Lilium

La frattura lancinante dell’arresto, la canna della pistola sulla nuca, la cravatta che mi ha legato i polsi, l’incrinatura improvvisa del tempo, le voci concitate e soddisfatte, erano di uomo

Carcere di Santa Verdiana, Firenze, novembre 1982

Voci di donne, ora, stemperano la tensione accumulata in caserma tra rumore di passi, porte aperte di scatto, uomini a cerchio sempre attorno, lo sguardo fisso sul mio viso. Il carcere mi accoglie di nuovo nel suo grembo di matrigna, mi nutre di cibo in scodelle di acciaio, mi prepara il letto con lenzuola ruvide, di quelle che durano una vita. Si rifiuterà  di buttarmi fuori dal suo ventre squadrato per lungo tempo, sono entrata con un ergastolo. Ma per ora, il suono femminile tenace delle voci, giù in cortile, e la femminile perversità  di accudire un corpo chiuso, mi danno una sorda tranquillità .

La frattura lancinante dell’arresto, la canna della pistola sulla nuca, la cravatta che mi ha legato i polsi, l’incrinatura improvvisa del tempo, le voci concitate e soddisfatte, erano di uomo. Il silenzio, il lavarsi il viso, la tazza di caffé, il tempo che riprende a fluire, sebbene lento, le pantofole strascicate sul ballatoio di pietra dopo il mio grido di richiamo, sono di donna.

L’impatto rabbioso ed eccitato del primo arresto, non si ripete. Ho dentro una stanchezza d’abisso. La mia nascita, nemmeno un anno prima, da quel cortile di cemento dissacrato da venti chili di dinamite e da un amore inquieto, mi appare sprofondata nel tempo. L’eterno presente dei pochi mesi di libertà , per cui non càera passato e non càera futuro, lascia di nuovo spazio al gioco tra memoria e vuoto. Vuoto, perché da qui non si può dire “domani”. Pochi mesi di una libertà  che assomigliava troppo al suo contrario, una sorta di tempo presente cristallizzato in destino, ormai privo di casualità . Eppure, straordinariamente, a tratti felice.

Le voci delle donne, in cortile, si fanno più eccitate, rimbalzano sui muri alti del vecchio convento, passano le prime sbarre, e la rete fitta, e le seconde sbarre della piccola finestra. Le riconosco, a ognuna il suo volto. Alcune mi emozionano. Il mio nome e poi «fuori dall’isolamento», urlato, scandito, cantato. Sensazione calda, sono accudita, ora posso anche piangere un poà.

Quasi mi assopisco, vedo la luce trascolorare verso un riflesso dorato, non ho l’orologio, intuisco un pomeriggio d’autunno che si consuma, là  fuori.

Le donne, nel cortile, non scandiscono più il mio nome né gli slogan per avermi con loro. Percepisco una contrattazione, le loro voci, acute e sovrapposte, si alternano a una voce, singolare e maschile. Le strisce di sole sul muro, ormai rosate, mi dicono che il pomeriggio volge alla fine. Dovrebbero essere chiuse in cella già  da ore. Si rifiutano di rientrare, contrattano ancora. Ho paura di sentire anfibi militari sul cemento del cortile, mi sento impotente. Mi sento desiderata, anche: impotente e intenerita.

Rumori fuori dalla porta blindata della mia cella, la chiave nella serratura. Cosa vogliono, adesso, perché non mi lasciano in pace? Unàaltra chiave, nella serratura del cancello interno. Ci sono anche due guardie. Mi irrita la prospettiva di una perquisizione dopo nemmeno mezza giornata, e con la cella completamente vuota, poi. Non mi hanno lasciato nulla.

Nel rettangolo di luce lasciato libero dalla porta, il corpo da ragazzino di Alba. Un pensiero, stupido: sono cambiati i tempi, una fermata all’aria e si è già  vinto.

