Gli ebrei protetti dai re ma detestati dalla plebe

I precedenti impedirono di capire la minaccia di Hitler

I precedenti impedirono di capire la minaccia di Hitler

C’ è un grande mistero nella storia della Shoah. Come è possibile che nel 1940, quando il ghetto di Varsavia ormai stracolmo fu sigillato dai nazisti, ci furono ebrei che dissero di provare «quasi un senso di sollievo»? E cosa spinse alcuni di loro a cooperare con gli aguzzini nell’amministrazione dei ghetti? Queste domande se le è poste Yosef Hayim Yerushalmi — il più grande studioso di storia e cultura ebraica del Novecento (è scomparso nel 2009), già docente alla Columbia University, nonché autore di Zakhor e di Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco (pubblicati entrambi da La Giuntina). Come risposta, Yerushalmi ha ipotizzato che ciò sia accaduto perché a quegli ebrei poteva sembrare che «la loro situazione, fino ad allora incerta, dovesse in quel momento diventare stabile e definitiva». Dopotutto i ghetti non erano una novità e gli israeliti erano sopravvissuti per secoli anche a quelli. E infatti, quando erano state emanate le leggi di Norimberga, per un «equivoco comprensibile», esse furono recepite in ambito ebraico come un «ritorno al Medioevo». Talché «gli ebrei avrebbero lavorato, come già facevano, per le industrie tedesche»; quindi in fin dei conti sarebbero stati «utili» e, considerata la loro «utilità», chi poteva immaginare che qualcuno potesse avere davvero in mente di eliminarli tutti? Fu così che, a Varsavia, i primi testimoni oculari di quanto stava accadendo a Treblinka non furono creduti. Solo quando lo stesso ghetto della capitale polacca «iniziò ad assomigliare a un campo di sterminio», soltanto dopo che dei 430 mila ebrei ne rimase in vita meno del 10 per cento e si ebbe la certezza che i nazisti miravano alla loro eliminazione totale, solo allora scoppiò la rivolta.
La prima a sollevare questo tema era stata Hannah Arendt in La banalità del male (Feltrinelli), volume che, com’è noto, riproponeva, nel 1963, i reportage per il «New Yorker» dal processo di Gerusalemme al criminale nazista Adolf Eichmann (il titolo originale del libro era, appunto, Eichmann in Jerusalem; ne nacque un caso di cui si è occupato Pierluigi Battista su queste colonne il 30 marzo scorso). La Arendt si era spinta molto in là e, riferendosi agli Judenrat (i Consigli ebraici), aveva scritto: «Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebrei riconosciuti, e questi capi, senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o in un altro, per una ragione o per l’altra; la verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni». La scrittrice rimproverava a Leo Baeck, presidente onorario del Consiglio degli anziani del lager di Theresienstadt, di non aver rivelato ai suoi fratelli, in procinto di lasciare il campo, che ad Auschwitz sarebbero stati uccisi con il gas. Parole che provocarono reazioni assai indispettite anche da parte di intellettuali ebrei fino a quel momento amici della Arendt.
Un tema che fa discutere ancora oggi. Anche dopo gli studi di Isaiah Trunk e di altri (tra cui Gustavo Corni con l’esauriente I ghetti di Hitler, edito da Il Mulino), dai quali si sono conosciute meglio alcune vicende assai particolari. Come quella di Mordechai Chaim Rumkowski, presidente dello Judenrat del ghetto di Lodz, il quale aveva atteggiamenti da despota, si aggirava per le strade «incedendo come un re» e mostrava tutti i sintomi di una «megalomania patologica». O di quei poliziotti ebrei nei ghetti che divennero tristemente noti per la loro brutalità. Ma anche, in modo opposto, del presidente del Consiglio ebraico di Varsavia, Adam Czerniakov, che si suicidò il secondo giorno della massiccia deportazione del luglio 1942. Quello stesso anno ci furono due tentativi — di cui il primo riuscito — di suicidio collettivo di un intero Consiglio (a Bereza Kartuska e a Pruzana). Iniziativa, peraltro, criticata dagli abitanti del ghetto. «Si riteneva», ha scritto Trunk, «che l’intellighenzia non avrebbe dovuto abbandonare la comunità, arrendendosi alla disperazione anziché servire da esempio per preservare la comunità stessa da un crollo spirituale in quei momenti cruciali».
