LE LETTERE DAL FRONTE

Tra la Marmolada e il Cimon della Pala il vero nemico è l’inverno. Si restava anche due settimane senza ordini, isolati dai comandi. E qui c’è chi tiene in ordine la memoria Storie di paura sotto la neve per ricreare l’atmosfera. Non basta rievocare. I ragazzi devono sentire testimonianze reali, come le missive dei soldati ai genitori e alle fidanzate
Tra la Marmolada e il Cimon della Pala il vero nemico è l’inverno. Si restava anche due settimane senza ordini, isolati dai comandi. E qui c’è chi tiene in ordine la memoria Storie di paura sotto la neve per ricreare l’atmosfera. Non basta rievocare. I ragazzi devono sentire testimonianze reali, come le missive dei soldati ai genitori e alle fidanzate

MOENA. Ieri neve sul Falzarego! Quaranta centimetri di fresca hanno coperto tutto, anche l’accampamento degli alpini sotto il passo, e reso indimenticabile la salita alle postazioni italiane di Punta Gallina, m. 2518, verso la croda di Averau. Raniero Campigotto, il gestore del rifugio Col Gallina aveva preparato tutto a nostra insaputa e così, una volta su, abbiamo visto da lontano fumare il camino di una baracca aggrappata alla roccia. Dentro, accanto a una stufa accesa, ci aspettava una tavola imbandita con pane, speck, formaggio di malga e buon rosso trentino. E intanto si era messo a nevicare tra le gole e le cime a picco sul vallone di Andraz. Posto e momento perfetti per i racconti, che difatti non sono mancati.
Nella postazione di artiglieria era tutto come allora, la luce del generatore andava e veniva illuminando la galleria nella roccia, la nicchia del telefonista, l’osservatorio, i depositi di munizioni, i badili, i picconi, i compressori. Quando con una spallata abbiamo spalancato il finestrone Nord verso gli austriaci, un turbine bianco ha attraversato quella tana per topi fino alla porta sul lato opposto, che s’è aperta con un frastuono di lamiera. Estate di merda. Ma perfetta per ricordare cos’erano gli inverni di guerra, come quello del ’16-’17, quando caddero undici metri di neve e trentamila ragazzi furono spazzati dal soffio silenzioso della valanga sui due lati del fronte.
«Ho portato su una scolaresca in pieno inverno, a piedi, con le racchette da neve — ci ha detto Raniero — poi li ho fatti strisciare sulla pancia nella galleria che il vento aveva riempito di neve. Ma non basta. A un certo punto ho spento la luce e con la mia sola lampada frontale ho letto la lettera di un soldato austriaco e di un soldato italiano. I ragazzi erano ipnotizzati ». E giù storie di fulmini e valanghe, di mummie trovate nei ghiacciai, di temporali che illuminano a giorno le scogliere di Dio e fanno rizzare i capelli e la barba ai soldati. Non basta ricordare, bisogna rievocare, specie per i più giovani. Costruire atmosfere, o il centenario sarà inutile.
È importante sentire storie di paura con la notte che scende, meglio se in una baracca assediata dalla tormenta come la nostra su Punta Gallina, importante ascoltare guide di trincea come il bravo Franz Pozzi Brunner in tenuta da Alpenjäger che trae dal buio racconti da brivido, tipo la cengia Martini. Eccola in breve, anche se nessuna scrittura potrà mai dare idea di quell’impresa e tanto meno imitare quel concerto per voce sola, vento, cigolii e crepitar di fuoco che noi abbiamo udito con le nostre orecchie dentro quella baracca sospesa nel vuoto, nell’ora in cui le Dolomiti si chiudevano nel silenzio.
La cengia dunque, in posizione impossibile e scoperta sotto il Piccolo Lagazuoi, è presa dal battaglione Val Chisone comandato dal senese Ettore
Martini. Gli austriaci tentano di stanarlo in tutti i modi, con le pietre, i cannoni e con le mine. Ma niente da fare. Quelli di sotto li sbeffeggiano con frasi del tipo: “Mira più giusto” o “Grazie per averci allargato la cengia”. L’esplosione più forte arriva nel luglio del ’17, nel cuor della notte. Quelli di sopra sono sicuri di aver spazzato gli italiani, ma invece sentono, stupefatti, levarsi le note di una fanfara. È il comandante che ha chiamato a raccolta i pochi strumenti del battaglione per intonare “O tu Austria che scendi dai monti / vieni avanti se hai del coraggio”.
Ma il bello succede a valle, quando gli alpini, svegliati dal concerto, chiedono ai comandanti cosa succede sul Lagazuoi. Viene loro risposto: “Sono i vostri camerati sulla cengia che vi dicono che sono vivi”, e allora nessuno trattiene più i soldati che in piena notte partono come una fiumana verso la cengia solo per abbracciare i compagni. “Pensavamo di avere a che fare con gente come noi — scrisse un testimone austriaco — e invece erano più forti”. Narrano che quando a guerra finita il buon Martini andò a trovare i suoi ex soldati che spaccavano pietre sulle Apuane, per chieder loro come andava la vita, questi gli dissero: “La va come in cengia, signor maggiore. Si buca la montagna per portare un po’ di pane a casa”.
Tra la Marmolada e il Cimon della Pala il fronte scende a Sud attraverso il Passo di San Pellegrino. «Posti dove il vero nemico era l’inverno… Si restava anche due settimane senza ordini, isolati dai comandi», mi dice Livio Defrancesco, un recuperante “diverso”, uno che non si limita a togliere pezzi di storia alla montagna, ma tiene anche in ordine decine di chilometri di trincee e sentieri di guerra su incarico del Comune di Moena. Ma la montagna non è solo bellezza; è anche una costellazione di invidie di paese. Defrancesco ha vita dura. Ha l’autorizzazione a pulire i sentieri ma la gente lo critica, perché passa per terreni privati. Eppure la valle vive di turismo e quella rete militare è un capitale inestimabile.
Siamo al passo, tra postazioni che senza di lui sarebbero già sparite. «Vedi? Qua ho pulito io… e qua anche». Rivendica con fierezza il suo ruolo di custode del territorio, ma la sua è una guerra in salita, perché l’Italia — permissiva con chi ruba — non lascia in pace chi lavora. «Tiro giù alberi che spaccano le trincee, lo faccio col “sì” della Forestale, ma i privati non me li lascino portar via. Stessa cosa il forte di Moena: l’ho ripulito, e anche lì critiche del proprietario ». Sempre la stessa storia: sordità verso la memoria e pace più distruttiva della guerra.
Salta come uno hobbit da un camminamento all’altro, togliendo erbacce e spezzando i rami troppo lunghi. Ha la manutenzione nel sangue. Brontola: «Qui non ti lasciano far niente. La Digos ti rivolta la casa perché raccogli reperti bellici. Per qualsiasi cosa ti dicono che serve un direttore dei lavori e si dimenticano che qui la gente ha sempre tenuto in ordine il territorio spontaneamente, facendo legna o pascolando mucche… Ho contro anche i cacciatori, mi spaccano i cartelli perché non vogliono turisti. Ci scommette? Quando smetto, l’ortica si rimangia la valle».
(17 — continua)

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