La lingua cancellata di Emilio Isgrò Fantasmi che pesano più delle parole

Nelle sue tele i testi e le macchie sono un rifiuto del «buon senso»
Nelle sue tele i testi e le macchie sono un rifiuto del «buon senso»

Iconofilia e iconoclastia. Si tratta di concetti che, lungi dall’opporsi, possono essere considerati come due facce della medesima medaglia: quasi arrivano a coincidere, come momenti di un unico gesto. Questa convinzione è all’origine della poetica di Emilio Isgrò, documentata ora in Modello Italia, un’ampia antologica, a cura di Angelandreina Rorro, alla Galleria d’arte moderna di Roma (da domani al 6 ottobre; catalogo Electa).
Un’esposizione che, idealmente, inizia dal punto in cui si chiudeva la grande mostra che il Pecci di Prato nel 2008 aveva dedicato all’artista siciliano. L’itinerario proposto non procede in maniera lineare, dagli esordi (i primi anni 60) agli esiti più recenti. Siamo invitati a compiere una passeggiata a ritroso. Che, nelle sale del pian terreno, ospita i lavori degli ultimi cinque anni: da Dichiaro di essere Emilio Isgrò (2008) a Modello Italia (2012), passando per Fratelli d’Italia (2009), Sbarco a Marsala (2010), La Costituzione cancellata (2010), Codici ottomani (2020) e Weltanschauung (2007). L’epilogo è costituito dalle opere eseguite tra il 1964 e il 1985, sistemate al piano superiore della Gnam: come Volkswagen (1964), Jacqueline (1965), Enciclopedia Treccani (1970), i primi Libri cancellati e l’emozionante Ora italiana (1985), ispirata alla strage di Bologna.
Attraversare le sale del museo romano è un modo per entrare in un’ossessione: e nelle sue tante declinazioni. Ci si imbatte nei capitoli di un romanzo visivo, il cui autore è un artista che, pur essendosi accostato a gruppi e a tendenze (la poesia visiva e il concettualismo), è riuscito sempre a salvaguardare la sua ostinata autonomia.
Non un isolato, né un eclettico. Ma una personalità irrequieta, che ha avvertito la necessità di dialogare con esperienze e pratiche diverse, senza mai però abbandonare il suo «tema». Perché questo irrefrenabile appassionato di contaminazioni, forse «indisciplinato» (come lo definisce Ferruccio de Bortoli in uno dei testi in catalogo), in fondo, nella sua vita, ha fatto innanzitutto questo: ha provato ad accostare la sua attitudine iconofila e il suo slancio iconoclasta. Appropriazione e spossessamento.
In linea con la lezione del Dadaismo, Isgrò muove sempre da qualcosa che già esiste. Centrale, per lui, è la fase del prelievo. Acquisisce non oggetti anonimi o industriali, ma materie dense di memorie, di spessori culturali: enciclopedie, codici, libri, manifesti, giornali. La sua scelta non è mai casuale. Sorretto da una forte attenzione contenutistica, predilige fogli che rimandano a episodi di cronaca o a eventi filosofico-letterari specifici.
E, tuttavia, queste «fonti» non sono solo assunte e riportate su vari supporti (tele, carte), ma vengono sottoposte a continue profanazioni, fino a essere rese irriconoscibili. In tal senso, decisiva è stata l’invenzione della tecnica della cancellazione, che è diventata la cifra inconfondibile dello stile di Isgrò. Per lui, potremmo dire con Levinas, fare arte significa «cancellare le tracce della cancellatura delle tracce, in un calpestio interminabile».
Siamo dinanzi a uno stratagemma scoperto un po’ per caso nel 1962, quando, facendo l’editing di un tormentato elzeviro di Giovanni Comisso, il giovane Isgrò si imbatte in una geografia di correzioni. «Un mare di cancellature il cui peso era più forte delle parole». Tutto comincia allora. Da lì inizia «la grande avventura cancellatoria».
Un’avventura che è come una liturgia. Il nostro irregolare archivista rispetta una precisa metodologia di azione, ma non indulge mai in soluzioni prevedibili. Ogni volta l’incontro con una pagina diversa — della Treccani o di Dante, della Costituzione o di un codice esotico — lo spinge a rimodulare la sua strategia. Con abili interventi manuali, mette in scena una retorica di ossimori. Servendosi delle cancellature, accosta negazioni e affioramenti, sparizioni e ritrovamenti. Utilizza minimi strati di colore per occultare: per impedire di vedere ciò che è sotto. Nega parti dei testi «usati», e insieme ne svela altre. Azzera e, al tempo stesso, evidenzia frammenti. Nasconde, ed esibisce particolari. Il grumo provoca una vertigine, eccita il fantasma di un’immagine che non vediamo più, di una parola che non leggiamo più, come osserva Roberto Andò.
Isgrò tende a suggerire un primo piano e uno sfondo: da un lato, i suoi segni; dall’altro lato, i segni preesistenti.
A volte, ricerca un horror vacui: rende monocrome le sue tele, lasciando emergere singoli caratteri tipografici, come molecole disperse nell’etere.
Altre volte, insegue un horror pleni: invade interamente i fogli con strisce nere. Sapiente nel coniugare violenza gestuale ed eleganza compositiva, pensa le sue opere come teatri di rarefazioni. Spesso ricorre a morbide e sinuose macchie di inchiostro, simili ai sussurri «sopravvissuti» di un discorso oramai assorbito dal silenzio o a strati di neve soffice posati su figure diverse, che non annullano mai i profili delle forme. Sembra comportarsi come Christo, i cui «impacchettamenti» rendono inattesi e fantasmatici monumenti e architetture.
L’esito è «scandaloso». Nelle sue «pitture da leggere» Isgrò si pone — per riprendere il titolo di un libro di Giovanni Pozzi — «sull’orlo del visibile parlare». Fa evaporare ogni riferimento letterario, storico e di cronaca. Infrange il nesso che lega significati e significanti: la materialità dei singoli termini e il loro senso. Esploratore di grafie e di scritture, trasgredisce l’ordine del «buon senso». Vìola il potere del logos. Sgretola le regole auree del linguaggio, che egli sente come una sorta di virus. Scuote le regole della lettura di uso abituale, per pervenire a una sintassi figurata: illeggibile, paradossale.
Nelle opere di Isgrò, le parole «superstiti» sono segni puri, che valgono in sé. Sono come impronte. Il resto di un passo: ciò che rimane. Barlumi che si collegano tra loro grazie a una combinatoria ben calcolata, per confluire in composizioni dominate da un segreto dinamismo tardofuturista. La presenza delle «macchie di colore» contribuisce a imprimere un ritmo a ogni pagina. Che, d’incanto, smarrisce la sua immobilità, per consegnarsi a un’ebbrezza lirica. Come accade nei cicli dedicati agli insetti. Sono come imprevedibili cancellature deliranti. Piccoli animali nomadi, dispersi sulle tele, pronti a sciamare ovunque, senza controllo, fuori dalla cornice.
È, questo, l’approdo di un artista talmente innamorato delle immagini da volerle dissolvere. La sua filosofia è in questa riflessione: «Una parola cancellata sarà sempre una macchia. Ma resta pur sempre una parola».

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