori della società quotidiana, dei suoi piccoli problemi d’ogni giorno in un isolamento oltre che fisico, psicologico, interiore, di chi sa che la sua scelta pericolosa e coraggiosa non può che portarlo fuori del corpo sociale, ma dentro la Storia.

Il terrorista è ambientato nel dicembre del ’43, siamo agli inizi della Resistenza armata, quando i Gap e i Cln si stanno dando una struttura. Nel film, vi è il conflitto che travolge il dibattito tra le componenti del Cln tra liceità o meno della violenza; vi è la dialettica tra le forze politiche antifasciste che già prelude a ciò che accadrà nel dopoguerra, ai suoi assetti; vi è l’impossibilità per alcuni individui, Braschi ad esempio, di entrare in questa logica. Interpretato da Gian Maria Volonté, Braschi è, per esplicita ammissione del regista, ispirato alla figura di Otello Pighin la cui filosofia era «un attentato al giorno per non dare riposo al nemico» e per ricordare costantemente ai nazifascisti che non erano benvoluti ma odiati. Braschi è fuori dalle logiche politiche, dalle alchimie dialettiche e ideologiche, ed è inoltre scettico nei confronti del futuro, nella possibilità di una libertà autentica. È un «terrorista», e non propriamente un eroe: si rifiuta costantemente di tener conto della necessità di collegarsi con gli altri partigiani, non ha alcuna cautela, non si preoccupa delle possibili rappresaglie.

Nel suo agire compie errori madornali per un resistente in clandestinità, come dimenticare l’indirizzo di Oscar a casa propria, o attuare azioni un po’ goliardiche, anche se giustificate, come far saltare in aria l’altoparlante che in campo Santa Maria Formosa trasmette i proclami nazifascisti, o peggio, sostituire all’ultimo minuto un compagno per l’azione dinamitarda alla sede de Il Gazzettino con risultati disastrosi. È proprio la costruzione antieroica accompagnata da un rigore morale autentico e da un’intransigenza senza possibilità di compromesso, che rende il personaggio interpretato da Volonté quello che ha più caratura drammatica e anti didascalica.

Quando Braschi spiega alla moglie, nel solo momento di tregua e di «normalità» del film, le ragioni delle sue difficili scelte, si capisce quale sia la funzione etica e politica che de Bosio vuole dare al personaggio: «Venti, trent’anni dopo che questo sarà finito… Perché ormai è chiaro, ci si fa… Chissà con che perdite ancora ma ci si fa… Se dopo ci sarà di nuovo un periodo che la gente si lascerà addormentare… Anestetizzare… Da un po’ di pace e di abbondanza… L’abbondanza e la pace fanno comodo a tutti… E magari per una questione di pane e minestra si sarà pronti a dare via tutto un’altra volta… La libertà un’altra volta… Allora… C’è solo la lotta. E siamo in pochi. Maledettamente pochi».

In più interviste, il regista ha ribadito che non era un dialogo impossibile nel ’43, e che gli interrogativi sul futuro, un certo scetticismo sulla possibilità di costruire una democrazia dalle basi solide, libertarie, circolava tra i partigiani. È probabile sia così, ma le parole chiaroveggenti di Braschi sono verosimilmente quelle di quanti, nel Sessanta, vedevano lo spirito della Resistenza affievolirsi e le speranze tramontare, e percepivano che di fronte al nascente benessere economico, «il piatto di minestra», gli italiani accettavano senza tanti problemi la lunga stagione conservatrice democristiana.

Il terrorista, ma anche a suo modo Chi lavora è perduto di Tinto Brass, sono film che, seppure con toni differenti e motivazioni drammaturgiche incomparabili, fanno affiorare il malessere nei confronti della situazione politica del paese, con il Pci alla finestra, il Psi che si prepara ad accodarsi alla stagione riformistica della Dc, e la breve, quanto intensa, stagione ciellenistica chiusa in un battibaleno e coronata solo da una costituzione che appare a molti solo una carta dei sogni. Quei film richiedono anche, implicitamente, che il dibattito storiografico sul fascismo e sulla resistenza riprenda su basi nuove, per poter essere liberati dal peso «politico» ed estetico del neorealismo (Brass, in particolare), dalla necessità pedagogica, dalla sacralizzazione del passato e del presente.