Un abbraccio stretto, gli occhi di Alba intensi, tristi e imbarazzati. Sto bene, le dico, sto bene, non mi hanno toccata, e voi qui, ci siete proprio tutte, non fate altre fermate, andate nei guai, non ne vale la pena, l’isolamento non durerà  a lungo, càè il processo… Mi escono fiumi di parole, non mi lascio il tempo di chiedermi perché la facciano stare nella mia cella, perché le immutabili regole del carcere siano state infrante, e poi proprio per me.

Sediamoci, dice, e mi prende una mano. Devo dirti una cosa.

Non penso, non riesco a pensare. Le guardie accostano porta e cancello. La cella mi appare, improvvisamente: ha i muri scrostati, una branda di ferro bianco, da infermeria, il buio si sta mangiando le strisce di sole. Io e Alba siamo sedute sulla branda, su una coperta militare. Attorno, nulla. Lei ha le mani piccole, ho sempre pensato che ha le mani da bambino.

Tua mamma, dice. Tua mamma è morta. Quando? riesco a dire. Due mesi fa, alla fine di agosto.

In caserma, pochi giorni prima, avevo dichiarato che mio padre e mia madre erano viventi.

Il mio presente assoluto aveva inchiodato la mia vita al suo destino, non aveva potuto trattenere la sua morte.

Mi sento sola, sola e bambina, quando Alba deve uscire e si richiudono le porte di ferro.

Come una bambina, ero certa che lei ci sarebbe stata, al mio ritorno.

I tratti del bel viso di mia madre non sono più limpidi, nel ricordo. Sovrappongo quelli dell’ultimo abbraccio, da libera, a quelli del reincontro, dopo il primo arresto, a quelli, ancora, dell’ultima volta, al colloquio, già  erosi dal male in un modo che non consentiva bugie, né a lei né a me. Il viso si era fatto più spigoloso, sofferente, improvvisamente invecchiato, come un piccolo frutto appassito. Lei, che nemmeno un anno prima, a cinquantotto anni, aveva la pelle chiara e trasparente e sottile, gli occhi verdi come certi laghi d’alta quota, circondati da una raggiera di rughe, piccole, appena percettibili nel sorriso o nello sguardo indurito.

Lei, con le gambe belle, incredibilmente asciutte e ben tornite, vanto di ragazza veneziana che ha passato la giovinezza a correre su e giù per calli e ponti. Lei, naso dritto, sorriso di seduzione, capelli scuri, le mani sui fianchi, rimprovera noi bambini, con il sorriso che le sfugge dagli angoli della bocca, incapace di prendersi sul serio.

Lei, con il male sul viso, dall’altra parte del bancone della sala colloqui, mi stringeva le mano, e non so come potevo accarezzarla con quel sogno di fuga che già  mi possedeva interamente, e che non potevo rivelarle.

«Vegnarà  un croato che te porta via», diceva quando, bambina, la stavo esasperando. E sempre quel sorriso che le sfuggiva, tenero, perché in realtà  io ero una bambina buona e giudiziosa. Un croato, nella leggenda di famiglia, era un uomo passionale che mi avrebbe rapito alla casa materna e portato con sé; ma era anche, e qui stava la minaccia, un uomo possessivo e autoritario, che avrebbe saputo dominarmi.

Avevamo riso insieme, dopo la prima cattura, quando provavo l’impossibile impresa di raccontarle quegli anni di libertà  clandestina, lontana da lei. Allora, la cosa più semplice era stato cominciare da lui, dall’uomo amato. Era attenta, intenerita da quell’amore sfortunato, da quella lontananza, dalla separazione drammatica del carcere. Cercava di dargli dei connotati, di vederlo, quell’uomo ora lontano, e da sempre assente dalla sua vita di madre. Era stata felice che fosse di origine slava, lei, così orgogliosa delle sue origini, orgogliosa di suo padre, dello sguardo randagio e inappagato di quella gente. È arrivato, allora, il croato, e abbiamo riso di nuovo con la complicità  di sempre, che pareva solo temporaneamente interrotta da quel decennio di viaggi.