Quegli ebrei, ha detto anni fa in una conferenza a Monaco Yosef Hayim Yerushalmi (conferenza il cui testo integrale, magistralmente tradotto da Paola Buscaglione Candela, è adesso pubblicato da La Giuntina, insieme a un’acuta introduzione di David Bidussa, con il titolo Servitori di re e non servitori di servitori. Alcuni aspetti della storia politica degli ebrei), ragionando e comportandosi in quel modo, «seguivano semplicemente il modello millenario del rapporto della dirigenza ebraica con il potere; gli uomini che giornalmente andavano a trattare con le SS o con la Gestapo, intendevano il loro ruolo in modo sostanzialmente non diverso da Filone quando andava a incontrare Caligola». Filone? Caligola? In che senso?
Con un salto indietro di diciannove secoli ci spostiamo, con Yerushalmi, ad Alessandria d’Egitto negli anni immediatamente successivi alla morte di Cristo. Ad Alessandria viveva una vasta e fiorente comunità ebraica, in possesso da tempo «di ampi privilegi che dovevano essere attentamente salvaguardati». Benché culturalmente assimilati, gli ebrei di Alessandria erano separati dalla popolazione greca pagana per l’irriducibile unicità del loro monoteismo, «una diversità spesso aggravata da rivalità economiche». Gli indigeni, egiziani non ellenizzati, «non riuscivano in alcun modo a sollevarsi dalla loro condizione di degrado e oppressione, mentre le colonie di stranieri presenti in città non avevano nessuna ragione speciale per fare causa comune con gli ebrei». Date queste circostanze, non c’è da meravigliarsi che gli ebrei di Alessandria guardassero a Roma — piuttosto che alle altre comunità o ai rappresentanti in loco del sovrano — come «garante dei loro diritti». Nel 38 d.C. accadde che una folla di greci tentasse di far entrare a forza nella sinagoga immagini dell’imperatore. Gli ebrei resistettero, contro di loro si scatenò un pogrom e nessuno cercò di impedirlo. Fu allora che il grande filosofo ebreo Filone andò a Roma dall’imperatore, Gaio Caligola, a denunciare l’accaduto, nonché il mancato sostegno alla sua gente da parte di Flacco, prefetto romano ad Alessandria. Caligola concesse poco, quasi nulla. Ma quel poco o nulla fu sufficiente a Filone per definirlo «salvatore» e «benefattore».
Già duemila anni fa, si può affermare, gli israeliti scelsero di privilegiare le alleanze verticali (con i re) a dispetto di quelle orizzontali (con gli altri popoli). Del resto lo aveva notato proprio Hannah Arendt, in un altro suo fondamentale volume, Le origini del totalitarismo (Edizioni di Comunità), laddove aveva messo in luce che gli ebrei «si rifacevano alle esperienze fatte sotto la protezione dell’Impero romano e più tardi durante il Medioevo, quando la loro esistenza era stata più o meno garantita dai monarchi e dalla Chiesa». Allora «avevano imparato che in qualche modo era meglio dipendere dalle massime autorità di un Paese che trovarsi alla mercé delle autorità locali, che l’effettivo pericolo era sempre costituito dal popolaccio». In realtà era stato così da molto prima di Filone e Caligola, fin dai tempi dell’esilio babilonese e, precedentemente, in Egitto. «Essenzialmente, l’archetipo dell’ebreo di corte si può ritrovare già nella stessa Bibbia ebraica e da allora ha costituito gran parte della memoria e della coscienza collettive dell’ebraismo… Un esempio di questo archetipo nella Bibbia è Giuseppe che salva l’Egitto dalla carestia, riuscendo così a portare contemporaneamente al sicuro i suoi confratelli; oppure Mordechai che, nel Libro di Ester, salva la vita del re Assuero e, come conseguenza, riscatta gli ebrei persiani».