Gli anni attorno al 1960 chiudono sì idealmente lo sforzo collettivo della ricostruzione del dopoguerra e dell’elaborazione dei lutti – «la nottata è passata», direbbe Eduardo – ma il mattino si presenta irrisolto e pieno di contraddizioni. È il passaggio critico della società italiana che questi autori registrano ognuno a modo proprio e con sfaccettature diverse; ed è anche il passaggio critico del nostro cinema che espelle dal proprio corpo i residui più o meno tossici del fascismo, introiettando neorealismo e commedia rosa per passare ad altro.

Tra i critici che ne scrivono dopo la proiezione alla Mostra di Venezia nel 1963, Giovanni Grazzini ne condanna «l’impianto didascalico» («Squarzina e de Bosio hanno letto troppo Brecht per riuscire a liberarsi interamente dei suoi cascami pedagogici»); Leo Pestelli «l’eccesso di schematismo» («l’artiglio teatrale di Squarzina?», si chiede); Pietro Bianchi critica «la rottura tra la parte dialogata, lunga, minuziosa, didascalica, e la parte visiva, liricamente e drammaticamente più forte». L’affondo più duro proviene da «Cinema Nuovo», la rivista diretta da Guido Aristarco, che definisce la struttura del film «povera e gracile, e procede per quadri scopertamente illustrativi, dando adito a confusioni e contraddizioni, senza cioè che si riesca a contrapporre al rifiuto epico una nuova moralità, un’effettiva didascalicità». L’unico che lo apprezza è Lino Miccichè nelle pagine dell’Avanti!: «il film di de Bosio è tra le opere più serie sulla Resistenza che il cinema italiano abbia dato (…) e tra i più felici esordi registici degli ultimi tempi».

Non si può dire che Il terrorista abbia avuto buona stampa in Italia pur avendo, paradossalmente, vinto alla 24a Mostra del cinema di Venezia il Premio della critica italiana assegnato dal Sindacato nazionale giornalistici cinematografici e risultato il primo classificato nella Sezione opere prime della Mostra del cinema nel referendum della critica indetto dall’Avanti!.

In Francia venne accolto con grande attenzione: «fu amato da Jean-Paul Sartre e da Simone de Beauvoir che lo presentarono a Parigi – racconta de Bosio – e andò molto bene anche in altri Paesi di lingua francese». Freddy Buache, nei prestigiosi Cahiers du cinéma, sostiene nel 1965 che il film mostra «la catena della violenza (terrore e contro-terrore) senza aprire un dibattito morale sull’argomento. Rifiuta l’astrazione e propone un’analisi dialettica della situazione».

Anche l’esito commerciale è piuttosto modesto: incassa poco più di quaranta milioni di lire, pochissimo se si pensa che qualsiasi film di serie zeta raggiunge con facilità più di cento milioni al botteghino nel 1963. A sessant’anni dalla sua uscita in sala, torna però ora nella versione restaurata in 4K da Patricia Barsanti.
Non è fuori tempo: il momento sembra ancora una volta quello giusto.

* Fonte/autore: Giuseppe Ghigi, il manifesto

Miceli, già tramite di un finanziamento di 800.000 dollari giunto al Msi dalla Amministrazione Usa nel ’72 e iscritto alla P2, verrà eletto nel ’76 deputato nelle fila del partito di Almirante. L’anniversario obbliga ad una lettura del presente, perché gli eredi missini che sono al vertice dello Stato rivendicano la loro storia come democratica e repubblicana

Il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza della Loggia celebrato dal Presidente della Repubblica Mattarella spinge a volgere lo sguardo sul 1974, un anno cruciale dei tumultuosi Settanta, e pone l’obbligo della lettura del presente visto che, negli odierni tempi di acritica fedeltà atlantica, l’ultima inchiesta sull’eccidio fascista di Brescia ha condotto sulla soglia d’ingresso di Palazzo Carli a Verona, sede del comando Nato.

L’Italia era guidata dal quinto governo del democristiano Mariano Rumor, un esecutivo di breve durata ma obbligato a misurarsi sia con le temperie politiche nazionali e internazionali (crisi economica, guerra del Kippur, austerità) sia con lo stragismo neofascista che dal 1969 era deflagrato nella vita pubblica.

