RUMOROSA, la pubblicità lo è sempre stata. Su molte piazze possiamo tuttora ascoltare le voci arrochite degli imbonitori, innocue anche se fastidiose. Ma da quando la rivoluzione industriale ha dato il via ai consumi di massa, la vecchia réclame si è modernizzata. Un tempo, negli ambienti della sedicente élite si giudicavano volgari le vanterie e l’esaltazione dei propri prodotti.
RUMOROSA, la pubblicità lo è sempre stata. Su molte piazze possiamo tuttora ascoltare le voci arrochite degli imbonitori, innocue anche se fastidiose. Ma da quando la rivoluzione industriale ha dato il via ai consumi di massa, la vecchia réclame si è modernizzata. Un tempo, negli ambienti della sedicente élite si giudicavano volgari le vanterie e l’esaltazione dei propri prodotti.
Ma se è vero che a cancellare questa cattiva reputazione non è bastato ribattezzare la pubblicità con nuovi nomi, fino alla prima guerra mondiale la “promozione delle vendite” sembrava conservare una sua innocenza. Oggi come allora, il grosso pubblico partecipa ai vari concorsi a premi, rincorre gli sconti e va a caccia di campioni omaggio e buoni acquisto. Davanti a tanta ammiccante bonarietà, come si fa a parlare di terrorismo? Non è una definizione un po’ sopra le righe? E cosa ha a che fare il tam tam degli imbonitori con la politica?
È un dato di fatto – per quanto volutamente ignorato dalla platea dei clienti più sprovveduti – che la politica non ha tardato a impossessarsi della pubblicità (e viceversa). Fin dagli anni 1920, se non prima, la pubblicità si è trasformata in potenza politica. I partiti si sono imposti come marchi commerciali, contendendosi le quote di mercato a colpi di slogan, di colori e di simboli più che con la forza degli argomenti.
Dopo la prima guerra mondia-le, nella Germania in preda alla crisi e alla guerra civile la propaganda raggiunse livelli agghiaccianti.
Di fatto, nessuna delle dittature di questo secolo avrebbe potuto fare a meno della “creatività” degli esperti, capaci di elaborare le formule più efficaci al servizio di campagne di denigrazione antisemita o di agitprop, di processi-spettacolo, preparativi di guerra o culto della personalità.
Per qualcuno è stata dura, dopo il 1945, non poter più promuovere i propri affari con slogan del tipo “un popolo, un Reich, un Führer “, o con immagini di assemblee oceaniche nello stile di Leni Riefensthal. E nel 1989, dopo la caduta di più d’un muro e la contemporanea scomparsa delle parole d’ordine che esaltavano l’esempio dell’Urss, i valorosi esperti dell’agitprop furono costretti a guardarsi intorno alla ricerca di nuovi campi d’azione. Ma dato che la flessibilità faceva parte del loro mestiere, non tardarono a trovare una comoda sistemazione anche dopo la fine della guerra fredda.
Già ai tempi di Balzac e Zola, questi autori sapevano bene che la stampa non avrebbe potuto sopravvivere coi soli proventi della vendita dei giornali. Fu poi l’espansione dei mass media a provocare il boom della richiesta di esperti in tecniche promozionali. Lo sviluppo delle riviste illustrate e dei giornali “da boulevard” portò alla fioritura delle agenzie pubblicitarie. E quando la radio e la tv divennero mezzi di comunicazione di massa, a New York si concluse il loro patto di sangue con “Madison Avenue”, la sede storica delle maggiori di queste agenzie. Da quel momento gli intermezzi pubblicitari avrebbero immancabilmente diluito e interrotto qualunque film o programma di informazione.
Finora le conseguenze politiche e socio-psicologiche di questo sviluppo non sono state mai esplorate a fondo, grazie
anche alla volonterosa astensione dell’esercito di accademici – consulenti, sociologi, esperti di studi di mercato – al servizio delle industrie interessate. In un’economia tesa a catturare l’attenzione, l’ultima cosa da fare è cercare di comprendere il mondo in cui viviamo. Perciò si fa di tutto per privatizzare lo spazio pubblico e requisire a proprio vantaggio il nostro tempo di vita. Quest’obiettivo, la pubblicità lo ha raggiunto.
Ha devastato l’habitat coi suoi poster e le sue insegne al neon. Non esiste autostrada, stazione, fermata di autobus o metro senza un cartellone o uno schermo dal quale lo “sponsor” di turno si sforza di affibbiarci qualcosa. Con la stessa violenza, la pubblicità irrompe nei nostri spazi privati, cercando in ogni modo di defraudarci del tempo a noi concesso. Non si può più entrare in una sala cinematografica senza subire l’aggressione degli spot pubblicitari urlati a tutto volume. Persino il vecchio mezzo di comunicazione telefonico è colonizzato dalle imprese di marketing e da altri scippatori di tempo e di attenzione. Coi suoi prospetti, cataloghi e volantini la spazzatura pubblicitaria monopolizza gran parte del traffico postale.
