? In Sicilia negli anni '20 © Otto Skall

Storie. Otto Skall era un grande fotografo viennese degli anni '20. Morì suicida per non finire ad Auschwitz. Suo figlio Heinz fu internato nei luoghi del sud Italia che il padre amava più di tutto, a Campagna e a Sala Consilina. Dove si innamorò di una insegnante di tedesco e si diede alla pittura. Oggi spuntano le foto, i dipinti e il carteggio familiare
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Deportato a mezzogiorno

? In Sicilia negli anni ’20 © Otto Skall

Storie. Otto Skall era un grande fotografo viennese degli anni ’20. Morì suicida per non finire ad Auschwitz. Suo figlio Heinz fu internato nei luoghi del sud Italia che il padre amava più di tutto, a Campagna e a Sala Consilina. Dove si innamorò di una insegnante di tedesco e si diede alla pittura. Oggi spuntano le foto, i dipinti e il carteggio familiare

? In Sicilia negli anni ’20 © Otto Skall

Storie. Otto Skall era un grande fotografo viennese degli anni ’20. Morì suicida per non finire ad Auschwitz. Suo figlio Heinz fu internato nei luoghi del sud Italia che il padre amava più di tutto, a Campagna e a Sala Consilina. Dove si innamorò di una insegnante di tedesco e si diede alla pittura. Oggi spuntano le foto, i dipinti e il carteggio familiare

Quanta per­ce­zione aves­sero della resi­sti­bile ascesa del nazi­smo i cit­ta­dini demo­cra­tici di Wei­mar e con quanta spen­sie­ra­tezza l’affrontasse la sua bor­ghe­sia ebraica è mera­vi­glio­sa­mente rac­con­tato in un romanzo che nel tempo è diven­tato un clas­sico e ha ispi­rato ridu­zioni cine­ma­to­gra­fi­che e tea­trali: Addio a Ber­lino di Chri­sto­pher Isher­wood (da poco ripub­bli­cato dalla casa edi­trice Adel­phi). Quanta incon­sa­pe­vo­lezza e incon­scio desi­de­rio di allon­ta­narsi dal ciglio del bur­rone su cui l’Europa tutta si tro­vava dovette esserci, se ancora alla vigi­lia di Capo­danno del 1936 Otto Skall, grande foto­grafo ebreo nella Vienna degli anni ’20, e la seconda moglie Gusti scri­ve­vano al di lui figlio dall’amata Costiera amal­fi­tana: «Caro Heinz, que­sto è il luogo più bello, fa già caldo, cal­dis­simo, i nar­cisi fio­ri­scono sulle rocce e pos­sono essere colti. La prima cola­zione si con­suma sul bal­cone senza dover indos­sare il cap­potto. Broc­coli magni­fici, sal­sic­cia, pro­vo­lone, moz­za­relle e cacio­ca­vallo e tutto così a buon mer­cato da sem­brare un sogno».

Non pote­vano pre­ve­dere, entrambi, fin dove si sarebbe spinto l’orrore, di lì a poco, e quali sareb­bero state le con­se­guenze per loro. Appena due sta­gioni dopo, quando Heinz tornò a Vienna nella casa in cui era cre­sciuto si trovò ad arri­vare in sta­zione, per un caso della sto­ria, pro­prio men­tre Hitler entrava trion­fal­mente in città, sug­gel­lando l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Un suo amico d’infanzia, arruo­lato nelle SS, aveva prov­ve­duto a sfrat­tare la madre Hela, come il padre Otto pro­ve­niente dalla città ucraina di Leo­poli, dalla sua casa, costrin­gen­dola a tra­sfe­rirsi con il suo com­pa­gno in uno scan­ti­nato. Era la fine di marzo del 1938 e fu l’ultima volta in cui Heinz vide i suoi geni­tori. Da quel giorno ogni rela­zione sarà affi­data a un epi­sto­la­rio che la moglie Rita ha tenuto in un cas­setto per decenni e ora è rac­colto in un libro pub­bli­cato da un pic­colo edi­tore saler­ni­tano, Mer­lin: La lunga strada sco­no­sciuta di Roberto Lughezzani.