Dopo la strage di Brescia, per la prima volta dopo anni di omissioni; arresti politici; false piste anarchiche e depistaggi istituzionali, il governo fu costretto ad attivare le prime misure di contrasto (seppur calibrate, come in uso al metodo democristiano) contro l’eversione nera. Fu un primo segnale di discontinuità per un partito/Stato su cui gravava la responsabilità politica degli accadimenti. «Per quanto riguarda la strategia della tensione che per anni ha insanguinato l’Italia – scrive Aldo Moro nei giorni del suo sequestro – non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si collocano fuori dall’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Democrazia Cristiana in alcuni suoi settori».

Per avviare le «pulizie in casa» (rimuovere o trasferire vertici e alti ufficiali degli apparati di forza statali compromessi con l’eversione nera) l’esecutivo guidato da Rumor (che il 17 maggio 1973 aveva subito un attentato del gruppo nazista Ordine Nuovo) utilizzò due dei suoi più importanti maggiorenti nei dicasteri strategici: Giulio Andreotti alla Difesa, Paolo Emilio Taviani all’Interno.

Andreotti il 20 giugno, in una a dir poco inusuale intervista a Il Mondo, svelò l’identità di agente dei servizi segreti di Guido Giannettini – il «collaboratore fascista del SID» lo definirà Aldo Moro – indagato per la strage di Piazza Fontana e fatto fuggire all’estero. Poi lo stesso ministro non solo consegnò alla magistratura una parte della documentazione relativa al golpe Borghese del 1970, riattivando l’indagine, ma rimosse dal vertice del SID il generale Vito Miceli che il 31 ottobre fu arrestato, poi assolto, per le inchieste sul golpe Borghese e per quello della Rosa dei Venti.

Miceli, già tramite di un finanziamento di 800.000 dollari giunto al Msi dall’amministrazione Usa nel 1972 nonché iscritto negli elenchi della P2, verrà poi eletto deputato nelle fila del partito di Almirante nel 1976.

Taviani due giorni dopo la strage di Brescia sciolse l’Ufficio Affari Riservati, gravato delle più pesanti accuse di complicità con l’estrema destra, spostando il suo potente capo (nonché suo uomo di fiducia e riferimento della CIA in Italia) Federico Umberto D’Amato alla guida della Polizia di Frontiera. Lo stesso D’Amato che l’ultima sentenza per la strage di Bologna indica come uno degli organizzatori del massacro del 2 agosto 1980 eseguito dai neofascisti dei Nar. Uno scioglimento che seguiva quello del gruppo Ordine Nuovo del 23 novembre 1973 voluto dallo stesso Taviani (dopo la condanna dei suoi dirigenti per ricostituzione del partito fascista) e l’arresto l’8 maggio 1974 di Carlo Fumagalli, guida del gruppo eversivo MAR (Movimento Azione Rivoluzionaria) già ufficiale dell’OSS statunitense e poi della CIA, nonché membro della Resistenza «bianca» di cui proprio Taviani era stato al vertice durante la seconda guerra mondiale. Il 30 maggio il neofascista Giancarlo Esposti (legato al Mar) veniva ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri a Pian del Rascino.

Si assisteva allora al riposizionamento della classe dirigente protesa a ricostituirsi -scrisse Pasolini- «una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum» che aveva confermato la legge sul divorzio e posto per la prima volta la Dc (alleata al Msi) in minoranza nel Paese.
Si assiste oggi, in tempi in cui gli eredi missini sono al vertice dello Stato e rivendicano la loro storia come democratica e repubblicana, al tentativo di rimozione del contesto di quegli anni così ben rappresentato dal palco di Piazza Loggia dalle parole del sindacalista della Cisl Franco Castrezzari troncate dallo scoppio della bomba: «La nostra Costituzione vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista; eppure il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana ordiva fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale».

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

 «Processo alla Resistenza», il saggio di Michela Ponzani edito da Einaudi. Un volume che raccoglie riflessioni e ricerche sulle forme di criminalizzazione dell’esperienza partigiana

 

Sforziamoci di tralasciare, almeno per un attimo, l’altrimenti diffusa retorica della «storia dimenticata», quella che celebra il passato come una sorta di buco nero dove, agli eventi concreti, si sarebbe sostituita una mera narrazione in funzione degli interessi dei «poteri forti». Ciò che chiamiamo con il nome di storia, infatti, non è solo il riscontro del fatto che il discorso corrente (nella comunicazione dominante da parte dei media così come nell’opinione pubblica) possa essere fortemente viziato da categorie, immagini e pensieri di parte. Il fare storia, infatti, implica semmai indagare soprattutto su come sussista, in base alle palesi egemonie politiche e culturali del momento (e non in ragione di un oscuro disegno), l’accento su una molteplicità di aspetti piuttosto che su altri.

