Nelson Mandela le orme vuote di un grande uomo

DOPO MADIBA, DUE PRESIDENTI INCAPACI DI RACCOGLIERNE L’EREDITÀ, CHE SI COSTRUISCONO REGGE MENTRE IL SUDAFRICA FRANA. LA SPERANZA È LA VEDOVA DI BIKO

DOPO MADIBA, DUE PRESIDENTI INCAPACI DI RACCOGLIERNE L’EREDITÀ, CHE SI COSTRUISCONO REGGE MENTRE IL SUDAFRICA FRANA. LA SPERANZA È LA VEDOVA DI BIKO

Non è scritto da nessuna parte che la storia, quando ti passa accanto, debba camminare a passo misurato e solenne, scrutare l’orizzonte con occhi severi, declamare con voce stentorea frasi immortali, indossare un doppiopetto grigio. Quella sera d’aprile del 1994, a Johannesburg, la storia era un anziano gentiluomo in camicione colorato. Agitava i gomiti nel toyi-toyi, la danza della lotta e ora della vittoria; sorrideva felice come un bambino. Aveva appena cambiato il mondo.
Nelson Mandela festeggiava la larga vittoria del suo partito, l’African National Congress, nelle prime vere elezioni della storia sudafricana; la fine del regime di segregazione razziale, grottesco e feroce. Scriveva la prima pagina di un bel libro, di quelli che ti mettono di buon umore.
UNA STORIA MAGNIFICA finita cinque anni dopo. In una sala quasi uguale, sempre a Johannesburg, ma sembrava di stare su un altro pianeta. Un pezzo di ghiaccio vestito a Savile Row, di nome Thabo Mbeki, assumeva la presidenza; Mandela si relegava volontariamente nel ruolo di santo laico. In quella serata senza danze e senza sorrisi, dall’atmosfera vagamente sovietica, s’intuiva il Sudafrica in arrivo, il Sudafrica di oggi. La poesia sublime virava in prosa scadente. La nazione arcobaleno s’immiseriva in Stato a due colori, il bianco e il nero delle due caste che si spartiscono soldi e potere.
Mandela, però, restava vivo. E per quindici anni ha funzionato da attenuante generica per una classe politica in gran parte corrotta e incapace.
Fra poche ore comincia il 2014, il ventennale della fine dell’apartheid. La cifra tonda stimola confronti fra quel tempo e questo, con esiti impietosi. Nel 1994 il 45,6 per cento della popolazione era al di sotto della soglia di povertà sudafricana, 43 dollari al mese; oggi di più, 47 per cento. I Paesi che vent’anni fa erano allo stesso livello in termini di prodotto interno lordo per abitante sono decollati, lasciando il Sudafrica parecchio indietro: così la Polonia, la Malaysia, il Cile, e addirittura un vicino, il Botswana. Il tasso di disoccupazione supera il 25 per cento. Ma soprattutto, il Sudafrica fa parte del gruppo dei dieci Paesi più diseguali al mondo, quelli in cui le ricchezze sono più concentrate in poche mani.
La storia esemplare è quella del massacro di Marikana, il 16 agosto del 2012. Una moltitudine di minatori in sciopero aveva occupato un’altura accanto alla miniera di platino, la terza più grande del pianeta, e affrontato la polizia sguainando il panga, l’equivalente africano del machete. Dall’altra parte, uomini dalla pelle altrettanto nera, ma in divisa, risposero sparando: 34 morti, il peggior massacro dalla fine dell’apartheid.
Non molti, fuori dal Sudafrica, andarono a spulciare i registri societari della Lonmin, la multinazionale proprietaria della miniera. Per verificare che presidente, amministratore delegato e direttore generale erano bianchi, e bianchi tutti i consiglieri d’amministrazione. Tranne uno, Cyril Ramaphosa. Fondatore del sindacato dei minatori, poi vicepresidente dell’Anc; impegnato, nel frattempo, in una carriera da businessman che ne ha fatto uno degli uomini più ricchi del Paese, con un patrimonio che Forbes ha stimato in 675 milioni di dollari. Il giorno prima della sparatoria, Ramaphosa aveva chiesto pubblicamente di “passare all’azione” contro gli scioperanti, colpevoli di un “comportamento codardo e criminale”. Chissà se Mandela ha mai saputo qualcosa della strage. Certo non si è reso conto, aggrappato agli ultimi spiccioli di vita, che quattro mesi fa, alla commemorazione, le sedie riservate ai rappresentanti del governo e dell’Anc sono rimaste vuote. Né che in questa vicenda, forse, è scritto il futuro del Paese che ha amato tanto.