Le vacanze a Positano

Il 27 luglio del 1940, quasi due mesi dopo l’annuncio di Mus­so­lini dal bal­cone di piazza Vene­zia che l’Italia entrava in guerra, scri­vendo da una Praga sem­pre meno rifu­gio sicuro per gli ebrei della mit­te­leu­ropa il padre Otto tor­nerà con la mente a quat­tro anni prima: «I giorni pas­sati a Posi­tano sono stati tra i più belli della mia vita e credo di capire per­fet­ta­mente chi rinun­cia a tutto per fer­marsi a vivere per sem­pre in que­sti posti, per vedere sem­pre il mare e sen­tire l’aria pro­fu­mata di rose e arance». L’amato entro­terra saler­ni­tano, iro­nia della sorte, per gli Skall risul­terà non solo un luogo dell’anima da ricor­dare fino alla vigi­lia di un sui­ci­dio deciso per sfug­gire a un destino ancora peg­giore, un’oasi di quiete men­tre attorno infu­ria­vano i marosi della Sto­ria, ma anche un’ancora di sal­va­tag­gio per il gio­vane Heinz.

La let­tera paterna gli viene reca­pi­tata nel campo di inter­na­mento di Cam­pa­gna, dov’era arri­vato da una set­ti­mana, dopo essere stato arre­stato a Bolo­gna dove stu­diava. Il padre si mostra con­tento: «Cono­sciamo qual­cuno dei paesi che si tro­vano nell’interno della pro­vin­cia di Salerno e dun­que pos­siamo imma­gi­narci il luogo in cui ti trovi adesso. È qui che abbiamo visto la pasta essic­care all’aria, simile a un velo giallo. (…) Sono sicuro che la vita nel Meri­dione, che tu non hai cono­sciuto, ti farà un’immensa impres­sione, così come gli ita­liani del Sud». Il vescovo di Cam­pa­gna è Giu­seppe Maria Pala­tucci. Sarà lui, nel dopo­guerra, a creare l’aura del «fasci­sta buono» attorno al nipote Gio­vanni. Una leg­genda, quella dello «Schind­ler ita­liano» che, da respon­sa­bile immi­gra­zione alla pre­fet­tura di Fiume, avrebbe sal­vato migliaia di ebrei, nei mesi scorsi messa in discus­sione dal cen­tro Primo Levi di New York.

L’«internamento libero»

Gra­zie a una prov­vi­den­ziale trom­bo­fle­bite a una gamba, Heinz Skall riu­scirà a otte­nere l’«internamento libero» in un comune qual­che decina di chi­lo­me­tri più a sud: Sala Con­si­lina. <CW-26>Proprio qui, nella piazza prin­ci­pale del paese, nel 1922 Gio­vanni Amen­dola aveva pro­nun­ciato uno sto­rico discorso nel quale, invi­tando i fasci­sti a venire allo sco­perto, aveva soste­nuto che il Mez­zo­giorno avrebbe costi­tuito un fat­tore di equi­li­brio con­tro le peg­giori derive che si intra­ve­de­vano all’orizzonte. A vent’anni di distanza, in quella stessa piazza si ritro­vano con­fi­nati poli­tici e depor­tati ebrei, e Heinz strin­gerà ami­ci­zie che gli saranno molto utili in seguito. Quella di Alberto Corti innan­zi­tutto, un medico anti­fa­sci­sta tori­nese che, dopo l’8 set­tem­bre, lo aiu­terà a nascon­dersi a Cogne, in Valle d’Aosta. E poi l’ex depu­tato libe­rale toscano, anch’egli di ori­gini ebrai­che, Dino Phi­lip­son, inviato alle Tre­miti «fin­ché campa» da Mus­so­lini in per­sona per­ché si era oppo­sto alle leggi raz­ziali e in seguito spo­stato a Sala Consilina.