Poi in età romana — a parte tre grandi rivolte ebraiche, tutte di natura messianica e tutte represse nel sangue — fra israeliti e Stato (ma anche Chiesa) si creò un regime di convinta convivenza. «Il giudaismo», osserva Yerushalmi, «fu religio licita sia agli occhi dello Stato che della Chiesa; le sinagoghe, benché a volte distrutte da folle di fanatici cristiani, venivano protette». E badate che «le cose sarebbero potute andare diversamente, se il giudaismo fosse stato dichiarato un’eresia; in quel caso niente avrebbe potuto impedire la conversione forzata o la totale, deliberata eliminazione fisica degli ebrei».
Dopo la caduta di Roma, poi, «l’essenziale politica di tolleranza, con le sue connesse ambiguità, venne assorbita dal Medioevo». Ed è nel Medioevo che si sviluppano nella loro pienezza le dinamiche dell’«alleanza regia», al centro dell’interesse di questo libro. Negli statuti emanati da Carlo Magno e da Ludovico il Pio gli ebrei «appartengono» all’imperatore. Si stabilisce addirittura che se un ebreo viene ucciso, l’uccisore paghi l’enorme somma di dieci libbre d’oro — praticamente il doppio di quel che l’omicida avrebbe dovuto sborsare se avesse assassinato un cavaliere cristiano — perché il denaro andava a finire direttamente nell’erario imperiale. E, dopo l’anno Mille, è tutto un fiorire di concessioni agli ebrei che ogni sovrano, per darsi lustro, vuole attirare sulle proprie terre. «Basterà dire», scrive Yerushalmi, «che tutti gli statuti — come del resto la legislazione corrente relativa agli ebrei — rispondono allo stesso modello: mostrano cioè, assieme a restrizioni variabili, l’impegno delle autorità centrali a mantenere e proteggere i diritti basilari della vita degli ebrei stessi, le loro proprietà nonché l’autorizzazione a praticare la loro religione».
E la Chiesa? Per il mondo cristiano vale più o meno lo stesso discorso. Un «Editto in favore degli ebrei» fu emanato da Callisto II agli inizi del XII secolo per poi ricevere forma definitiva nel 1199 da Innocenzo III. Sì Innocenzo III, un Papa non certo tenero nei confronti degli israeliti, che nel 1215 avrebbe presieduto il IV Concilio lateranense, a partire dal quale agli ebrei sarebbe stato imposto di portare un contrassegno. Eppure, «in modo solo apparentemente paradossale», papa Innocenzo si esprime con queste parole: «Benché la perfidia ebraica sia sotto tutti gli aspetti meritevole di condanna, tuttavia, poiché attraverso loro è provata la verità della nostra fede, loro non devono essere duramente oppressi dai credenti». E così, proprio come non si dovrebbero autorizzare gli ebrei a fare nelle loro sinagoghe «più di quello che la legge loro consente», così «non dovrebbero subire limitazioni dei privilegi loro concessi». In qualche modo con queste formulazioni si annunciava per loro una forma di protezione. Papa Gregorio IX giunse a protestare con il re di Francia Luigi IX per i maltrattamenti subiti da alcuni suoi sudditi ebrei, vessazioni di cui era stato edotto da una loro «lacrimevole e commovente lagnanza». E fu così che «in epoche di tensioni o pericolo, gli ebrei in definitiva guardarono come protettori non solo ai re, ma anche ai Papi».
Tale circostanza portò alla costruzione di una tela di rapporti molto importanti tra ebrei, sovrani e Papi, ma soprattutto alla nascita di una nuova categoria sociale, quella dei rappresentanti del mondo ebraico: «Chi negoziava gli statuti, chi trattava con i re e i nobili, quando i diritti riconosciuti per tradizione agli ebrei venivano violati, chi altri portava davanti al Papa le “lacrime” degli ebrei francesi se non i capi riconosciuti delle comunità ebraiche e i loro delegati ed emissari?». Tutto questo e altro ancora, scrive Yerushalmi, «fa parte di una storia, non ancora raccontata, della diplomazia israelitica che, una volta scritta, dovrebbe demolire definitivamente il mito della passività ebraica nei confronti della storia». A partire dal califfato di Cordova (X secolo) fino al 1492, cioè per oltre cinque secoli, «gli ebrei servirono fedelmente i loro governanti sia musulmani che cristiani, non solo come esattori delle tasse e finanziatori, ma come consiglieri, diplomatici, traduttori e medici». Persone interamente dedicate, per centinaia di anni, a cementare il patto tra popolo e sovrano.
