Resistenza . La storia dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti
Perseguitati tra i perseguitati, dimenticati tra i dimenticati. Le popolazioni romanì (rom, sinti, manush, kalé) hanno due nomi per indicare quello che è accaduto loro negli anni ’40 del Novecento: «Porrajmos» e «Samudaripen», ovvero «grande divoramento» e «tutti uccisi».
Era l’11 settembre del 1940 quando tutte le prefetture del Regno d’Italia ricevettero una circolare telegrafica del capo della polizia Arturo Bocchini: «Rastrellamento di tutti gli zingari», era l’ordine da eseguire ovunque e nel minor tempo possibile. «Comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati» erano le accuse. Solo qualche mese dopo, nell’aprile del 1941, il ministero dell’Interno diede qualche indicazione sul loro internamento e campi di prigionia furono costruiti ovunque, dall’Abruzzo alla Sardegna, dalle isole Tremiti alla Toscana e all’Emilia Romagna.
Era l’ultimo atto della politica fascista sulle comunità rom e sinte: prima, tra il 1922 e il 1938, l’ordine era quello di respingere alle frontiere i nomadi stranieri. Poi, tra il 1938 e il 1940, si cominciò con la pulizia etnica nelle regioni di confine e i trasferimenti coatti in Sardegna.
Sulla rivista «La difesa della razza» fioccavano articoli sulla «pericolosità sociale degli zingari». Con la circolare di Bocchini del 1940, la guerra alla «piaga zingara» arrivò ai rastrellamenti e alla reclusione. A liberazione avvenuta, i sopravvissuti scopriranno di aver perso tutti i propri averi. Nessuno si preoccuperà mai di renderglieli o di rimborsarli in qualche modo.
Dopo l’8 settembre del 1943, ad ogni modo, alcuni riuscirono a scappare dai campi dove erano reclusi e si unirono alla Resistenza. È la storia, ad esempio, dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. La loro storia è stata custodita e raccontata da Giacomo «Gnugo» De Bar, sinto, di professione saltimbanco, come amava definirsi lui. Rastrellato e rinchiuso anche lui da bambino nel 1940, non ha mai dimenticato suo nonno Jean, contorsionista, e suo zio Rus, equilibrista, che di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Giravano a bordo di un camion e si occupavano per lo più di rubare armi da consegnare poi ai partigiani.
La fama (e il soprannome) di leoni se l’erano guadagnata sul campo grazie a un’azione in cui avevano disarmato una pattuglia del Reich.
«Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario – racconta Gnugo De Bar nel suo libro «Strada, Patria Sinta» (Fatatrac, 1998) – fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico. Questo lo sapeva anche un fascista di Breda Solini che durante la Liberazione si era barricato in casa con un arsenale di armi, minacciando di fare fuoco a chiunque si avvicinasse o di uccidersi a sua volta facendo saltare tutta la casa: “io mi arrendo solo ai Leoni di Breda Solini”. Così andarono i miei, ai quali si arrese, ma venne poi preso in consegna lo stesso da altri partigiani, che lo rinchiusero in una cantina e lo picchiarono».
Fatti come questi non è facile sentirli raccontare: la memoria del Porrajmos e della resistenza dei romanì è sempre stata un filo sottile, quasi invisibile. In teoria nel 2015 il parlamento europeo ha stabilito che il 2 agosto è la Giornata dedicata alle vittime del genocidio rom, ma in pratica la ricorrenza viene celebrata a singhiozzo dai vari paesi. In Italia la commemorazione è il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Così è pure in quasi tutti gli altri paesi europei, tranne la Repubblica Ceca (che ha quattro date: il 7 marzo, il 13 maggio, il 2 e il 21 agosto) e la Lettonia (che ne ha tre: il 27 gennaio, l’8 aprile e l’8 maggio).
Nel 2018, l’Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) diretto da Luigi Manconi ha organizzato ad Agnone, in Molise, la prima commemorazione italiana della rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz, cominciata il 16 maggio del 1944, quando quasi quattromila tra rom, sinti e caminanti si ribellarono ai soldati tedeschi arrivati per sterminarli.
La loro resistenza durò fino ad agosto, quando le SS riuscirono a prevalere e massacrarono tutti quelli che avevano osato ribellarsi. In totale, si stima, il «grande divoramento» ha lasciato una voragine da 500.000 morti in tutta l’Europa. L’inno rom «Gelem, Gelem» ricorda come sono andate le cose: «Ho percorso lunghe strade, ho incontrato rom felici. Una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi».
* Fonte: il manifesto
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