Angelo e la spia

COSÌ I SERVIZI CECHI RICATTAVANO RIPELLINO. Dagli archivi di Praga la prova che il grande slavista fu oggetto di pressioni e minacce

Pubblichiamo una nuova versione dell’articolo di Giuseppe Dierna. In quella precedente erano saltate alcune righe

COSÌ I SERVIZI CECHI RICATTAVANO RIPELLINO. Dagli archivi di Praga la prova che il grande slavista fu oggetto di pressioni e minacce

Pubblichiamo una nuova versione dell’articolo di Giuseppe Dierna. In quella precedente erano saltate alcune righe

Novant’anni fa nasceva a Palermo Angelo Maria Ripellino, poeta e critico dalla scintillante scrittura ancora tutta da studiare accanto a quella degli altri maestri della saggistica novecentesca, da Praz a Macchia a Longhi. Il più fantasioso tra gli slavisti europei. Grande conoscitore di cultura russa e ultimo straordinario boemista nelle nostre università, prima che uno tsunami di incompetenza e omertà cancellasse di fatto la materia che lui aveva contribuito a fondare. Anche a costo di faticosi compromessi.

Un corposo incartamento da me rinvenuto a Praga nell’Archivio del Ministero degli Interni e fino a poco tempo fa ancora classificato “top secret”, permette di ricostruire quegli anni di formazione, tra sogni, ricatti e delusioni. Si comincia col 1954. Anzi, no: col ’52. All’epoca il ventottenne Ripellino è lettore di lingua ceca all’università di Bologna e Roma. Un insegnamento finanziato dal Ministero ceco della Scuola che sopperiva al disinteresse italiano. E, accanto ai corsi di lingua, tiene a Bologna anche lezioni sul teatro ceco otto-novecentesco. E’ all’inizio di quell’anno che esplode il caso del «Testamento di Halas».

Le Figaro pubblica un testo di poche cartelle attribuito – a torto – al poeta František Halas, morto a Praga pochi anni prima (Ripellino lo tradurrà per Einaudi nel ’71). Vi sono espresse – con toni che ritroveremo di lì a poco nel Milosz della Mente prigioniera – le angosce di un intellettuale comunista nel nuovo regime in cui più non si riconosce. Le Figaro afferma di averlo ricevuto da Ripellino. E qui scoppia il putiferio. L’ambasciata ceca a Roma – centro d’irradiazione dei nostri documenti – lo convoca, chiede spiegazioni e, davanti alla sua proclamata estraneità, gli intima una smentita. Ma lui non può farla. Anche se non è stato lui a passarlo al giornale, quell’originale era suo: gliel’aveva consegnato Halas, e Ripellino l’aveva solo incautamente prestato a un emigrante ceco che aveva abusato della sua buona fede. L’ingenuità era una sua caratteristica.

Le autorità ceche pazientano solo pochi mesi ma poi una raffica di informative pone fine a quel lettorato che costituiva – accanto al lavoro per l’Enciclopedia dello spettacolo – l’unica sua fonte di reddito. Dopo ripetuti soggiorni a Praga dalla fine della guerra, la strada di Ripellino sembra tracciata. Scrive di cultura ceca e traduce per L’Unità, la Treccani, La fiera letteraria. Tiene conferenze sul cinema d’animazione ceco al Circolo romano del cinema. Confida al poeta Vladimir Holan: «Nel mio ultimo soggiorno mi sono dedicato esclusivamente allo studio della letteratura ceca, di cui voglio diventare professore all’università». L’interruzione del rapporto col Ministero della Scuola rischia di far saltare i sogni.

E’ qui che inizia la nostra storia di ricatti verbalizzati. Inizia nel gennaio del ’54, quando Ripellino si presenta in ambasciata a chiedere notizie sulla sua richiesta di lettorato nell’ateneo romano. Qui funzionari eterodiretti dal Ministero degli Interni subito comprendono la sua doppia debolezza: quella economica, certo, ma soprattutto quella derivata dalla passione per la cultura ceca (impraticabile senza visto d’ingresso). E le sfruttano entrambe. Il mefistofelico Otta – poi sostituito da altri colleghi – instaura con lui un rapporto fatto di lunghe conversazioni, passeggiate, capatine al Caffè Greco, fino alle gite al mare con le famigliole al completo. Hanno un chiodo fisso questi «sbirri che si spacciano per diplomatici» (così la moglie Ela in una lettera alla madre, a Praga, allegata al dossier): ottenere informazioni sui trànsfughi cecoslovacchi in Italia, e Ripellino – scrivono – è «l’unico che possa fornirle».