È il novem­bre del ’41 e le nubi sull’Europa si fanno sem­pre più nere. Da Vienna e da Praga i geni­tori inviano let­tere sem­pre più ter­ri­bili e affet­tuose, in cui noti­zie tra­gi­che con­vi­vono con appelli materni a «riguar­darsi», segna­la­zioni paterne di libri da leg­gere e apprez­za­menti per i dise­gni che il figlio invia loro.

A Sala Con­si­lina Heinz è rela­ti­va­mente libero. Non può uscire dal paese ma gira libe­ra­mente, è sot­to­po­sto solo a un con­trollo gior­na­liero. Affitta una stanza nel punto più alto del cen­tro sto­rico, al numero 8 di via Cesare Bec­ca­ria, dal cui ter­razzo – rac­conta in una let­tera – si gode di una «magni­fica vista» sulla val­lata. Nel palazzo Amo­dio vivono un’altra cop­pia di inter­nati, gli ebrei polac­chi Szia e Mia, le due figlie del pro­prie­ta­rio di casa e Rita Cai­rone, una gio­vane inse­gnante di tede­sco della quale ben pre­sto il gio­vane ebreo si inna­mora. Va nor­mal­mente a far la spesa al mer­cato e per un periodo trova per­sino lavoro, come assi­stente dise­gna­tore al locale con­sor­zio agrario.

Men­tre il dramma fami­liare esplode in tutta la sua dram­ma­ti­cità, Heinz dipinge, incon­tra di nasco­sto Rita, che ha lasciato l’abitazione per non lasciar sco­prire il fidan­za­mento proi­bito con un ebreo, die­tro il cimi­tero, cir­con­dato da cen­ti­naia di ulivi seco­lari, e scrive let­tere come quella inviata ai geni­tori il 15 gen­naio del 1942: «In fondo amo la soli­tu­dine nella mia bella stanza con il bal­cone, volta verso il meri­dione, che ora ha potuto essere arre­data a mio gusto e che mi diventa sem­pre più cara».

Sala Con­si­lina non è la Gagliano di Carlo Levi, ma l’ambiente con­ta­dino e la vista dal ter­razzo del bel palazzo nel punto più alto del cen­tro sto­rico ricor­dano le atmo­sfere del Cri­sto si è fer­mato a Eboli. Inol­tre, Heinz Skall immor­tala Rita Cai­rone ma soprat­tutto dipinge, come l’intellettuale ebreo anti­fa­sci­sta con­fi­nato in Luca­nia. Dalla cor­ri­spon­denza con i geni­tori si intui­sce che molti dise­gni furono inviati al padre e molto pro­ba­bil­mente sono andati per­duti nella tra­ge­dia che deva­stò la fami­glia Skall.

Il sud immobile

Men­tre l’amato figlio vive la sua pas­sione amo­rosa con Rita e quest’ultima, dopo la sco­perta della sua rela­zione proi­bita, perde il posto di inse­gnante e viene spo­stata ad Amalfi, si con­suma il dramma fami­liare e quello degli giu­dei d’Europa. Nel sus­se­guirsi delle epi­stole si legge l’asimmetria con cui il fuso ora­rio della Sto­ria mosse le sue lan­cette. All’immobilità leviana del Mez­zo­giorno con­ta­dino si con­trap­pone nel resto del con­ti­nente una tra­gica acce­le­ra­zione degli eventi, che si abbat­te­ranno come un tor­nado sulla fami­glia Skall. Heinz viene prima a sapere della morte per infarto di Willy, il marito della madre Hela. «Pro­ba­bil­mente è stato for­tu­nato, per­ché solo Dio può sapere che destino gli è stato rispar­miato. Oggi gli incubi più tre­mendi sono diven­tati realtà», scrive il padre il 19 gen­naio 1942, quando appena un anno prima ancora si com­pia­ceva per­ché il figlio leg­geva Sha­ke­speare in tede­sco e rac­con­tava i suoi ultimi lavori foto­gra­fici: «Ho avuto da fare delle riprese inte­res­santi in quest’ultimo periodo. L’abitazione di una signora della più alta nobiltà, (…) ho foto­gra­fato anche un bam­bino di tre anni, un pic­colo San Gio­vanni, deli­cato, sot­tile, con uno sguardo pieno di fuoco, occhi chiari con ciglia scure, una magni­fica testo­lina ricciuta».