TUTTA LA COMPLESSA vicenda della ricezione e dell’eredità della guerra di Liberazione, dallo stesso aprile 1945 in poi, va quindi letta anche sotto questa lente. Evitando pertanto banalizzazioni nonché semplificazioni di maniera. Esattamente, invece, ciò cui anelano qualunquisti e conformisti di ogni risma e genere. La complessità della guerra partigiana si perde infatti dentro i meandri di una falsa «contro-storia», con un drastico capovolgimento delle parti. Si tratta di quell’approccio, per intenderci, che azzera tutto, nel nome di una fittizia «unità nazionale» (oggi chiamata «pacificazione») dalla cui assenza, invece, i «nemici dell’Italia» avrebbero saputo trarre giovamento. Per poi auto-incensarsi del tutto immeritatamente. Una pubblicistica di ampia diffusione, ha trovato in questi ultimi tre decenni un significativo riscontro di lettori. Dalla pagine più sofisticate dedicate alla «morte della patria» da parte di Galli della Loggia alla fluviale letteratura, a tratti inferocita, di Pansa. Dopo di che, poste tali premesse critiche, si entra a pieno titolo nel merito del libro di Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica italiana, 1945-2022 (Einaudi, pp. 232, euro 28). Diverse questioni sono infatti sollevate dal suo testo, al netto delle cronache che vi sono ricostruite, sulla base dell’interpolazione di molteplici fonti (rapporti delle forze dell’ordine, documentazioni processuali, articoli della stampa quotidiana e periodica, soprattutto di estrazione locale), che ci restituiscono il quadro di un’epoca. Tra di esse, e come tali di particolare rilievo, sono quelle vicende che non rimandano al solo uso discrezionale, in chiave deliberatamente restauratrice, della magistratura – e quindi della somministrazione della stessa giustizia – ma ad una più generale opera di normalizzazione conservatrice: cancellare quindi, laddove possibile, l’eredità ancora recentissima della lotta di Liberazione. Trasformandola pertanto in una irrisolta commistione tra occasionalità e criminalità, tra ribellione e sedizione, disobbedienza e opportunismo.

UNA TALE PULSIONE, che di fatto attraversa un po’ tutta l’Italia, a partire da quella settentrionale, risponde a molteplici logiche, fino ad un certo punto ascrivibili al solo calcolo politico. Poiché ciò che essa testimonia è, semmai, un più generale percorso dove ciò che è stato – ovvero una commistione irrisolta tra segmenti del liberalismo ante-fascista e regime mussoliniano – emerge in tutti i suoi aspetti più radicati, destinati poi a non essere risolti con il nuovo ordine costituzionale. Si dà quindi come il parametro sul quale misurare l’accettabilità, o meno, della svolta prodotta dalla lotta di Liberazione. Nella misura in cui il partigianato ha reintrodotto, nella sfera dello Stato unitario, qualcosa che lo stesso Risorgimento si era incaricato, soprattutto dal 1859 in poi, di estromettere progressivamente, cioè la partecipazione in armi della collettività ai grandi moti di trasformazione in corso. Nell’Europa postbellica, all’epoca, era ancora presente la eco di tre eventi indice: le tumultuose sollevazioni borghesi del 1848; l’esperienza collettiva, ancorché sanguinosamente repressa, della Comune parigina nel 1871; le insorgenze popolari, generate dalla Prima guerra mondiale e poi variamente sedate. Con efferata brutalità. I fascismi continentali, a fronte della decadenza degli ordinamenti liberali, avevano tratto da ciò parte della loro legittimità, presentandosi come i soggetti che avrebbero ripristinato una qualche pratica di «ordine» e di «gerarchia». Nel momento in cui, dal 1945, tutto questo declinò tra i giganteschi flutti di uno scontro armato epocale, il conflitto tra legalità (quella istituita dai vincitori) e legittimità (derivante dai movimenti che nel frattempo si erano verificati dal basso, a partire dalla stessa lotta partigiana), rimase comunque a lungo irrisolto. Se da una parte valevano le leggi e le disposizioni degli Alleati, e con esse il bisogno di confrontarsi con una nuova minaccia, quella bipolare, dall’altro, esauriti i primi e veloci momenti di euforia per la fine della guerra, andava invece crescendo un senso di insoddisfazione.