Ma accade che certi viaggi non abbiano ritorno e che i cerchi non si chiudano.

Piangeva, quel giorno di un anno dopo, dall’altra parte del bancone, e non capivo quanto per il suo male, o per la nostra separazione, o per essersi dovuta spogliare davanti alla guardiana prima del colloquio. Impotente per il suo corpo che moriva, colpevole per la lunga assenza e per il progetto di fuga, non mi rimaneva che vendicare l’umiliazione imposta alla madre.

Al rientro in cella, scortata in un’aria di rancori contrapposti, chiusa dentro in tutta fretta, da dietro le sbarre mi è uscito un solo, lungo urlo. E mi sentivo il corpo squassato dall’odio, come mai prima, durante la mia guerra.

È morta, è morta a fine agosto.

Unàimmagine, un cuscino di gigli rossi sulla sua bara. Mi abbandono, non so fare altro, a questa immagine, pensando alla gondola nera che va verso l’isola popolata dai morti e dai gatti. Prima di affacciarsi sulla laguna, dove aumenta il silenzio, percorre la mappa intricata dei canali, dal piccolo rio che costeggia Caà Rezzonico all’isola, il viaggio non è breve. È il secondo tragitto che la ragazza veneziana percorre in gondola, come una turista ricca; il primo era stato per il suo matrimonio. Il remo affonda in un’acqua verde solido, ora più stretta, ora più ampia la misura tra i muri che, visti da lì, dal basso, appaiono altissimi. Rami di alberi piangenti si tuffano dai cancelli, l’aria di settembre è ferma. Il viaggio è lento, non si accorge nemmeno che il verde solido dell’acqua trascolora nel luccicore della laguna aperta. C’è tempo per osservare tutto ancora una volta, con quello sgomento dolce che accompagna l’abbandono della vita. Lo so, sai, com’é. Dal finestrino della macchina, i polsi legati dalla cravatta del carabiniere, anchàio guardo fuori, e so di guardare ciò che sto perdendo. La giornata è radiosa, non pare nemmeno fine ottobre. Da corso Sempione a via Moscova, riempio gli occhi famelici di platani autunnali, di gente, di strade. Guardo, e voglio che la memoria accolga tutto, mi riconsegni, poi, tutto comàè ora, anche con il filtro di questo scoramento.

So che lei dev’essere stata sepolta in terraferma, non sull’isola; ma nulla può censurare il desiderio che almeno un cerchio si chiuda, il suo, congiungendo acqua all’acqua, la sua nascita alla sua morte. Che almeno lei non sia orfana.

I gigli rossi, certo. Sono tra i suoi fiori preferiti.

Erano, tra i preferiti. Più ancora del prezioso giglio martagone, il nome mi faceva ridere, da bambina. Raro e nascosto, è un fiore sensuale, carnoso e allusivo quando è in boccio, tondeggiante quando, apertosi, ripiega i petali viola e neri all’indietro, secondo una curva perfetta. Il giglio rosso, invece, ha forma conosciuta, non esotica, e colore solare, grandi pistilli gialli che tingono le dita in modo indelebile. Stride il nome, lilium, il suo significato di purezza, con il colore baldanzoso, eccentrico e immodesto.

Lei scherza sempre, con il nome del fiore e il significato del mio nome. Io ti penserei lilium bianco, però, dice. Non so se indispettirmi, perché il bianco mi pare più scialbo, o se identificarmi con un’idea di perfezione. Si vedrà  quando cresci, dice.

Nei prati scoscesi, sotto la forma troneggiante e squadrata del monte Pelmo, ce nàerano tanti, di gigli rossi, venticinque anni fa. Ora, non so. Quando lei rompeva la tradizione familiare, e decideva di festeggiare il mio compleanno su, in montagna, ci si poteva riempire gli occhi con i prati di giugno.