La presa ferrea dell’Anc sul potere, nel dopo-apartheid, si basa sull’alleanza con due partner fedelissimi: il Partito comunista in via d’estinzione e il Cosatu, la federazione sindacale. Elezione dopo elezione, il partito che può sbandierare lo slogan “fondato da Nelson Mandela” ha incamerato finora due terzi dei voti, o più. Il presidente sudafricano non viene scelto ai seggi, ma nei congressi dell’Anc, attraverso negoziati sottobanco fra le lobby affaristiche e sindacali, in un’atmosfera avvelenata dai ricatti e dagli sviluppi altalenanti delle indagini giudiziarie sui notabili del partito.
In questo modo, nel 2008, Mbeki fu spodestato dal presidente oggi in carica, Jacob Zuma, un populista chiassoso e inefficiente. Un anno fa l’ultimo congresso Anc lo ha riconfermato: sarà candidato alle elezioni del 2014, e probabilmente le vincerà. Ma forse non così facilmente come è successo finora.
Ai funerali di Mandela nello stadio di Soweto, davanti alle telecamere di tutto il mondo, Zuma è stato rumorosamente contestato. Poche ore dopo, un sondaggio appena sfornato confermava: il 51 per cento dei sudafricani pensa che dovrebbe dimettersi. Effetto dell’ennesimo scandalo: i 27 milioni di dollari spesi dallo Stato per trasformare la sua casa natale a Nkandla in una reggia da magnate del cinema: decine di padiglioni, pista d’atterraggio per elicotteri, piscina, campi da tennis e da calcio, bunker sotterranei. Il tutto giustificato dalle classiche “esigenze di sicurezza”; inclusi i nuovi recinti per il bestiame. Suona familiare?
LA CASTA SUDAFRICANA ha superato indenne decine di scandali del genere, ma questa volta lo scenario è diverso. Intanto, morto Mandela, non si può spacciare il suo silenzio per tacito perdono. Poi, la strage di Marikana ha lasciato strascichi: l’acquiescenza pressoché sovietica del sindacato ufficiale ha dato molto spazio a un’altra organizzazione di lavoratori, non legata a doppio filo all’Anc e al governo. Di conseguenza, nella federazione sindacale Cosatu si discute apertamente l’opportunità di fondare un vero e proprio partito laburista, per contendere all’Anc il voto nero.
Sul quale già adesso, comunque, il monopolio dell’African National Congress è meno garantito. All’opposizione non ci sono più solo i centristi della Democratic Alliance, che pochi neri votano perché passa per un partito troppo bianco. Julius Malema, ex leader della lega giovanile dell’Anc, espulso per insubordinazione (con sottofondo di malversazioni d’ordinanza), ha formato un suo partito estremista, battezzato Economic Freedom Fighters; ripropone le ricette che hanno devastato lo Zimbabwe di Robert Mugabe.
La novità, tuttavia, è un partito di centro-sinistra chiamato Agang, che in lingua Sotho significa “costruire”. Lo ha fondato pochi mesi fa una persona che per l’Anc sarà difficile far passare per strumento di una cospirazione bianca: Mamphela Ramphele. É la vedova di Steve Biko, il più famoso martire dell’apartheid, e ha lottato al suo fianco. É un medico, è stata vice-rettore dell’università di Capetown e dirigente di vertice della Banca mondiale. Propone, fra l’altro, forme più dirette di democrazia, e lotta senza quartiere alla corruzione. Non è Mandela, ma gli somiglia assai più di Zuma.

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