NON DI MENO, come già ha avuto modo di sottolineare una storiografia consolidata, che trova in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, (Editori Riuniti, 1999) un primo punto di sintesi, alla violenza inerziale che si trascinò ancora nel tempo, corrispondeva la restaurazione di un potere che non intendeva in alcun modo confrontarsi con quella idea di cittadinanza attiva, civile, e al medesimo tempo ribelle, della quale il partigianato era espressione. Gli eventi succedutisi, soprattutto sul piano giudiziario, con il ricorso alla magistratura, come ordinamento repressivo, spesso debitore dell’impronta fascista sia sul piano culturale che legislativo, si inquadrano in questa logica. Già Guido Neppi Modona con il suo pioneristico lavoro su Giustizia penale e guerra di liberazione (Franco Angeli, 1984) aveva avviato, ben quarant’anni fa, una ricognizione in tale senso. All’epoca ancora motivata dal riuscire a tradurre una lunga e tortuosa stagione di sforzi di democratizzazione degli apparati dello Stato (quella intercorsa nei due decenni precedenti) all’interno di una più generale riconsiderazione del significato della lotta partigiana, e del suo trattamento giudiziario, a quarant’anni dalla sua conclusione. Così come, due decenni dopo, il volume collettaneo a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Giudicare e punire. Processi per crimini di guerra tra diritto e politica (L’ancora del Mediterraneo, 2005), spostava il fuoco verso una serie di questioni, a bipolarismo internazionale oramai da tempo conclusosi, che richiamavano il nesso tra violenze belliche, soglie di accettazioni e di rigetto, rapporto tra giustizia e classi dirigenti, percezioni e rielaborazioni dei lutti come esperienze di trapasso collettivo da vecchie a nuove società.

I LIBRI QUI CITATI sono solo alcuni dei possibili antecedenti al volume di Ponzani, che raccoglie in sé vent’anni di ricerche e riflessioni sulla criminalizzazione dell’eredità della guerra partigiana nella storia repubblicana. Come tale, è anche una risposta alle narrazioni dominanti in un certo senso comune, al pari di una parte della pubblicistica ad ampia diffusione, che associano la lotta di Liberazione ad un esercizio stragista, annullano le differenze tra carnefici e vittime, per poi ribaltarne i ruoli, rileggono – in chiave chiaramente filofascista – gli eventi dall’8 settembre 1943 in poi per ricavarne una netta rivalutazione morale, prima ancora che politica, degli sconfitti. Ponzani accompagna il lettore attraverso i diversi livelli di criminalizzazione istituzionale, laddove questi si verificarono, di cristallizzazione retorica del ricordo, di parificazione delle violenze e di annichilimento del significato dell’azione partigiana come atto di radicale disobbedienza, fondato su uno spontaneo principio di eticità. Fa quindi effetto il riscontrare analiticamente come certi canoni ideologici che sono transitati dal fascismo alla Repubblica, si ripropongano con potenza di inerzia nel discorso di senso comune. Uno tra tutti, le anacronistiche e surreali polemiche su via Rasella. Solo per uno tra i tanti, possibili richiami.

* Fonte/autore: Claudio Vercelli, il manifesto

Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato

 

Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato.

IL 9 MAGGIO 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza.

UNA VICENDA SULLA QUALE a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope.

IL 9 MAGGIO 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi. Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato).

IL 9 MAGGIO, INFINE, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca.

UNA SCELTA CHE temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore.

IN QUESTA CORNICE, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò. A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale.

QUELL’ATTENTATO VENNE realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana.

Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese.

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti

 

Non era difficile prevedere che collocare la Giornata del ricordo, per onorare le vittime delle foibe, a dieci-quindici giorni dal Giorno della memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno come unico denominatore comune l’appartenere tutte all’esplosione, sino allora inedita, di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia.

Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali.

Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione.

Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda.