Nell’Europa medievale l’«alleanza regia» fu basata sul presupposto che gli ebrei «appartenessero» al re. Addirittura al suo «erario», come specificava, nel 1157, lo statuto di Worms, su disposizione di Federico Barbarossa. Termine, «erario», che «ha fatto scorrere fiumi di inchiostro erudito e ha tratto molti in errore». Secondo Yerushalmi quell’espressione non significa che gli ebrei si trovavano letteralmente nella condizione di servi e questo «dovrebbe essere chiaro a chiunque conosca la reale situazione della vita medievale ebraica»: gli ebrei non furono mai vincolati alla terra, nessuno fu ridotto in schiavitù; in linea di principio, tutti avevano libertà di movimento e «il loro stile di vita si avvicinava più che altro a quello dei cittadini».
Fu Yitzchak Arama, nel XV secolo, a spiegare nel modo migliore ciò che questa servitus judaeorum significava davvero: era stato deciso dalla divina Provvidenza che gli ebrei, dispersi per il mondo, non dovessero essere assoggettati a normali padroni, bensì «dovessero rimanere nelle mani dei sovrani della terra così da essere servitori dei re e non servitori dei servitori (di qui il titolo del libro di Yerushalmi, ndr)». Un privilegio, dunque. «Chi è un vassallo dei nobili del monarca non è in condizione così elevata come un vassallo del re, perché il vassallo del re è temuto anche dai nobili e dai ministri, a causa del rispetto a cui i nobili sono tenuti nei confronti dello stesso re», ha chiosato Bahya ben Asher. Quel genere di servitù è insomma ai loro occhi una condizione tutta positiva. «Anziché vedere la loro servitù nei confronti del re come un’umiliazione», scrive Yerushalmi, «loro, ma anche altri, la vedono come un segno di condizione elevata, qualcosa da incrementare».
Fu Shelomoh Ibn Adret, rabbino di Barcellona nel XIII secolo, a spiegare bene i termini della questione. I re gentili «possiedono» la loro terra e con essa gli ebrei che la abitano. Agli ebrei è consentito di vivere su quella terra se si sottomettono alla volontà del sovrano che, se volesse, potrebbe espellerli. Perciò gli ebrei sono «obbligati» a ubbidire ai decreti del re, con l’eccezione del caso in cui tali decreti violino la legge mosaica. È importante perché Ibn Adret era ben consapevole del fatto che «nei regni spagnoli non operava solo la legge del re, ma esistevano sia una miriade di norme consuetudinarie, spesso in conflitto l’una con l’altra, sia privilegi di nobili, municipalità, regioni». Trovandosi in questo «labirinto di leggi», gli ebrei dovevano convincersi che «quanto più grande era il numero di giurisdizioni al di sopra di loro, tanto maggiori sarebbero stati gli obblighi e le tasse, e tanto più incombente il rischio di essere vessati dalle autorità locali». Era quindi fondamentale accentuare la propria obbedienza alle «leggi del re» e contrastare apertamente le «leggi degli altri».
Dopodiché, racconta Yerushalmi, l’«alleanza regia» fu soprattutto un modello ideale e le realtà si fecero via via più complicate. Nei regni spagnoli, gli ebrei, «con tutti i loro redditi», venivano talvolta «passati» dal re ai grandi ordini militari piuttosto che a nobili con cui il sovrano si era indebitato o dai quali aveva bisogno di essere sostenuto. In Francia erano spesso sotto la giurisdizione dei baroni, «benché nel XIII secolo la centralizzazione del regno avesse ristabilito la maggior parte delle prerogative del re». In Polonia, a partire dal XVI secolo, la nobiltà divenne più potente dello stesso monarca, spesso acquisendo un diretto controllo sugli ebrei. Sicché talvolta la protezione «pur genuina» del Papa o del re, giungeva troppo tardi o non riusciva a essere efficace.
