L’oscura via di fuga dalla nuda vita

Storie dimenticate. Nell’arco di alcuni anni il nazismo riuscì a cancellare ogni traccia di coscienza di classe, sostituendola con il concetto di «razza». In questo saggio inedito in Italia, Günther Anders emigrato in Francia poco dopo la salita al potere di Adolf Hitler cerca di spiegare come la macchina propagandistica nazionalsocialista fosse riuscita a indicare a milioni di disoccupati e piccolo-borghesi impoveriti gli ebrei come il nemico da combattere. Un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista «Micro Mega»

Storie dimenticate. Nell’arco di alcuni anni il nazismo riuscì a cancellare ogni traccia di coscienza di classe, sostituendola con il concetto di «razza». In questo saggio inedito in Italia, Günther Anders emigrato in Francia poco dopo la salita al potere di Adolf Hitler cerca di spiegare come la macchina propagandistica nazionalsocialista fosse riuscita a indicare a milioni di disoccupati e piccolo-borghesi impoveriti gli ebrei come il nemico da combattere. Un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista «Micro Mega»

Biso­gna sot­to­li­nearlo da subito: la disoc­cu­pa­zione, pro­prio que­sto destino di cui uno potrebbe cre­dere che stringe in unità gli ope­rai, è al con­tempo quel che ini­bi­sce la loro coscienza di classe. Infatti gli ope­rai sono in con­cor­renza gli uni con­tro gli altri; gli ope­rai con­tro i disoc­cu­pati; quelli che (assi­cu­rati da un sala­rio minimo) fanno apo­lo­gia del lavoro con­tro i declas­sés. Que­sta divi­sione affe­ri­sce all’immagine del tardo capi­ta­li­smo pro­prio come la rela­tiva con­cor­renza tra i trusts all’interno di uno stesso gruppo di datori di lavoro. (…)

Que­sta cir­co­stanza di non essere, di non appar­te­nere a nes­sun luogo, di non essere nep­pure più una cosa uti­liz­za­bile, non è la morte. Infatti come per una per­sona total­mente dispe­rata, che viene trat­te­nuta dal sui­ci­dio da un più pro­fondo strato dell’io, così nell’operaio resta l’esistenza fisica come resi­duum. Solo in que­sto strato di esi­stenza che gli è rima­sto può ora agire. All’inizio non rea­gi­sce, accu­mula. La povertà diventa rab­bia senza un deter­mi­nato oggetto di rab­bia. Rab­bia ven­di­ca­tiva senza un deter­mi­nato oggetto con­tro cui arrab­biarsi. Infatti gli è impos­si­bile deci­dere, nella basi­lare impre­ve­di­bi­lità del mondo attuale, chi lo ha por­tato in que­sta situa­zione. Ma ha biso­gno di un oggetto di rab­bia per supe­rare la rab­bia. Se non lo trova arriva ad inven­tarlo. E allora l’ebreo diventa l’oggetto della rab­bia – in una certa misura a poste­riori.

Dalla classe alla razza

Il gar­zone ha appreso a dicias­sette anni a fare il fale­gname, ora ha ven­ti­tré anni. Non ha mai potuto tra­durre in lavoro quel che ha impa­rato. Essere adulto signi­fica per lui essere chô­meur. Essere adulto signi­fica per lui non avere né il diritto, né la pos­si­bi­lità di fare qual­cosa. Non può spo­sarsi – non ha soldi. Non può lavo­rare. Non può restare in casa: sarebbe un oziare. Non può restare per strada – con­su­me­rebbe le suole. Non cre­scerà mai, non diven­terà mai un adulte, une grande per­sonne.Non bighel­lona solo nel suo vestito da gar­zone, ma anche nel suo volto da gar­zone. Non ha pre­oc­cu­pa­zioni, dal momento che lui non potrebbe porvi rimedio.

All’improvviso gli si apre una via di fuga: viene nutrito, meglio che a casa, e anche (et cella) in modo serio; non sol­tanto in modo serio, ma anche in modo magico: ottiene l’uniforme; non sol­tanto in modo magico, ma anche in modo nobile: è della razza migliore, non solo nobile, ma anche potente: lui, ultimo degli ultimi, è desti­nato a essere un sal­va­tore. Il suo pugno alzato con­serva feli­ce­mente una dire­zione verso cui dover pic­chiare, felice di poter dare alla sua rab­bia la lega­lità dell’onore e anche di dare un certo onore alla ille­ga­lità, pic­chia lì dove gli viene indi­cato. E non ha biso­gno di nient’altro che di un nemico. (…)

Dove l’operaio si distacca dalla cul­tura bor­ghese, tenta di rea­liz­zare l’ideale che la rivo­lu­zione bor­ghese aveva for­mu­lato come teo­ria, e che le ideo­lo­gie bor­ghesi ave­vano da tempo abban­do­nato: quella dell’uomo di natura. Denu­dan­dosi in modo pro­gram­ma­tico, si bagna nei laghi intorno a Ber­lino e vive nelle tende. Si tro­vano qui ine­stri­ca­bil­mente legati il mate­ria­li­smo rivo­lu­zio­na­rio, la cul­tura del nudi­smo e il culto della natura del movi­mento gio­va­nile, come anche il neo­pa­ga­ne­simo del movi­mento pura­mente popo­lare. In estate viag­giano in cam­peg­gio senza calze e senza costume da bagno, ma con il gram­mo­fono, la loro vita nomade e i loro appa­rec­chi radio­fo­nici risuo­nano nella notte del cam­peg­gio rischia­rato dalla luna. L’abbronzatura dei loro corpi è elo­quente del fatto che non lavo­rano più sotto l’ombra della fab­brica, e che le loro ferie non sono un periodo di ricrea­zione dal lavoro, ma piut­to­sto l’essere tagliati fuori dal lavoro.