Come si spiega la sopportazione di un’umanità sottoposta a simili abusi? Si nota, è vero, qualche timido tentativo di resistenza, come le scritte “pubblicità no grazie” su molte cassette postali. Garbate richieste, peraltro ignorate dai distributori, sottopagati e costretti a smaltire la loro quota di materiale. E non c’è da sperare in una qualche protezione degli organi di Stato: a impedirla pensano le lobby.
Eppure tutto questo fa parte di una fase dell’evoluzione tecnica che appare ormai superata. Negli ultimi trenta o quarant’anni, con l’invenzione del computer e lo sviluppo di Internet, il potere politico della pubblicità ha assunto un’ampiezza senza precedenti.
Da allora sono sorti i vari mega- gruppi, con quotazioni in borsa che eclissano quelle dei vecchi mostri dell’industria pesante e del capitale finanziario. Siamo tutti iscritti nella lista dei loro clienti. Conosciamo i loro nomi: Google, Facebook, Yahoo! e così via. Uno dei loro principi fondamentali è non produrre contenuti propri. A ciò delegano gli altri media, o anche gli stessi utenti, pronti a fornire gratuitamente le informazioni e i dettagli della loro vita privata. Questo modello commerciale è finanziato esclusivamente dalla pubblicità: chi non fa vendere è condannato a perire. Nessuno dei motori di ricerca è indipendente e neutrale. Gli aggiornamenti sono regolarmente manipo-lati, i consigli strumentali e finalizzati agli acquisti. I bambini vengono adescati con proposte di giochi a premio e “rieducati” per essere trasformati in una platea di buoni piccoli clienti.
Certo, un gigante dell’e-commercio come Amazon deve tuttora accollarsi l’onere della spedizione di beni materiali. E anche oggi gruppi come Microsoft o Apple vivono della vendita dei loro software e materiali informatici. Resta comunque il fatto che per gestire miliardi di clienti serve la raccolta e l’elaborazione dei loro dati personali. A tal fine esistono oggi metodi matematici di gran lunga superiori a quelli utilizzati a suo tempo dai tecnici delle polizie segrete.
La pubblicità è dunque entrata in una nuova dimensione politica. I gruppi americani che dominano Internet sono alleati allo “Stato occulto”; i loro rapporti coi servizi segreti si fondano su interessi comuni molto concreti: come l’intelligence, anche i gruppi industriali hanno bisogno di tutte le informazioni disponibili per esercitare il proprio controllo sulla popolazione.
Paradossalmente, mentre il mondo politico europeo si adegua o fa finta di nulla, l’opposizione più efficace allo “Stato occulto” proviene proprio dall’America, da personaggi come Manning e Snowden, segnati a dito come traditori perché fedeli alla Costituzione del loro Paese.
È difficile capire chi stia effettivamente ai comandi del sistema di sorveglianza. Sono i cosiddetti “servizi” dello Stato, ormai sfuggiti a ogni controllo democratico? A suo tempo il loro padre fondatore, il capo dell’Fbi J. Edgar Hoover, riuscì a intimidire più di un presidente con i suoi dossier. Oggi la maggior parte dei capi di governo sono disarmati davanti allo strapotere di questi mostruosi servizi. Chissà se a tenere le fila della raccolta di dati sono le organizzazioni di intelligence che si nascondono dietro le varie sigle — Nsa, Dgse o Bnd — o piuttosto i loro complici, i gruppi industriali di Internet? Questo partenariato costituisce un universo politico parallelo che in cui la democrazia non gioca più alcun
ruolo.
In quest’alleanza c’è poi una terza componente: la criminalità organizzata. Anche qui non è facile capire con chi si ha a che fare. Certo, ogni “utilizzatore” sa benissimo che le organizzazioni del crimine internazionale sono sempre in azione sulla rete per impossessarsi di dati, disseminare spam, virus e cavalli di Troia, mettere a segno operazioni di
fishing,
traffico d’armi o riciclaggio di denaro sporco, approfittando di ogni occasione per attingere ai guadagni resi possibili dal flusso dei dati. Ma i confini tra attività civili e militari, tra spionaggio e cellule terroristiche sono indistinti, dato che tutti usano gli stessi metodi e reclutano i loro informatici, criptografi e hacker nel medesimo vivaio di talenti.
Lo stesso discorso vale però anche per un ulteriore partecipante al gioco della Rete, di gran lunga il più piccolo, che fa la parte del guastafeste. È la guerriglia del web, anonima e aliena da ogni forma di organizzazione gerarchica, e perciò stesso assai difficile da stanare. Questa forma avanzata di resistenza civile è probabilmente destinata a riservare ai servizi segreti qualche spiacevole sorpresa. Il bello del regime post-democratico in cui viviamo è che tutto avviene senza rumore. La sorveglianza non è più affidata a spioni e delatori, bensì a milioni di telecamere e alla rete dei telefoni cellulari – il che per la stragrande maggioranza è piuttosto confortevole. Scopriamo che il controllo e la sorveglianza totale della popolazione sono possibili anche con mezzi relativamente non violenti né sanguinosi. Dobbiamo allora parlare di un progresso storico?
La situazione attuale è garantita dal dominio dei servizi segreti e dalla loro alleanza con la pubblicità. Ma attenzione: chi si adegua a questo regime lo fa a proprio rischio e pericolo.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
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