L’erba alta, che nessuno aveva ancora falciato, rivelava fiori enormi, come cresciuti troppo per qualche evento straordinario. Mi stupivano, i prati di giugno, sembravano un eccesso, una dismisura. L’erba è alta come me, forse di più. Lei ama quella preda solare, ne raccoglie grandi mazzi. Lei suggerisce tattiche efficaci: è più facile scorgerli dall’alto. Cerchiamo i prati più scoscesi, li costeggiamo in salita, seguendo il sentiero, per poi ridiscendere in mezzo all’erba. Ci mettiamo in alto, sul ciglio di un pratone ripido, ferme e attente, come si trattasse di avvistare uno stambecco. E subito l’occhieggiare caldo dei gigli si stacca dal verde, emerge, balza fuori. Ci dividiamo con tacita intesa e scendiamo: io, a precipizio, lei lentamente, con i piedi messi di lato e di taglio, il fianco tondo rivolto alla valle, col passo cauto e pesante dei vecchi di montagna. Ma non è vecchia, ha poco più di trentacinque anni, quasi quanti ne ho io, ora.

Io sono eccitata, l’orgoglio mi fa arrossire quando posso indicarle un giglio più vicino a lei, e quando posso esibire un mazzo più rigoglioso del suo. La chiamo continuamente, pretendo la sua attenzione, voglio che mi guardi, che non perda nemmeno un attimo della mia corsa e del mio saccheggio. Guarda come sono svelta. Sono tutti per te.

Qualcuna apre lo spioncino, vuole che accenda la luce? No. Ma sta bene? Sì. Passano spesso, per guardami; hanno paura che faccia qualcosa contro il mio corpo.

Sono abituate a donne che esprimono il dolore con violenza, battono la testa contro il muro, rompono vetri e con le schegge si tagliano le vene dei polsi e delle braccia. E vengono portate, con l’aiuto di qualche uomo, in infermeria, e lasciano, come Pollicino, un sentiero di gocce di sangue lungo i ballatoi. E dopo pochi minuti appena la lavorante viene fatta uscire dalla sua cella, qualsiasi sia l’ora del giorno e della notte, per pulire quel sentiero, perché i pavimenti porosi non rendano incancellabile quell’orma di dolore e di impotenza.

Mia madre diceva che il dolore scava dentro, mi diceva di diffidare di chi lo esibisce, ne fa spettacolo. Era forse un modo per dirmi di farne esperienza, di non sputarlo fuori troppo in fretta. Lei non credeva ai riti collettivi, non attorno al dolore, almeno. Lei non credeva a dèi consolatori. O forse era solo orgoglio di figlia allevata da un padre severo, uomo di confine. Làho vista piangere poche volte, e sempre di solitudine, nascosta in cucina e colta di sorpresa. Una volta per la morte del nostro cane, e poi, l’ultima volta, dietro quel bancone. Non posso sapere quante volte ha pianto per me.

Guardano dallo spioncino ogni dieci minuti. Ogni volta accendono la luce, mi provocano piccoli balzi del cuore. Provo rabbia per questa osservazione del mio dolore.

