Adieu Glissant. Ogni atto poetico è conoscenza del reale

Nato in Martinica ottantadue anni fa, è morto a Parigi à‰douard Glissant, scrittore e grande teorico della creolizzazione, ossia del risultato imprevedibile dell’incontro tra culture, forme di sensibilità  e di intuizione diverse: una teoria esposta con metafore fastose

Nato in Martinica ottantadue anni fa, è morto a Parigi à‰douard Glissant, scrittore e grande teorico della creolizzazione, ossia del risultato imprevedibile dell’incontro tra culture, forme di sensibilità  e di intuizione diverse: una teoria esposta con metafore fastose

Édouard Glissant non amava il verbo «comprendere»: pronunciandolo, gli veniva alla mente un gesto di chiusura, di appropriazione, il movimento delle mani che prendono tutt’intorno e portano verso di sé. La sua poetica, al contrario, è fondata sulla relazione, sull’incontro e la condivisione. Volendo comprendere l’altro, si finisce col renderlo trasparente, col ridurlo ai propri schemi, se ne riconduce la differenza entro la norma. Glissant, al contrario, voleva entrare in rapporto con l’altro, accettandone, anzi, enfatizzandone, l’opacità. «Non mi è necessario capire l’altro per sentirmi solidale con lui, per costruire con lui, per apprezzare quel che fa», diceva. «Non c’è bisogno che tenti di diventare l’altro né di ricrearlo a mia immagine».
La relazione, per lui, non era un universale astratto, ma la somma delle differenze, colta in quella totalità-mondo entro cui si situa tutta la sua speculazione, quel tout-monde di cui egli ha scritto sino all’ultimo, cercando di analizzare l’enorme velocità con cui quel mondo nella sua totalità entra in rapporto con ognuno di noi. Quel mondo che – secondo il pensiero di Glissant – è la sola realtà che ci influenza direttamente. È un mondo in cui lingue, culture e identità si incontrano, si scontrano, si confondono; un mondo in cui il meticciato delle culture genera l’imprevisto; un mondo in cui occorre muoversi nella conoscenza dell’incertezza che verrà: «bisogna agire nel mondo senza agire sul mondo» – diceva. Aggiungendo che per fare ciò è necessario essere aperti al cambiamento, accettare il cambiamento come distanza tra il sogno dell’opera e l’opera realizzata, non lasciandosi sopraffare dall’inquietudine, che è rinuncia al sogno dell’assoluto, ma accettando l’imperfezione dell’opera, che non corrisponde mai al sogno.
Pensare per tracce non per sistemi
La sua è la speculazione di un poeta, che scrive di teoria in un linguaggio squisitamente metaforico, fastoso, elegante, musicale. Del resto, per Glissant compito della poetica è far entrare l’immaginario nel pensiero. Ma, così come quell’immaginario è meravigliosamente ricco e fertile, il pensiero che lo penetra è denso, profondo, originale: riflette quel «caos-mondo» che nasce dallo scontro e dall’incontro, dall’attrazione e dalla repulsione delle culture dei popoli, che non ha un centro, né una lingua che prevalga sulle altre, ma rispecchia, invece, il «desiderio impossibile di tutte le lingue del mondo», il multilinguismo inteso come coscienza di tutte le lingue dell’altro. Secondo Glissant, anche se conosce una sola lingua, lo scrittore contemporaneo deve scrivere «in presenza di tutte le lingue del mondo».
«Caos-mondo» non è, per Glissant, un termine dispregiativo: la realtà contemporanea è caotica non perché sia confusa o disordinata, ma perché è imprevedibile. Non è mappabile, non si presta a letture profetiche; ci costringe, invece, a un nuovo confronto, più fragile, più ambiguo: ci impone di misurarci con uno scontro e una simbiosi di culture passibili di generare effetti inaspettati. È questo il processo di creolizzazione, di ibridazione cui tutte le culture sono oggi sottoposte. Un processo che si compie attraverso l’esaltazione della differenza, il recupero dei valori umani autoctoni, la ricomposizione delle tracce fondamentali del passato «nelle savane della memoria», per costruire un nuovo sapere creolizzato, ibrido. Glissant chiama questo un «pensare per tracce» e lo oppone al «pensare per sistemi», che caratterizza la filosofia occidentale; è un pensiero che spaventa, perché genera l’imprevisto proprio della creolizzazione.
Azioni locali e pensieri globali
Afferma Glissant: «le culture cambiano. Il grande problema è che ne abbiamo tutti paura. C’è una paura di perdersi a contatto con l’altro, di diluirsi in quella specie di grande magma caotico che è il tout-monde». Pensare per tracce è rigettare i valori universali, mettersi in relazione con l’altro senza voler imporre i propri valori; aprirsi all’altro, riconoscerne la presenza in noi stessi, accettare l’appartenenza come partecipazione dell’altro nel sé, e, di conseguenza, disponibilità al cambiamento continuo per accogliere l’altro senza negare se stessi. L’identità, mai fissata e sempre in fieri, si costruisce soltanto attraverso una continua ridefinizione del sé e dell’altro: è una identità-relazione – quella teorizzata da Glissant – radicata in contesti molteplici, in continuo divenire, contaminata dai vari aspetti assunti dall’alterità.
All’universalismo della cultura classica e canonica occidentale, Glissant oppone l’esaltazione del barocco inteso come arte ridondante, che si moltiplica e si estende in orizzontale piuttosto che spingersi in profondità, orientata ad allargare i confini dell’universo piuttosto che a scandagliarli in cerca di rivelazioni. Barocco è tutto ciò che si oppone alle culture che propongono come universali i propri valori particolari: è esplosione di ricchezza immaginativa usata per svelare il lato oscuro della storia, proprio come accade nei romanzi di Glissant, dove il passato «occultato» dei vinti, degli schiavi, dei colonizzati è «sognato in maniera profetica»; è scrittura turgida, circolare, di ritorni e riprese tematiche e stilistiche, come nella sua poesia; è sempre e comunque una scrittura in cui si rivela, come nella sua saggistica, la «scintillazione delle lingue», carica di scorie e accordi, silenzi ed esplosioni. Attraverso il dettato barocco, la confusione creativa, lo scontro e l’intreccio delle identità, si stabilisce la relazione, vivendo la totalità-mondo a partire dal proprio luogo, senza con ciò «consacrare l’esclusione». Occorre, dunque, agire localmente e pensare globalmente, mettendo in discussione concetti come quello di patria, che hanno «sterilizzato l’immaginario dei popoli».
