L’arresto di Battisti e la necessità di un indulto

La vicenda di Cesare Battisti, culminata ora nell’arresto in Brasile, è delicata, perché chiama in causa direttamente ferite aperte, lacerazioni e lutti: un passato che non riesce a passare

La vicenda di Cesare Battisti, culminata ora nell’arresto in Brasile, è delicata, perché chiama in causa direttamente ferite aperte, lacerazioni e lutti: un passato che non riesce a passare. Un grumo doloroso nel quale è sempre più difficile separare le singole parti e che sempre meno si riesce a sgravare da un alto tasso di strumentalità politica.

In passato, ho sempre dato un giudizio negativo circa le posizioni e i pronunciamenti di Cesare Battisti, privi di assunzione di responsabilità circa il passato e le drammatiche vicende della lotta armata.

È il motivo per cui, tre anni fa, non ho firmato l’appello a suo sostegno, che raccolse 22.000 adesioni. In quei giorni avevo invece sottoscritto l’appello per Nathalie Menigon, da tempo in carcere e gravemente malata, così come gli altri militanti di Action Directe detenuti in Francia. Una solidarietà, la mia, dovuta a ragioni umanitarie e non certo di simpatia politica. Mi pare indicativo che l’appello per Menigon avesse invece raccolto appena 1000 adesioni.

Ora che Battisti è catturato, sono però solidale con lui, come lo fui con Menigon, come lo sono nei confronti di chiunque sia in carcere, per ragioni politiche o comuni, innocente o colpevole che sia.

Per esperienza personale e per profonda convinzione, infatti, penso che il carcere non sia la medicina, ma più spesso la malattia: non risarcisce in realtà nessuno, non lenisce offese e dolore, ma si limita ad amministrare altra sofferenza, nell’illusione, o nell’ipocrisia, che ciò pareggi i piatti della bilancia. Lo ha detto bene, e bisogna immaginare con quale fatica, Olga D’Antona nel processo contro gli uccisori di suo marito: «mi ha colpito vedere quei ragazzi chiusi nelle gabbie come animali. Sapere che faranno l’ergastolo non mi fa mica esultare. Queste sentenze fanno giustizia ma non danno sollievo e non restituiscono nulla a chi ha subito».

Un conto, infatti, è la giustizia; un altro quel clima di “vendetta infinita” che trapela da molti dei commenti e, più in generale, da molte vicende che negli ultimi tempi hanno visto crescere l’ostracismo ma già solo verso chi, condannato, si è sottratto alla detenzione, ma verso chiunque, anche avendo scontato per intero la condanna, tenti faticosamente di reinserirsi nella società e nel lavoro.

Il caso recente di Susanna Ronconi, costretta a dimettersi dalla Consulta sulle tossicodipendenze o le ricorrenti polemiche verso il lavoro editoriale di Renato Curcio, sono indicative di questo clima, spesso provocato e cavalcato a arte da esponenti della destra, che − incuranti della parabola evangelica che invita a non guardare solo il fuscello nell’occhio dell’altro, ma anche la trave nel proprio − hanno diffuso vere e proprie liste di proscrizione, pubblicate da giornali che si stanno specializzando nello “stanare” gli ex detenuti per i fatti della lotta armata, sino comprometterne la stessa possibilità di lavorare.

Non esito a dirlo: è un clima d’odio, che non fa bene a nessuno e che rilascia tossine che avveleneranno a lungo la società.

La violenza della lotta armata di quegli anni, circa i quali anch’io ho pesanti responsabilità, era ingiustificabile. Ha prodotto dolore e sofferenza, anziché maggiore giustizia sociale e liberazione, com’era nei nostri intenti. Ma, almeno, era una violenza “a caldo”, un tragico abbaglio rivoluzionario dentro un contesto altamente conflittuale e violento, qual è stata l’Italia delle stragi fasciste e dei tentativi autoritari degli anni Settanta e qual è stata, in generale, la cultura e i miti del Novecento.

La vendetta infinita è invece una violenza a freddo, negatrice non già della memoria e della verità, che vanno salvaguardate e promosse, ma della riconciliazione e del superamento.

Altro, evidentemente, è il discorso relativamente a chi ha sofferto direttamente a causa di quegli eventi, i cui sentimenti e le cui posizioni vanno sempre e comunque accolte in silenzio e con rispetto. Occorre un cordoglio per le vittime che sia profondo e sincero e, così pure, evitare che sia reticente o a macchie di leopardo.

La cornice in cui questo possa davvero avvenire deve però essere sottratta alla cronaca e alle contingenze, oltre che alla strumentalità politica.

L’arresto di Battisti, allora, potrebbe diventare occasione per una riflessione seria e matura. Mi paiono irrealistiche le proposte di amnistia, che capisco possano offendere qualcuno. E, del resto, sono tardive: 50.000 anni di carcere sono già stati scontati, una misura senza precedenti storici, mentre sono rimaste impunite le stragi. Il mio auspicio è semmai che si possa arrivare a una forma di indulto condizionato per coloro che sono fuggiti all’estero o sono ancora detenuti in Italia per i reati degli anni Settanta e Ottanta. Condizionato, così com’è stata la legge sulla dissociazione del 1987, a una presa di posizione chiara ed esplicita contro la violenza politica. In un percorso che veda operare una “Commissione per la verità e la riconciliazione”.

Mi sembrerebbe il modo per evitare ambiguità, unilateralismi e reticenze sul passato e, allo stesso tempo, per evitare di accanirsi a trent’anni di distanza. Come invitò a fare, tre anni fa, Edwy Plenel, direttore della redazione di Le Monde: «Sorprende l’accanimento contro questo mondo di vinti [sorprende ] il rifiuto di voltare pagina. Non, certo, senza averla letta ad alta voce e con lucidità, senza tacere o dimenticare alcunché…».

E di nuovo colpisce che questa sensibilità e acutezza sia più facilmente venuta talvolta da chi dalle armi è stato colpito. Come Indro Montanelli, che scrisse: «Le loro colpe i terroristi le hanno pagate non tanto coi lunghi anni di permanenza dietro le sbarre, quanto con la presa di coscienza non solo della inutilità, ma anche della fallacia di tutto questo». Capisco benissimo che questa considerazione non può recare conforto ai famigliari delle vittime. Ma neppure il carcere può lenire o risarcire quel dolore.

Occorre provare a prendere atto che quegli anni sono stati una tragedia da entrambi i lati. Occorre provare ad andare oltre, nel rispetto di torti e ragioni. Occorre provare a recuperare una cultura diffusa che rinunci a fare del carcere e dell’ergastolo un valore di cui gioire.

 

Sergio Segio

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