Da Praga decidono di aprire un fascicolo. E stabiliscono un nome in codice. Sarà «Testament», a ribadire quel suo passo falso che si sta usando come grimaldello. Il giudizio su di lui è più che lusinghiero: «giovane, colto, agile nei rapporti sociali», «inventivo», «non si lascia dissuadere», «è arguto, dalla risposta pronta, un’ottima memoria, ama scherzare». Ma «politicamente un irresoluto»: «ha ancora molta confusione in testa», «guarda alle cose con gli occhi di un professore interessato alla cultura». E annota il sottile psicologo d’ambasciata: «da come osservava le belle donne penso che gli piacciono in maniera abnorme», aggettivo poi utilizzato a rimarcare il suo non meno «abnorme interesse per i libri», che si cercherà ugualmente di sfruttare: senza non può lavorare.

Il gioco alle spie dei funzionari scivola talora nel comico, come quando Otta – davanti al desiderio dello studioso di fotografarlo nella pineta di Castelfusano – adduce motivi di ripulsa quasi da aborigeno australiano. Il culmine è però la caccia a Ripellino nella sede dell’Enciclopedia, dietro Palazzo Grazioli: il nuovo incaricato ignora l’indirizzo, per cui s’intrufola a cercarlo anche nella Biblioteca Nazionale, all’epoca al Collegio Romano, e telefona disperato a tutti i civici della piazza, «a esclusione del locale Commissariato di Pubblica Sicurezza».

Tra Ripellino e i suoi sbirri inizia uno snervante tira e molla, un gioco delle parti. Da un lato ci sono i cechi intenti a carpire informazioni – essenzialmente banali – sulla vita degli emigranti (figure di scarsa rilevanza), che Ripellino non ha alcuna remora a fornire, insieme alle riviste dell’emigrazione, «che tanto la segretaria le butta nel cestino». Dall’altro c’è Ripellino che insiste con disarmante testardaggine sul suo progetto di boemista, chiedendo finanziamenti per tradurre il poeta Jiri Wolker e altri autori, per scrivere uno Studio sul teatro cecoslovacco (circa 700 pagine), con annesse traduzioni di testi, che concretamente consegna all’ambasciata e saranno ora da rintracciare.

La prima relazione sugli emigranti che Ripellino consegna a Otta (la seconda narra la visita a Radio Free Europa, a Monaco) è un capolavoro di scrittura grottesca che un giorno varrà la pena tradurre: vi si tratteggia una variegata corte dei miracoli, venata da «meschine e sciocche divergenze» e popolata da rappresentanti di matite con la smania di schedare tutti, esseri «privi di carattere e senza scrupoli» la cui attività politica «si limita a pronostici e càbale». Personaggi come usciti dalle satire di Majakovskij sulla NEP: uno è un «cinico avventuriero», un altro «un autentico maestro nell’arte del pettegolezzo», un terzo «si è fatto prestare dei soldi ed è sparito». Un quarto, un prete invaghitosi di un’italiana, prima lascia la Chiesa ma poi preferisce lasciare la malcapitata col figlio della colpa e tornare all’ovile.

L’impari confronto proseguirà fino al giugno ’55, quando Ripellino comprende il disinteresse dell’ambasciata per la sua attività di boemista e la realtà di quel «lavoro sporco» che rifiuta. Commentano da Praga: «la reazione farebbe pensare che abbia capito solo ora i nostri intenti», e mutano in «Hamlet» il suo nome in codice. Il colpo definitivo è però, tre mesi dopo, un colloquio col linguista Havránek, membro un tempo del glorioso Circolo linguistico di Praga, che – imbeccato da zelanti funzionari – gli rinfaccia scarsi risultati e un tiepido atteggiamento «nei confronti della nostra letteratura». E’ troppo, e Ripellino annuncia amareggiato di abbandonare gli studi di boemistica, cosa che realmente farà, occupandosi fino al ’63 quasi solo di cultura russa, scrivendo libri memorabili. Bizzarre continuità: sarà proprio una segretaria di quell’ambasciata ceca del ’55 a occupare – dopo il ’68 – la cattedra di Letteratura ceca di Ripellino alla Sapienza. E seguirà il silenzio.

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