Un ricordo mi strappa alla sconfinamento della mente. I gigli rossi, estremo tentativo di dirle ti amo anche da qui, da questa assenza. A settembre, in quel paese sulla costa, con il mercato nella piazza rinascimentale, la spiaggia piatta e poco popolata, il treno che sempre dovevo prendere al mattino presto, e sempre mi scaricava al tramonto; il tempo per un aperitivo, io e lui, prima di chiuderci nella piccola casa ammobiliata. Sentivo il tempo chiudermisi addosso, il progetto cui stavo lavorando aveva la lucidità  e la follia della battaglia finale. Mi ritagliavo scampoli di quotidianità , a volte, sola, girando per il mercato, tra le bancarelle, con le borse piene di frutti che non so se avrei mangiato, ma che mi piaceva toccare e comprare. Accanto a me, donne, e in me la sensazione tante volte provata di vivere dentro una bolla del tempo in cui si consumavano cose estreme: si combatteva una guerra, si uccideva e si moriva, si veniva catturati, picchiati, a volte torturati, si taceva o si tradiva. E poco più in là , donne che, sebbene affannate, vivevano in tempo di pace. Un vecchio vendeva oggetti antichi, piccolo antiquariato più o meno autentico. C’era una grande cesta colma di stampe di città  ottocentesche, e di fiori e piante riprodotti a mano, tratti da vecchi libri di botanica. Avevo rovistato un poà distrattamente, come fanno le donne quando non hanno fretta, fino a che non erano comparse stampe di fiori alpini; allora, avevo accelerato i movimenti. Sapevo cosa cercavo. Non era bellissima, quella riproduzione del giglio rosso, e certamente non era antica. Ma avevo bisogno di dirle qualcosa di più di quanto riuscivo a balbettare in messaggi di pochi secondi al telefono. Avevo fretta: forse per il rischio sempre maggiore che mi avvolgeva, per la sensazione di ineluttabilità  da cui non sapevo liberarmi, o forse per la sua malattia, che, scacciata dalle tensioni del giorno, si era saldamente annidata nei pensieri notturni, e da lì riaffiorava.

Estremo omaggio o atto di scongiuro, certamente slancio tardivo di figlia spaventata e colpevole.

Avevo preso un treno, percorso cento chilometri, avevo spedito la stampa ben arrotolata in un contenitore rigido che la proteggesse. Ed ero tornata a quel progetto di uomini liberi, di uomini morti, di mura da far saltare.

Passano di nuovo. Questa volta chiamo io. Mi accenda la luce; la faccia nel piccolo rettangolo è soddisfatta, come dicesse: finalmente.

Fuori dal mio tempo, il suo tempo aveva continuato a scorrere. A fine agosto, ha detto Alba. Il postino aveva consegnato il giglio rosso in una casa silenziosa, coperta dal velo invisibile di un lutto discreto. Penso a mio padre che riceve il fiore con il nome di lei, e la vede morire un’altra volta per mano della mia assenza. Mi risveglio al tempo, corruttore, così diverso dal mio eterno presente. Il messaggio della figlia in fuga alla madre morta destina il cerchio a non chiudersi mai più. L’assenza cristallizza una morte senza riti, il velo nero del lutto non potrà  più essere steso con gesto pietoso. Questa è la prima certezza che ho sul mio futuro dopo il vacillamento della cattura. Sono attonita, attonita e bambina.

Il meccanismo potente con cui ho governato la morte, quella che si cerca e si accetta e quella che si dà , chiusi dentro una dura certezza, mi si rompe tra le mani, inutile. A questa morte non posso dare senso, non c’è traccia di volontà  né di storia, non ci sono acrobazie della mente che valgano a lenire, a rassicurare. Non valgono le lingue che hanno tradotto altre morti, ne hanno allontanato se non il dolore, almeno la paura e oggi, ancora, rendono sopportabile il ricordo.

Questa è una morte senza messe e sepolture, con lei ho perso tutti gli appuntamenti.

Mi chiedo perché non piango, ora che sono arrivata al fondo e mi sono detta quasi una verità . È come se la certezza che questo dissidio sarà  l’espiazione mi concedesse una cupa, improvvisa calma.

Riappare la faccia allo spioncino e una mano senza corpo sporge all’interno qualcosa. Alba mi manda una tazza di camomilla, mi accudisce da lontano, mi cura in modo parallelo e altro dalla tutela del mio corpo fornita per legge. Con sollievo mi accorgo che è questo che desideravo, ma non mi sarei mai alzata, non avrei mai chiesto. Ancora, la sensazione di calore scioglie il grumo.

Di nuovo la faccia, appare sollevata, il mio pianto deve sembrarle finalmente normale, in regola con la situazione.

Alba e le ragazze mi mandano dei vestiti per il processo di domani.

Bisogna pensare anche a questo, a questo rito che si celebra per pareggiare certi altri conti in sospeso.

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