I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

* Questo testo del grande storico italiano che ci ha lasciato da meno di un anno – legato profondamente alla storia del Manifesto e nostro prezioso collaboratore per decenni – è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco).

Fonte/autore: Enzo Collotti, il manifesto

 

 

 

ph by Roberta F., CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

LISBONA. Sì, è proprio vero, mio padre è morto. Il colonnello Otelo Saraiva de Carvalho, l’Otelo. Poco prima delle 14 e 11 dello scorso 25 luglio, lo sfinito corpo di mio padre ha smesso di respirare l’aria che respiriamo.

Dopo alcuni giorni di parole opportune e inopportune, ci sono ancora delle cose che vorrei dirvi in questa mia testimonianza. Parlo per tutti quelli che sono rimasti colpiti o rattristati dalla notizia della sua morte, così come anche per chi ne è rimasto indifferente.

Non vivo più in Portogallo da molti anni. Ero arrivata a Lisbona da otto giorni e in quel periodo avevo visitato mio padre per due volte, perché era di nuovo ricoverato all’Ospedale delle Forze Armate. Due visite con il tempo contato, un’ora in tutto. Il resto del tempo, quando non vedevo il colore dei suoi occhi né sentivo il suono della sua voce, gli stavo vicino idealmente, soprattutto tra il giorno 24 e il 25.

Durante le mie brevi visite, le ultime parole che mi ha detto sono state «Ti voglio molto bene, figlia mia». Ma le prime, quando gli ho chiesto come si sentiva, sono state queste: «Sto molto giù, sono arrivato alla fine. Ma guarda come mi sono ridotto, non posso fare più niente. E io che volevo una vita tranquilla! Sai chi è colpevole di tutto questo?» E mi racconta di quel compagno del MFA (Movimento delle Forze Armate) che, poco dopo il 25 Aprile 1974, quando usciva da una casa di Cova da Moura dove c’era stata una riunione del MFA, convocata per prendere decisioni su cosa fare dopo la rivoluzione e su come organizzarsi, disse ai giornalisti che lo circondavano, «alcuni stranieri», «È lui che dovete intervistare”, indicando mio padre che scendeva le scale della casa, «È lui che ha fatto, ha organizzato, ha comandato, ecc., ecc.».

«Ed ecco», continua a raccontare mio padre, «Tutta quella gente comincia a corrermi incontro, microfoni alla mano, e tutto si è deciso in quel momento! In seguito, sono stato coinvolto nella vita politica, nelle elezioni…, ma quello che volevo veramente era dare una speranza alla gente, al popolo portoghese, alle classi popolari che ho poi contattato nel PREC (Processo Rivoluzionario In Corso)».

Sei giorni prima della sua morte, in un’unica frase, in un breve bilancio, mio padre identificava così il punto di svolta della sua vita, fra quella che avrebbe potuto essere «una vita tranquilla» e invece quella che ha effettivamente vissuto, causa, secondo lui, del suo debilitato stato di salute.

Quella vita tranquilla che ricercava dopo aver già comandato le operazioni del 25 Aprile, dopo aver partecipato attivamente a tutta la cospirazione che le aveva preceduto, insieme ai capitani con cui avrebbero formato il Movimento delle Forze Armate, riuniti dopo anni di guerra nelle colonie portoghesi. Dopo sue tre commissioni in Africa, di cui due in combattimento durante la guerra coloniale che il Portogallo iniziò nel ’61 contro i movimenti di liberazione. Dopo tredici anni di vita nomade tra il Portogallo e le colonie, sempre accompagnato dal grande amore della sua vita (mia madre) e più tardi da tre figli. Dopo aver perso una figlia (mia sorella) nella Guinea-Bissau, morta in poche ore per una crisi di malaria e meningite fulminante. Dopo un’infanzia e un’adolescenza fra il Mozambico e il Portogallo, fra genitori e nonni.

Quanto al 25 Aprile 1974, se da una parte c’era la totale fiducia che i compagni militari del MFA avevano in mio padre, adesso diventato il Maggiore Otelo Saraiva de Carvalho, per l’esecuzione e il comando del Piano di Operazioni militari che ha deposto il regime dittatoriale vigente in Portogallo dal 1926, dall’altra c’era il disegno solitario di quel Piano di Operazioni che mio padre definiva come «Svolta Storica», che consisteva nella scelta dei numerosi ufficiali che furono i suoi più diretti collaboratori e che lo portarono all’esecuzione del Piano all’alba del 25 aprile, vittoria seguita dall’entusiasmo e dalla massiccia adesione della maggior parte dei portoghesi, scesi per le strade di tutto il paese.