Ci furono due casi, poi, in cui l’alleanza regia si spezzò del tutto: con Sisebut nella Spagna visigota del 613 e, poco meno di nove secoli dopo, con Manuel del Portogallo (1497), allorché i sovrani ordinarono la conversione forzata di tutti gli ebrei che vivevano nei loro regni. Inoltre, a partire dal 1290, dapprima in Inghilterra, intere comunità ebraiche vennero espulse dal Paese, «in una catena che sarebbe terminata con la cacciata dalla Spagna del 1492». Ma, secondo Yerushalmi, nessuno di questi avvenimenti «riuscì ad alterare nella loro essenza le varie dinamiche o la comprensione che gli ebrei avevano dell'”alleanza regia”». Soprattutto in Spagna. Come è ben descritto nello Shevet Yehudah («Lo scettro di Giuda») scritto da Shelomoh Ibn Verga, vissuto a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento. Agli occhi di Ibn Verga, «i re e in genere i funzionari regi sono sempre appassionati protettori degli ebrei contro gli attacchi della plebaglia». Se gli ebrei non si salvano, «non è per malvolere del re, ma per l’ostinazione e il potere della plebe». Caso esemplare, secondo Ibn Verga, è quello di Gonzalo Martinez de Oviedo, che suggerisce ad Alfonso XI di espellere gli ebrei; insiste, insiste ancora finché l’arcivescovo di Toledo lo apostrofa con le seguenti parole: «Avete attirato la vergogna sulla vostra casa, perché veramente gli ebrei sono un tesoro per il re, un buon tesoro… Ma voi cercate di distruggerli e spingete il re a fare ciò che suo padre non fece; non siete un nemico degli ebrei, ma del re!».
Dunque, trono e altare sono (e devono restare) un punto di riferimento per gli ebrei, a difesa dal vero nemico, il popolino con i suoi mutevoli umori. E, se è vero che, come si è detto, ci furono i sovrani che fecero atti a danno degli ebrei, quei re vanno tenuti nel conto di «rare eccezioni». E le espulsioni in massa successive al 1492? «Le espulsioni», scrive Ibn Verga, «furono decise solo a causa di alcuni delle classi inferiori i quali sostenevano che, con l’arrivo degli ebrei nel regno, il loro cibo costava di più e che inoltre gli ebrei danneggiavano i loro commerci». Le espulsioni «erano dovute anche ai preti, perché questi, volendo esibire la loro religiosità e mostrare al popolo che intendevano onorare ed esaltare la religione di Gesù Nazareno, predicavano ogni giorno cattiverie contro gli ebrei». Ma «dagli altri cristiani essi erano onorati benché vivessero in quel loro Paese ed erano da loro molto amati come sanno bene gli anziani di Spagna». Dunque: re, aristocrazia, Papa e alti prelati erano gli amici; masse e basso clero, i nemici. In più, prosegue Yerushalmi, «è storicamente rilevante la circostanza che dopo il 1492, nelle comunità di rifugiati dell’Impero ottomano, i sultani turchi venissero celebrati come salvatori».
Che cosa rimase di questa lunga esperienza medievale nelle menti degli ebrei? Resta «che in un mondo relativo», risponde l’autore, «le alleanze verticali erano generalmente le più favorevoli per loro; che tali alleanze erano fondate sull’utilità degli ebrei per i loro governanti; che se in qualsiasi momento i governanti non li avessero più ritenuti utili, la diplomazia, le lobby, perfino una vera e propria corruzione, potevano talvolta allontanare una dura sentenza; che se tutto il resto crollava e veniva meno, le peggiori misure di cui era capace lo Stato medievale erano il battesimo forzato (un’eccezione, storicamente) o l’espulsione, cose abbastanza tremende, ma meglio di un massacro… Nessun re medievale lo prescrisse mai, nessun Papa lo autorizzò, dove si verificò, non fu ordinato dall’alto».
