Klemperer testimone di due totalitarismi

DIARI Il filologo ebreo racconta l’anno 1945 in Germania
Victor Klemperer, filologo ebreo tedesco vissuto tra il 1881 e il 1960, è noto soprattutto per quel saggio illuminante che è Lti. La lingua del Terzo Reich – l’acronimo sta per «Lingua Tertii Imperii» -, dove il sopravvissuto alle persecuzioni antisemite raccoglie le proprie riflessioni sul linguaggio del totalitarismo nazista, sul modo in cui la macchina propagandistica del regime aveva mutato, prima ancora della realtà  sociale e politica, le parole per dirla e per viverci.

DIARI Il filologo ebreo racconta l’anno 1945 in Germania
Victor Klemperer, filologo ebreo tedesco vissuto tra il 1881 e il 1960, è noto soprattutto per quel saggio illuminante che è Lti. La lingua del Terzo Reich – l’acronimo sta per «Lingua Tertii Imperii» -, dove il sopravvissuto alle persecuzioni antisemite raccoglie le proprie riflessioni sul linguaggio del totalitarismo nazista, sul modo in cui la macchina propagandistica del regime aveva mutato, prima ancora della realtà  sociale e politica, le parole per dirla e per viverci.

In Italia, tuttavia, per leggere in traduzione questo testo apparso per la prima volta nel 1947, si dovette aspettare mezzo secolo: la Giuntina di Firenze lo diede alle stampe nel 1998, introdotto da Michele Ranchetti, forse sull’onda del grande successo editoriale incontrato in quell’epoca nell’area tedesca dall’opera più vasta e singolare di Klemperer, ossia i Diari che egli tenne fin da giovanissimo e la cui parte pubblicata, migliaia di pagine, copre gli anni tra il ’19 e il ’59. Di sorprendente, in questa impresa monumentale, ci sono innanzitutto l’acribia e la lucidità con cui Klemperer registra la propria vicenda esistenziale e intellettuale in quegli anni di radicali svolte e sventure storiche, prima durante il Terzo Reich e nell’estrema deriva bellica e omicida del suo imperialismo, poi nel difficile passaggio al socialismo reale della Germania dell’Est, dove Klemperer visse e fece carriera a dispetto di un mai rinnegato orientamento liberale.
Non dovette dunque stupire che, due anni dopo l’edizione fiorentina del saggio più celebre, uscisse per Mondadori – curata da Anna Ruchat e Paola Quadrelli e con una prefazione di Cesare Segre – proprio la parte più importante di quei diari, Testimoniare fino all’ultimo, che corrisponde cronologicamente al secondo volume dell’edizione tedesca e copre gli anni tra il 1933 e il 1945. Più curioso è il fatto che ora, a dieci anni di distanza, la nuova Scheiwiller mandi in libreria E così tutto vacilla. Diario del 1945, un tomo curato dalla stessa Ruchat che riprende nel titolo l’edizione tedesca dei diari dal giugno al dicembre del 1945, ma che appunto raccoglie anche ciò che scrisse Klemperer nella prima metà di quell’anno e che, di fatto, è ripreso sostanzialmente dal volume mondadoriano. Una scelta, quindi, che si discosta dall’editio princeps e di cui la curatrice, nella «nota al testo», afferma la paternità senza illustrarne la ragione, se non osservando che il 1945 «pur essendo un anno cruciale … non è mai stato pubblicato integralmente in un unico volume».
Resta il fatto che, con le parole della stessa Ruchat, quell’anno di scrittura diaristica «ha finestre spalancate sul “prima” e ci lascia intravedere il “dopo”», sicché la minuziosa cronaca quotidiana di quei dodici mesi giunge ad abbracciare implicitamente, foss’anche per minimi indizi, l’intero ventesimo secolo. Forse, del resto, non è neppure un caso che stavolta a introdurre Klemperer non sia stato chiamato uno storico o un filologo, ma uno scrittore come Antonio Moresco – la cui poetica contempla un’idea di fine e ricominciamento vicina a quella che prende forma nel diario così riproposto – a indicare un diverso orientamento editoriale, un’opzione di lettura in certo qual modo più militante. E Moresco nota appunto come nel diario di Klemperer, «installati nel baricentro di un’esistenza individuale, attraverso la pulviscolare immanenza della vita», si attraversi al tempo stesso «una catastrofe umana, morale, storica e spirituale che ha pochi equivalenti nel corso del nostro tempo di specie». Peccato che poi il prefatore si conceda un’accesa quanto impropria digressione sul «genere» del libro in questione, polemica verso le effimere etichette dei nostri tempi, che nuoce all’ingresso nell’opera. La cronologia bio-bibliografica e la mappa orientativa tra le quali è racchiuso il diario vero e proprio – corredato altresì da un indice ragionato dei nomi – sono invece molto utili per seguire l’autore in quell’anno estremo, «probabilmente il più rocambolesco della mia vita».