Vari analisti politici hanno classificato questo Piano come superlativo, così come il dominio delle operazioni militari, di massima importanza per la Storia del Portogallo e, in particolare, per la Storia Militare Portoghese. Comunque, quello che posso affermare con assoluta certezza è che mio padre era grato alla Vita per aver avuto l’opportunità di contribuire alla rivoluzione, tanto attesa dalla maggior parte della popolazione. E questo lo faceva non per «orgoglio» (che poteva essere inteso come un premio), ma piuttosto per l’enorme soddisfazione di aver avuto questa opportunità nella sua vita. E per costatare che le sue competenze era state sufficienti a portare avanti il progetto rivoluzionario.

Nel periodo del post 25 Aprile, periodo PREC, durante un anno e sette mesi, mio padre ha avuto tutto tranne una vita tranquilla. Si impegnava corpo e anima, con tutto il tempo, il sonno e la sua vita famigliare (che per lui si confondeva con la vita privata), utilizzando quello che sapeva e quello che era costretto a improvvisare. Quando sento parlare di «abbaglio per il potere», contrappongo invece la coscienza delle necessità della popolazione, soprattutto attraverso la sua esperienza di comandante del COPCON (Comando Operativo per il Continente), e la consapevolezza di come il suo potere poteva aiutare a risolvere queste necessità. Da parte sua, non si è mai sottratto alle immense responsabilità che dai 37 ai 39 anni gli sono cadute addosso, a lui e agli altri ufficiali del MFA, che avevano combattuto nella guerra coloniale e non erano ufficiali dello Stato Maggiore e che quindi erano più propensi e responsabilizzare la gerarchia militare per quanto riguardava le decisioni da prendere.

Quanto alla sua partecipazione alla vita politica, come civile, dopo che venne allontanato dalle cariche militari in seguito al 25 novembre del 1975, vorrei affermare quanto segue: quando mio padre venne arrestato nell’ambito del Processo FUP/FP, una ottima compagnia teatrale di Lisbona, attraverso l’intervento del suo direttore/fondatore, ha voluto richiamare l’attenzione su questo arresto e mi ha invitato a leggere un testo all’inizio di uno spettacolo teatrale. Ci sono andata e ricordo perfettamente queste parole di mio padre che ho trasmesso, nella mia lettura, al pubblico: «Vi do la mia parola di Capitano di Aprile che non ho nulla a che vedere con tutto questo (si riferiva qui alle accuse di aver partecipato agli attentati fatti dal gruppo radicale FP25)».

Sarebbe inoltre interessante riferire altre ipotesi di lettura dei fatti, delle coincidenze (che pure esistono) che hanno fatto sì che mio padre fosse accusato politicamente e giuridicamente di aver collaborato con questo gruppo…È comunque interessante analizzare come questo tentativo di coinvolgere mio padre/Otelo in questo caso sia servito a interessi diversi, allora come adesso…ma qui chiudo l’argomento.

Vi parlo dell’uomo che ho conosciuto come padre e vi riferisco adesso alcuni aspetti della sua personalità, che forse potrete riconoscere:
In famiglia, si raccontavano storie su mio padre e sul suo «senso del giusto», fin da quando era bambino. Penso che questo aspetto, inquadrato nella sua formazione militare (perché mio padre era «un militare»), abbia portato a una pratica di «contestazione attraverso le regole», ossia contestazioni che si svolgevano attraverso i legittimi canali costituiti (anteriori o posteriori al 25 Aprile) e che molte volte ho avuto occasione di testimoniare. Alcune portavano all’abrogazione di determinate leggi o di determinazioni della gerarchia militare, decisioni che hanno favorito, nel passato e ancora oggi, molte persone, che probabilmente non sanno neanche chi ne è stato l’autore.

Questo «senso del giusto» era molto forte nella personalità di mio padre e ha influenzato gran parte della sua cittadinanza e del suo intervento come cittadino.
Riferisco inoltre l’enorme coerenza con quello che sentiva (in ogni situazione) e con la verità (un aspetto che era comune a mio padre e a mia madre, erano così tutti e due e così si viveva nella mia famiglia).