Man mano che passavano i secoli, poi, l’«alleanza regia» si confermava per gli ebrei la soluzione migliore. In tutti i regimi. Prima, durante e dopo la Rivoluzione francese, quando gli eserciti napoleonici esportarono la prima, importante esperienza di emancipazione degli ebrei in Italia, in Olanda, in parte della Germania e della Polonia. «La Germania è la nostra Sion e Düsseldorf la nostra Gerusalemme!», si sentì di dire un rabbino tedesco nei primi anni dell’Ottocento. Gli israeliti riconoscevano «che il raggiungimento dell’uguaglianza civile e politica dipendeva non solo dalla nascita di Stati-nazione, ma da quella di Stati unificati, perché solo uno Stato centralizzato poteva garantire e appoggiare i loro diritti». Il re con cui stipulare un patto di alleanza doveva essere uno e uno solo. Così gli ebrei appoggiarono l’unificazione dell’Italia e della Germania, proprio come nel XV secolo avevano sostenuto l’unione di Aragona e Castiglia sotto Ferdinando e Isabella. E ritennero che ci avrebbero pensato gli Stati a debellare l’antisemitismo.
Lo schema dell’«alleanza regia» portò gli ebrei, nei secoli, a sovrapporre la propria immagine a quella dello Stato in cui risiedevano. Con alcune conseguenze impreviste e, per loro, assai negative. Qualcosa che Hannah Arendt ha efficacemente descritto: «In più di cent’anni (tra la metà dell’Ottocento e quella del secolo successivo, ndr) l’antisemitismo aveva lentamente fatto presa in uno strato dopo l’altro di quasi tutti i Paesi europei, finché all’improvviso si presentò come la piattaforma su cui si poteva ottenere l’unità dell’opinione pubblica, irrimediabilmente divisa su tutti gli altri problemi; la legge secondo cui si era svolto questo processo era semplice: ogni classe della società che era venuta a trovarsi in conflitto con lo Stato in quanto tale era diventata antisemita, perché l’unico gruppo sociale che sembrava rappresentare lo Stato erano gli ebrei».
A quel punto gli ebrei sovrastimarono i possibili effetti benefici dell’«alleanza regia», sottostimando nel contempo i fenomeni di ostilità al loro popolo. Del resto, spiega Yerushalmi, «nel corso di tutta la loro esperienza storica non esiste nulla che li abbia preparati intellettualmente o psicologicamente a quanto accadde tra il 1940 e il 1945; i governanti hanno saputo opprimere gli ebrei in vari modi, ma mai, né nell’età antica, né nel Medioevo, una distruzione totale era stata imposta dall’alto». Già, e i pogrom russi? Non furono riconducibili agli zar — risponde Yerushalmi —, zar che li costrinsero sì in quel ghetto che fu denominato «zona di residenza obbligata», li vessarono in mille modi, ma non furono in nessuna maniera responsabili né dei pogrom del 1881 né di quello terribile di Kishinëv del 1903.
Yerushalmi si spinge fino ad assolvere in qualche modo il regime spagnolo di Francisco Franco («durante la Seconda guerra mondiale, salvò circa cinquantamila ebrei») e persino l’Italia fascista: «Il massimo cui arrivò Mussolini furono le leggi razziali del 1938, ma l’eliminazione finale di un quinto degli ebrei italiani non fu opera sua», scrive. Parole che, immaginiamo, provocheranno qualche reazione di sdegno o quanto meno una discussione accesa.
Così come farà discutere quel che l’autore dice dei secoli che precedettero l’età moderna: «Nonostante fosse un’epoca terribile, il Medioevo, almeno ai massimi livelli di potere, conosceva ancora dei limiti che non si potevano oltrepassare». Limiti che furono ampiamente superati, invece, nel Novecento. E lo sono tuttora. Detto tutto ciò, Yerushalmi chiede di non essere frainteso e sostiene di non nutrire «alcuna nostalgia per il Medioevo». Dopotutto, aggiunge con una dose di ironia, «si nasce sempre nel periodo sbagliato». Ma «se non possiamo scegliere il luogo in cui siamo destinati a vivere, ciò non significa che dobbiamo accettare come inevitabili le sue depravazioni». E ben si intende che tali depravazioni, a suo avviso, non sono solo quelle riconducibili ad Adolf Hitler e ai tempi terribili dell’esperienza nazista.

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