La leggenda di Margherita la Pazza

Da Antiochia a Trieste le metamorfosi della santa che si fece strega. Un filo surreale univa un quadro di Brueghel a una città di confine
Da Antiochia a Trieste le metamorfosi della santa che si fece strega. Un filo surreale univa un quadro di Brueghel a una città di confine

 Nell’anno 290 dopo Cristo, sotto il regno dell’imperatore Massimiano, feroce persecutore dei cristiani, in Antiochia di Pisidia, una fanciulla di nome Margherita fu condannata a morte e martirizzata a causa della sua fede in un unico Dio, e nel suo figlio, Gesù di Nazareth. La giovinetta aveva quindici anni. Venne dapprima imprigionata dal re che avrebbe voluto sposarla. Nella cella, di notte, secondo la leggenda, il Diavolo sarebbe apparso a Margherita e la avrebbe inghiottita viva. Ma lei, con la croce che aveva in mano, avrebbe squarciato dal di dentro il ventre del mostro, e si sarebbe liberata. Per questo ora è la protettrice delle partorienti.
La sua memoria sopravvisse in queste leggende popolari trasformandosi, a poco a poco, da quella di una bella ragazza in fiore in quella di una strega capace di sfidare l’inferno. Questa strega avrebbe avuto il nome di Margherita la Pazza, o in fiammingo — la leggenda è nata in Fiandra — De Dulle Griet.
Milleduecento anni dopo in Europa prese piede un vero e proprio culto di Margherita e grandi pittori la dipinsero, chi come bellissima fanciulla, chi come austera santa in mezzo a grandi santi, come Francesco e Girolamo, chi come orrenda megera che si trascina appresso i suoi adepti per conquistare gli inferi.
Pieter Brueghel il Vecchio, il grande pittore e alchimista fiammingo, ne dipinse un imponente quadro pieno di figure spaventose dalla forma indecifrabile, di simboli, di rappresentazioni di giganti e mostri. In mezzo al dipinto campeggia la figura di Margherita la Pazza, De Dulle Griet, dal gigantesco corpo magro e allampanato, dallo sguardo attonito e delirante, elmo in testa, spada in mano, un cesto pieno di strani bottini sul braccio, protesa a raggiungere, con un passo lunghissimo, la bocca spalancata dell’Inferno. Altri quadri furono dipinti da Raffaello, dal Guercino, dal geniale senese Simone Martini, dal Parmigianino, da Andrea del Sarto, da Piero di Cosimo. Ma la raffigurazione più nota e popolarmente tramandata è quella di Brueghel: Margherita la Pazza.
Passano altri cinquecento anni e quella megera un giorno appare a Trieste in carne e ossa.
Nessuno l’aveva vista o conosciuta prima: parlava serbocroato e sloveno e un pessimo italiano misto a parole del dialetto triestino. Era tale quale l’essere stregonesco dipinto dal pittore fiammingo. Perché era scesa proprio da quel quadro e non da quello dipinto da Raffaello o dal Guercino, o da Andrea del Sarto? Margherita d’Antiochia era stata raffigurata anche da costoro ma nell’effigie di una bellissima, vigorosa fanciulla, dalle labbra carnose e sensuali. Invece lei aveva scelto di apparire come una vecchia invasata.
Si vedeva la mattina nei dintorni della Stazione Centrale, mentre aspettava i treni che arrivavano da Zagabria o da Belgrado per avvicinare i viaggiatori giunti nel capoluogo giuliano con l’intento di acquistare cose che nei loro Paesi a regime comunista non si trovavano. Soprattutto blue jeans, di cui qualcuno acquistava anche cinque paia che indossava uno sopra l’altro per evitare di pagare la dogana.
La vecchia sapeva benissimo che cosa cercavano quei visitatori dell’Est nella città e si offriva a indicare loro la migliore offerta, il chiosco più conveniente tra quelli allineati nei giardinetti antistanti alla Stazione, o in Piazza Ponte Rosso, al di là del Canale.
Così, come la Dulle Griet di Brueghel, anche lei era seguita da uno stuolo di donne raramente accompagnate dai rispettivi mariti. Con il viso affilato pareva fendere l’aria e il tempo, i secoli passati tra il 290 d. C. e il 1970. Una volta «agganciate» le clienti, non le lasciava più andare, e del resto queste la seguivano come ipnotizzate.
Si aggiravano tra i chioschi, percorrevano le vie del Borgo Teresiano (costruito all’epoca di Maria Teresa d’Austria) e poi la sera bivaccavano per terra nelle sale d’attesa della Stazione, aspettando i treni che partivano o verso mezzanotte o all’alba.
Ma lei a quell’ora non si trovava più. Non si sa dove dormisse: probabilmente in qualche soffitta, dove si rintanava dopo aver consumato parecchi bicchieri di vino e di grappa nelle osterie del centro. Non aveva un nome, nessuno sapeva esattamente di che nazionalità fosse, apparteneva, come altre donne della sua età e del suo aspetto, alla mitologia della città. Del resto molte piccole città hanno la loro Margherita. La gente che la vedeva a Trieste tutti i giorni la trattava con rispetto, quasi fosse davvero il capo dei personaggi dell’inferno. Non era né sporca né pulita, nonostante avesse addosso sempre lo stesso vestito: una gonna grigia a fiori, lunga, scarpe scalcagnate, fazzoletto che le copriva la testa, annodato sotto il mento, un grande scialle bucherellato. Era carica di sacchetti di plastica.
Con l’andare degli anni e con i cambiamenti politici avvenuti in vari modi in varie parti del globo, anche quell’affannosa ricerca di blue jeans era cessata. I confini si erano aperti, i regimi erano mutati e poi dissolti, non era più proibito il commercio libero. I blue jeans non erano più merce sospetta, anzi adesso si producevano in loco. Allora Margherita la Pazza, De Dulle Griet, decise di ritornare nel quadro di Pieter Brueghel il Vecchio, collocato al Museo Mayer van den Bergh di Anversa. Partendo da Trieste raggiunse le Fiandre con cinquanta passi e durante una notte d’estate si ridusse a due dimensioni e riprese il suo posto nel quadro.
Anche gli stand scomparvero da Piazza della Libertà e da Piazza Ponte Rosso e sorsero qua e là, in città e fuori città, grandi centri commerciali dove le famigliole borghesi portano ora i bambini ogni domenica per far loro assaggiare la vista di tante merci e tantissimi giocattoli.
Commesse procaci simili alla Santa Margherita d’Antiochia dei famosi dipinti del Rinascimento e altri danno loro indicazioni su dove andare per trovare ciò che desiderano vedere, e anche le cose di cui i clienti ignoravano persino l’esistenza. Sono posti divertenti in cui vale la pena perdersi. Per sempre. Senza mai più ritrovarsi.

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