Il ruolo degli artisti, oggi, secondo Glissant, non può risolversi se non nel cambiare questo immaginario limitato, imporre il sentimento del mondo nella sua totalità, attirando l’attenzione sulle domande che nessuno osa porre, sulle verità che nessuno osa pronunciare, allo scopo di individuare ciò che il mondo è per ognuno di noi e mettere in pratica nella vita di ogni giorno il motto, semplicissimo ma alquanto impegnativo: Je change (io cambio). Giuliano Battiston
«Non si emettono parole nell’aria», ha ripetuto più volte nei suoi testi Édouard Glissant, poeta, romanziere, saggista nato nel 1928 a Bézaudin di Sainte-Marie, nell’isola di Martinica, e morto ieri a Parigi all’età di ottantadue anni. Ogni immaginario poetico, infatti, proviene dal luogo «in cui viene articolata la parola», un luogo che ne condiziona non solo il modo, ma la sua stessa possibilità di espressione. Il luogo di Glissant era la «Neo-America». In Poetica del diverso (Meltemi, nuova ed. 2004), sulla scia dell’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, Glissant distingue infatti fra «tre tipi di America: l’America dei popoli testimoni, di chi vi è sempre vissuto e che può essere chiamata Meso-America; l’America di chi è venuto dall’Europa e ha mantenuto sul nuovo continente gli usi, i costumi e anche le tradizioni del paese di origine, che può essere chiamata Euro-America… e l’America che potrebbe essere chiamata Neo-America, quella della creolizzazione, formata dai Caraibi, dal nord-est del Brasile, dalle Guyane e dal Curaçao, dal sud degli Stati Uniti e da una gran parte dell’America centrale e del Messico».
Il diritto all’opacità
E proprio alla creolizzazione della Neo-America l’autore di Poetica della relazione (Quodlibet 2007) avrebbe dedicato ogni sua energia: «Tutto ciò che ho scritto nel corso della mia vita, l’ho scritto per difendere la creolizzazione, intesa come il risultato imprevedibile dell’incontro tra culture, forme di sensibilità e di intuizione diverse», sosteneva nel 2007 in un’intervista. I microcosmi culturali e linguistici assolutamente inattesi creati nelle Americhe dallo scontro e dal consumo reciproco di elementi all’inizio del tutto eterogenei, l’irradiamento e la spiralità caratteristici del mare dei Caraibi – un «mare aperto, che diffrange», opposto al Mediterraneo «che concentra» – avrebbero infatti condizionato l’intera sua produzione: dalle poesie, molte delle quali raccolte nei Poèmes complets (Gallimard 1994), ai romanzi come La Lézarde e Il quarto secolo (Edizioni Lavoro 2003), fino ai saggi come Le Discours antillais e Traité du Tout-Monde. Soprattutto, lo avrebbero sollecitato a contestare quella concezione «sublime e mortale che i popoli dell’Europa e le culture occidentali hanno veicolato nel mondo, ovvero che ogni identità è un’identità a radice unica, escludente ogni altra». Ai ripiegamenti identitari e alla falsa universalità del pensiero occidentale, da cui derivano settarismi e intolleranze, ai vecchi demoni della purezza e dell’essenzialismo, Glissant ha saputo opporre derive e accumulazioni, ridondanze e distorsioni, frutti di un pensiero intuitivo, fragile e ambiguo. Un pensiero fondato sulla rivendicazione del diritto all’opacità, perché «non è più necessario ‘comprendere’ l’altro, cioè ridurlo al modello della mia stessa trasparenza, per vivere con lui o per costruire con lui».
Rinunciando all’idea di un ordine sovrano che riconduca una volta per tutte ogni cosa ad unità, Glissant ha elaborato – nutrendosi delle riflessioni di Felix Guattari e Gilles Deleuze in Millepiani – una sua versione della «identità rizomatica». Mentre Deleuze e Guattari «hanno utilizzato questa immagine del rizoma come radice ‘moltiplicata’, ‘proliferante’ e l’hanno opposta alla dimensione esclusiva e totalizzante della radice unica, applicando questa immagine al modo di operare del pensiero, io l’ho usata per offrire una definizione dell’identità» – ha spiegato nel corso di un nostro incontro. L’identità, per Glissant, era dunque costitutivamente una relazione, un’apertura all’altro, un luogo di scambio tra il «medesimo» e il «diverso» in cui ciò che conta è il nodo, la maniera in cui si entra in contatto con gli altri. Non, dunque, un’identità evanescente, un’abdicazione del soggetto, perché pur respingendo l’idea di una radice totalitaria Glissant ne rivendicava comunque il radicamento nel luogo, vera condizione per l’apertura al «caos-mondo», ovvero «lo choc, l’intreccio, le repulsioni, le attrazioni, le connivenze, le opposizioni, i conflitti tra le culture dei popoli, nella totalità-mondo contemporanea». Idee che trasferite sul piano compositivo si sono tradotte nella rinuncia all’unicità formale in favore della necessità barocca di inventare forme multiple e della «volontà di disfare i generi, questa divisione che è stata così utile, così fruttuosa nel caso della letteratura occidentale». Sul crinale di una nuova storica fase di passaggio, «non più dall’orale allo scritto, ma dallo scritto all’orale», questa divisione risulta infatti inadeguata, e oggi «possiamo scrivere poesie che siano saggi, saggi che siano romanzi, e romanzi che siano poesie» (come si vede, per esempio, in Sartorius, Tutto-Mondo, Edizioni lavoro 2009, vero e proprio «romanzo disintegrato», ambientato in Martinica).
In presenza di tutte le lingue
Altrettanto inadeguato risulta, com’è ovvio, l’ancoraggio al monolinguismo: ogni scrittore moderno – sosteneva Glissant – «non è monolingue, anche se non conosce che una sola lingua, perché scrive in presenza di tutte le lingue del mondo». Il suo sforzo, quindi, non deve essere quello di puntare alla linearità convenzionale della scrittura, ma di assecondare la nuova oralità vibrante e creativa, «occasione di ansia vivificatrice per il poeta», dirottando e sovvertendo il linguaggio attraverso aperture linguistiche che – diceva – gli «permettano di pensare i rapporti delle lingue tra loro, oggi, sulla terra, come il prodotto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia cui la sua lingua non può sottrarsi».
Da qui, l’importanza crescente della traduzione, «arte della fuga da una lingua all’altra, senza che la prima si cancelli e senza che la seconda rinunci a presentarsi». Arte dello sfiorarsi e dell’avvicinarsi, e pratica esemplare del «pensiero della traccia». Quel pensiero che «suppone e comporta non il pensiero dell’essere ma la divagazione dell’esistente». Pensiero arcipelagico, non sistematico, che al teleologismo della tradizione culturale occidentale sostituisce l’impronta, fragile ma persistente, di una visione profetica del passato. E che si affida alla poesia, all’esercizio dell’immaginario per cambiare il mondo. Perché ogni atto poetico – sosteneva Édouard Glissant – «è un elemento della conoscenza del reale».