Figlio di un rabbino, ma convertitosi a trent’anni alla chiesa evangelica, Klemperer scampò alle persecuzioni grazie al matrimonio con l’«ariana» Eva Schlemmer, che aveva sposato nel 1906 e che emerge da queste pagine come una figura forte e fondamentale, complice di un affetto solidissimo. È con lei che l’ultrasessantenne Victor, in pensione forzata dall’entrata in vigore delle leggi razziali dopo un ventennio di onorevole attività accademica tra Monaco e Dresda, si trova ad affrontare, negli anni di guerra, i trasferimenti coatti in varie «Case degli ebrei». Finché, nel febbraio del 1945, il bombardamento alleato di Dresda e lo spettro del Lager non costringono i coniugi Klemperer, fortunosamente sopravvissuti, alla fuga verso sud. Raggiungeranno la Baviera e di lì, al cessare delle ostilità in Europa, ritorneranno a Dresda, dove l’anziano filologo si troverà alle prese con la propria «ricostruzione» individuale nel bel mezzo della «rieducazione» avviata dai sovietici.
Questo, per sommi capi, il filo per così dire narrativo delle oltre cinquecento pagine in cui Klemperer registra davvero tutto: la paura (indotta e non), la fame, i rifugi, le bombe, il terrore e la morte, la condivisione e le meschinità, i momenti più critici, a un passo dalla fine, e quelli di respiro, e poi la macchina propagandistica – è nei diari che si fissano in presa diretta le osservazioni e riflessioni che poi confluiranno in Lti -, l’occultamento dell’identità, le fughe per lo più a piedi, le soste di fortuna, la salute in bilico, le voci e le speranze, l’umanesimo irriducibile. Le lucide descrizioni di Dresda e Monaco devastate dai bombardamenti sono altrettanto memorabili, nella loro tragicità, dell’ambiguo susseguirsi di coloro che, nella seconda parte dell’anno, conoscenti o sconosciuti, si rivolgono all’autore per un «attestato di buona reputazione», ossia una dichiarazione di filosemitismo che permetta a chi in precedenza era vissuto nel regime hitleriano, con o senza tessera del partito, di legittimarsi agli occhi dei nuovi occupanti. I quali, del resto, appaiono fin da subito a Klemperer come inquietanti successori dei potenti sconfitti, tanto che egli battezza «Lingua Quartii Imperi» la retorica dei nuovi organi di comunicazione, pur fondata sui reali misfatti nazisti. Del resto è proprio il difficile «interregno» tra i due regimi, insieme con il timore che gli abusi dei russi possano ridestare le simpatie naziste, a generare il senso di precarietà di cui nel titolo: «Per tutti quanti è tutto così lento e vacillante: è lo stato generale nella Germania dell’estate 1945».
Ciò non inibirà tuttavia, il tentativo di Klemperer di impegnarsi e affermarsi nel nuovo contesto, e la lettera con cui egli accompagna la propria iscrizione al Kpd è esemplare di una sobria fedeltà a se stesso nella volontà di contribuire alla creazione dello stato nascente: «Credo che solo schierandoci nettamente a sinistra potremo tirarci fuori dalla miseria del nostro presente e difenderci da un ritorno di quel che è accaduto». Com’è poi andata, è cosa nota; del resto lo stesso Klemperer non cela mai, in queste pagine, il grumo contraddittorio di idealità e ambizione personale che lo accomuna ai propri simili, e questo è forse, tra gli aspetti incisivi del volume, il più edificante.

LIBRI: VICTOR KLEMPERER, E COSÌ TUTTO VACILLA. DIARIO DEL 1945, SCHEIWILLER, PP. 613, EURO 18,00

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