Crainz. Orgoglio impastato di povertà Così l’Italia fu rifatta insieme agli italiani

Molti di quei giovani rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò, e una parte di essi affluisce in montagna e dà vita alle prime bande partigiane

È IL simbolo di una straordinaria storia italiana, il 25 aprile, e in questo settantesimo anniversario siamo forse più maturi per capirlo appieno: lo suggerisce il clima stesso che si è creato attorno ad esso, ed è un gran bene che sia così. È un gran bene che, superate le deformazioni di differenti climi politici e culturali, appaia oggi limpidamente che vi fu allora un’Italia che seppe scegliere in modo largamente corale, e sia pure in diversissime forme. Seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune. Altrettanto limpido ci appare oggi il raccordo fra l’epilogo di una vicenda drammatica e l’avvio della rifondazione del Paese.
Un paese piegato e piagato ma capace di risollevarsi dal degrado, dalla diseducazione, dalle degenerazioni di vent’anni di fascismo. Un paese devastato dalla guerra, da quella guerra: dai drammi evocati in modo intenso da Giuseppe Ungaretti (“Cessate di uccidere i morti,/ non gridate più, non gridate…”), Salvatore Quasimodo (“E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore/ fra i morti abbandonati nelle piazze…”), Alfonso Gatto (“Era silenzio l’urlo del mattino/ silenzio il cielo ferito/: un silenzio di case di Milano”). Una “guerra inespiabile”, per dirla con Ferruccio Parri, e nel cuore stesso di essa si posero i germi fondativi di una nuova cittadinanza democratica. E iniziò a nascere allora, in opposizione al Nuovo ordine hitleriano, anche l’idea di un Europa diversa: alla base di essa troviamo anche il manifesto Per un’Europa libera e unita, più conosciuto come Manifesto di Ventotene perché Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero appunto lì, dove il fascismo li aveva costretti al confino. Abbiamo bisogno di ricordarlo oggi, e ognuno ne comprende le ragioni.
Seppe risollevarsi, l’Italia, dallo sfascio dell’8 settembre del 1943: «Mai come in quel giorno — ha scritto Dante Livio Bianco — abbiamo capito cos’è e cosa vuol dire l’onore militare e la dignità nazionale: quelle parole, che spesso ci erano apparse insopportabilmente convenzionali e guaste dalla retorica, ora ci svelavano la loro sostanza dolorosamente umana, attraverso la pena che ci stringeva il cuore e la vergogna che ci bruciava. E fu motivo di più per gli antifascisti di passare all’azione». In quegli stessi mesi Pietro Chiodi, professore ad Alba, annotava: «È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato in parte anche a me». E Claudio Pavone ha ricordato così l’ultima volta che vide Leone Ginzburg prelevato nel Carcere di San Vittore dai nazisti che l’avrebbero torturato a morte: «Da una cella qualcuno iniziò a fischiare l’Inno del Piave, era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via». Altro che “morte della patria”, come pur è stato scritto! L’8 settembre muore solo una finzione di patria, con il re e Badoglio che fuggono lasciando l’esercito e il Paese senza alcuna indicazione od orientamento. Consegnando così l’Italia all’occupazione nazista e ai mesi più tragici (e pesò a lungo il diversissimo modo con cui le differenti parti dell’Italia li vissero).
Certo, non fu assente allora neppure quella «rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano» che Ada Gobetti sferzava amaramente all’indomani dell’8 settembre. O quell’Italia che si è «severamente astenuta dal parteggiare», per dirla con Luigi Meneghello: con mille forme di “non scelta” o di presa di distanza da un conflitto che aveva in sé il rischio quotidiano della tragedia, dell’incrudelirsi del vivere. A lasciare il segno, a dare la reale impronta a quei mesi e all’Italia che ne sarebbe nata contribuirono però in modo decisivo i mille e differenti percorsi che portarono a opporsi — di nuovo, in diverse forme — al nazismo e alla repubblica di Salò. Percorsi strettamente connessi, nelle generazioni cresciute durante il fascismo, a una radicale e non indolore messa in discussione di se stessi: coloro che diventavano antifascisti durante la guerra e la Resistenza, annotava Giacomo Noventa, «avevano dovuto mettere un segno interrogativo o negativo a tutto ciò che avevano pensato essi stessi, sconvolgere (…) tutto il proprio pensiero e la propria vita».
Molti di quei giovani rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò, e una parte di essi affluisce in montagna e dà vita alle prime bande partigiane. E quelle bande possono sopravvivere solo con il sostegno delle donne e degli uomini di quelle zone, fra le più povere del Paese (spesso «impastate con la povertà», per dirla ancora con Meneghello). A tutto questo si intrecciano le più differenti forme di “resistenza civile” e di opposizione: dall’aiuto ai perseguitati, a partire dagli ebrei, sino a quegli scioperi operai che già dal marzo del ‘43 annunciano il declino irreversibile del fascismo. E sino ai 600mila militari rinchiusi nei campi di prigionia tedeschi che potrebbero tornare in Italia aderendo a Salò, ma non lo fanno. Una grande complessità, ma con un filo robusto che la tiene insieme: si affermarono allora modi di “essere italiani” in contrasto aperto con altri modelli, e con stereotipi destinati a sopravvivere. Nella scelta di quelle donne e di quegli uomini prese corpo e vita reale insomma la polemica di Piero Gobetti contro la “società degli Apoti” propugnata da Giuseppe Prezzolini nel 1922: la società di coloro che “non la bevono”, distanti sia dal fascismo che dall’antifascismo (ma portati in realtà a prosperare all’ombra dei vincitori).
Fu dunque differenziata la partecipazione alla Resistenza, segnata anche dall’intrecciarsi e dal sovrapporsi di diverse intonazioni. Vissuta come guerra di liberazione dall’occupazione nazista, in primo luogo, ma al tempo stesso come guerra alla Repubblica di Salò: “Odiavamo i fascisti più ancora dei nazisti — ha ricordato Nuto Revelli — perché era inconcepibile che degli italiani fossero giunti a terrorizzare, torturare, ammazzare gente che aveva le stesse radici, che era cresciuta negli stessi luoghi, aveva studiato nelle stesse scuole». Era innervata, anche, di più radicali speranze di rivolgimento sociale e politico: e questa compresenza è la grande lezione de La guerra civile di Claudio Pavone, che Giorgio Napolitano ha evocato anche in questi giorni. Ma sullo sfondo delle diverse aspirazioni vi era, fortissima, l’idea di un Paese da rifondare: «Occorre rifare l’Italia e gli italiani insieme», annotava Carlo Dionisotti in quel 1945. E alla vigilia della morte il giovane partigiano Giacomo Ulivi aveva scritto agli amici: «Tutto noi dobbiamo rifare. Tutto, dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo rifare noi stessi: è la premessa per tutto il resto». E aggiungeva: l’inganno peggiore del fascismo è stato quello di convincerci della “sporcizia” della politica, e di intaccare così «la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo. Ogni sua sciagura è una sciagura nostra». Parole intensamente attuali, a settant’anni da quel 25 aprile.

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