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L’AUTORE
Tra i suoi titoli, romanzi, poesie, saggi sulla ridefinizione dell’identità
Teorico, poeta e saggista, Édouard Glissant ha scritto le sue prime opere dopo avere studiato etnografia al Musée de l’Homme di Parigi, e storia e filosofia alla Sorbona. All’inizio aveva aderito alle tesi della negritudine, mentre in seguito avrebbe elaborato il concetto di antillanità e di creolizzazione. Poi, vicino alle posizioni di Frantz Fanon, fondò insieme a Paul Niger, nel 1959, il Front antillo-guyanais d’obbedienza indipendentista, poi autonomista, ragione per la quale gli fu vietato di soggiornare sulla sua isola natale, dal 1959 al 1965. Una volta tornato in Martinica fondò lì l’Istituto Martinicano di Studi e la rivista di scienze umane «Acoma». Dal 1982 al 1988 fu direttore del Courrier de l’Unesco, poi alla City University di New York insegnò letteratura francese. La sua riflessione sul concetto di identità rizomatica, aperta al mondo e alla relazione fra le culture, propone una terza via rispetto all’assimilazione e all’orientamento binario dei discorsi sulla negritudine di Aimé Césaire in Martinica o Léon Gontran Damas in Guyana, o Guy Tirolien In Guadalupa.

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