Quat­tro giorni prima, Heinz aveva scritto al geni­tore: «La mia dispe­ra­zione è altret­tanto grande, per­ché mi sento del tutto impo­tente di fronte a que­sta nuova e impre­ve­di­bile situa­zione. (…) Per quanto riguarda la mia vita qui a Sala Con­si­lina, non posso che darvi ancora buone noti­zie (…) Di mat­tina devo prov­ve­dere alla spesa e di sera devo pre­pa­rarmi la cena. Stu­dio, scrivo, leggo, dise­gno, ma pochis­simo e non ho ancora dipinto nulla». Le buone noti­zie di Heinz non arri­ve­ranno mai a desti­na­zione: la let­tera verrà rispe­dita indie­tro con la buro­cra­tica dici­tura di un buro­crate pra­ghese: «Desti­na­tari dece­duti per pro­pria deci­sione». Gusti, la com­pa­gna, si era sui­ci­data il 23 gen­naio, il padre Otto il giorno suc­ces­sivo, appena cin­que giorni dopo aver scritto l’ultima let­tera al figlio.

L’ultimo viag­gio

E la mamma? Quando non riceve più noti­zie da Praga, teme che anche Otto e Gusti «abbiano dovuto affron­tare il viag­gio che credo non verrà rispar­miato a nes­suno». L’ultima let­tera ad Heinz è del 18 marzo 1942, venti giorni prima di esser messa su un treno diretto al campo di Izbica. Pochi mesi dopo, il 5 luglio, ad Heinz ritorna indie­tro anche l’ultima let­tera inviata a lei. Que­sta volta è rispar­miata anche la moti­va­zione buro­cra­tica. La «lunga strada sco­no­sciuta» di cui par­lava Hela in un’altra let­tera è arri­vata al capo­li­nea, a causa degli stenti o in una camera a gas. L’unico che riu­scirà a per­cor­rerla tutta sarà Heinz: nel gen­naio del ’43 rie­sce a farsi man­dare in inter­na­mento a Bolo­gna, dopo l’8 set­tem­bre si costrui­sce un’identità fasulla e si nasconde sulle Alpi, a 1.500 metri di altezza. Quando i nazi­sti arri­vano fin lassù si aggrega a una banda par­ti­giana e supera il con­fine fran­cese. In Fran­cia farà l’operaio in una fab­brica di scope e sarà arre­stato per aver for­nito false gene­ra­lità, sospet­tato di legami con gli anti­fa­sci­sti dete­nuti a Lione, tra cui il pro­fes­sor Corti cono­sciuto durante il con­fino. Rien­trerà in Ita­lia alla fine della guerra: il 14 otto­bre del ’45 è a Salerno, dove tro­verà lavoro come inter­prete presso il Comando Alleato della 766esima com­pa­gnia. Il 18 feb­braio 1946 si sposa con Rita Cai­rone, l’insegnante di tede­sco cono­sciuta a Sala Con­si­lina. Si con­clude qui una sto­ria di guerra, amore e resur­re­zione in un secolo di grandi tra­ge­die, che parla da vicino a un’Europa che ha forse dimen­ti­cato quanto rapida sia stata l’escalation dell’orrore e l’errore com­piuto nel non aver spento l’incendio quando ancora lo si poteva fermare.

Sull’apatia poli­tica che con­sentì all’orrore di farsi sto­ria il pastore Mar­tin Nie­mol­ler ha scritto una cele­bre poe­sia: «Quando sono venuti a pren­dere gli ebrei sono rima­sto in silen­zio per­ché non ero ebreo (…) quando sono venuti a pren­dere me/non c’era più nes­suno che potesse par­lare per difen­dermi».

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