Come si può parlare della vita di una persona in poche righe? Scegliendo un epitaffio: la persona si perde, il dolore di chi rimane continua.
Posso dire che perdo una delle due persone più importanti della mia vita, perdo quell’unico interlocutore di tante chiacchierate padre/figlia, così barocche, teatrali, divertenti che ci siamo inventate. Perdo la compagnia e la completa disponibilità che aveva mio padre nei miei confronti.

E come cittadina, vorrei che il Portogallo non perdesse quello che è stato fatto. Fatto da mio padre, dal militare Otelo Saraiva de Carvalho autore di tante conquiste, da Otelo e da tutti i suoi compagni di lotta, da tutti i suoi amici. Vorrei che il Portogallo non perdesse quello che è stato realizzato e che lo integrasse nel suo patrimonio e nella sua memoria collettiva.

(Dopotutto, l’ultimo quarto del XX secolo è servito a dire a qualsiasi dittatore che il popolo portoghese non è così sottomesso come potrebbe sembrare. E anche a ricordare che è possibile realizzare una rivoluzione collettiva senza l’eliminazione fisica dei suoi nemici).

Lisbona, 16 agosto 2021

traduzione dal portoghese di Rita Ciotta Neves

* Fonte: Maria Paula Alambre Carvalho, il manifesto

FIRENZE. E’ negli affascinanti ricordi dell’amica Maria Fancelli, a partire da un affollatissimo seminario universitario sulla figura di von Kleist nell’ormai lontano 1984, che si riescono a comprendere le ragioni che hanno portato Rossana Rossana a lasciare in eredità il suo archivio personale all’Archivio di Stato di Firenze. In particolare alle sezione dedicata alla “Memoria e scrittura delle donne”, voluta e poi trasformata in associazione dalla storica e archivista Alessandra Contini Bonacossi. “Una sezione che lei aveva conosciuto nel 2006 durante una visita – racconta la presidente Rosalia Manno – apprezzandone lo spirito e soprattutto l’obiettivo di assicurare conservazione, tutela e valorizzazione dei propri documenti”. Un apprezzamento che portò Rossanda a cambiare la sua idea iniziale di una destinazione milanese per le sue carte – parte delle quali sono ancora conservate alla Fondazione Feltrinelli di Milano – affidandole invece “a una città che lei amava. Il suo è stato un atto fatto in piena coscienza, e di consapevolezza della ‘storicità’ della sua persona”.

Per salutare l’arrivo di questi sei metri lineari di faldoni “assolutamente non ordinati e studiati” che coprono un arco di quasi mezzo secolo, dagli anni sessanta fino al 2006, l’Archivio di Stato ha così organizzato una tavola rotonda in diretta streaming. “Un appuntamento in quella che è la ‘Notte degli Archivi’ – spiega Sabina Magrini che dirige l’Archivio – iniziativa collegata al festival Archivissima 2021, e che ci invita a un confronto sul tema #generazioni: cosa salvare di ciò che le generazioni prima di noi hanno prodotto? Come stabilire una connessione e, soprattutto, come generare nuova vita da ciò che si è deciso di conservare?”.
Una splendida risposta, arrivata grazie ai contributi anche di Sveva Pacifico e naturalmente di Doriana Ricci, redattrice del manifesto fino a pochi anni fa, assistente personale e amica di Rossanda, è in questa vastissima produzione “in cui si trova tutta la corrispondenza relativa alla fondazione del manifesto – spiega Pacifico – e carte relative alle sue relazioni con il Pdup e alle riflessioni sul marxismo, insieme a copie di materiale riguardante i processi ai brigatisti e il caso Sofri, e lettere con detenuti sottoposte a censura”. E ancora appunti per preparare interventi ai vari seminari che teneva, e riflessioni sulla questione femminile in cui emerge un tema estremamente attuale, ovvero il problema di conciliare lavoro e famiglia, Un modo per ricostruire la figura di Rossana Rossanda e la storia dell’Italia da lei vissuta come donna, partigiana, politica, giornalista e scrittrice. Anche storica dell’arte, tassello ulteriore del suo legame con la città di Firenze.

* Fonte: Riccardo Chiari, il manifesto

Sign In

Reset Your Password