Vivono ancora solo in modo fisico, poi­ché non sono più nes­suno e non val­gono più di niente. Si capi­sce che sono pronti per quella teo­ria, per quella cate­go­ria che fa dell’autentico una virtù della fisi­cità, sono pronti per la teo­ria della «razza». E que­sto è tanto più com­pren­si­bile quanto più il con­cetto di razza tran­sfuga attra­verso i secoli, cioè attra­verso la sto­ria, la tra­di­zione (alla quale loro non hanno preso parte) e si sof­ferma su qual­cosa di pre­i­sto­rico (cioè d’inerente alle fonti). La spe­ranza nutrita da Marx di fare della classe ope­raia l’erede della sto­ria intel­let­tuale tede­sca era un’illusione. La sto­ria ha messo un ter­mine a que­sta spe­ranza a par­tire dalla sto­ria stessa. Gli ope­rai che sono diven­tati senza sto­ria e senza tra­di­zione, si ven­di­cano sulla sto­ria, e fanno un salto indie­tro nell’utopia.

Non hanno nulla die­tro di loro. Ovvero: non hanno nes­suna tra­di­zione. I loro padri e i loro nonni lavo­ra­vano come ope­rai agri­coli a est dell’Elba o in Pome­ra­nia. Sono arri­vati in città come ope­rai. Hanno rico­min­ciato tutto da zero, senza remi­ni­scenza. Non hanno nes­suno stile di vita. Non sono stati model­lati da nes­suna reli­gione o con­te­sta­zione della reli­gione, da nes­suna morale o con­te­sta­zione della morale. Erano solo uomini in un senso bar­ba­rico. La città in cui arri­vano è appena più vec­chia di loro. Anch’essa non ha nes­suna tra­di­zione, non può più model­larli nello stesso tempo in cui essa si modella, non può (come fa Parigi) ren­derli a poste­riori eredi di un pas­sato al quale loro in realtà non hanno partecipato.

Non hanno niente davanti a loro. Non pos­sono con­tare su nulla. Non pos­sono disporre nep­pure di un pez­zet­tino di futuro. Senza dire­zione e senza oggetto, d’un tratto l’élan vital pre­ci­pita ed esita tra le alter­na­tive di teme­ra­rietà e apatia.

Non viveva nel suo mondo, ma nel mondo che «por­tava il colore dell’altra civi­liz­za­zione, quella degli altri». I suoi romanzi erano i cat­tivi romanzi bor­ghesi, di cui erano riem­pite le sue dome­ni­che. I suoi vestiti della dome­nica erano i vestiti che il suo capo indos­sava durante la set­ti­mana. Non viveva nel suo mondo, ma in quello degli altri, di cui non cono­sceva la sto­ria, e i cui risul­tati e le cui sco­rie gli ser­vi­vano come dimora. Di che cosa si deve occu­pare visto che ormai all’improvviso ogni giorno è dome­nica? Visto che lui – ten­ta­zione piccolo-borghese – è un pen­sio­nato con­tro la sua stessa volontà? Infatti non può acqui­stare quo­ti­dia­na­mente le distra­zioni della dome­nica. Desi­dera – nella misura in cui ha abban­do­nato la coscienza di classe – la vita del piccolo-borghese per­ché è un pen­sio­nato e per­ché, non avendo avuto il tempo di vedere il suo pro­prio mondo, deve ormai inten­dere il mondo del bor­ghese (Feno­meno paral­lelo: il piccolo-borghese che di fatto, pur non volen­dolo, è pro­le­ta­riz­zato, si ferma allo stesso punto. La mise­ria uni­sce le classi, i dise­re­dati difen­dono gli stracci dell’eredità).

Che cosa c’era prima? Era occu­pato, ma non (come era, per esem­pio, nel caso dell’artigiano) con il suo mondo, o con l’ultimazione di un oggetto, ma piut­to­sto con la divi­sione di un mondo che non può vedere nel suo insieme , poi­ché sono solo minu­scole parti. Era quindi occu­pato, ma pro­prio a causa della sua lun­ghezza e della sua inten­sità, que­sta occu­pa­zione non poteva costi­tuire né una vita (nel senso di un’unità bio­gra­fica) né la sua spe­ciale vita . Doveva fare quel che anche ogni altro può fare. In che cosa avrebbe potuto ora, in quanto «libero», appli­care la sua memo­ria? In una sola cosa: nel ricor­darsi l’eccezionale, vale a dire la dome­nica. In que­ste con­di­zioni non può essere un ricordo che resti­tui­sce il con­ti­nuüm di una vita, ma solo la sua sorella subal­terna: la sen­ti­men­ta­lità. La sen­ti­men­ta­lità che è tanto banale, tanto comune come la sua vita quo­ti­diana, che non teme, una vita che non dirige affatto in prima per­sona per­ché lui non viveva, almeno non in quanto lavo­rava, ma «veniva vis­suto». E non è solo lui che non viveva, ma uno qua­lun­que degli ope­rai che faceva que­sto o quel lavoro; e il modello esem­plare di que­sto uno qua­lun­que era pro­prio Fritz Mül­ler o quel nono ope­raio che rispon­deva al nome di Schulz.

Nel tempo del gioco

Il tempo vuoto – che un tempo era cono­sciuto solo come astra­zione filo­so­fica del tempo sem­pre già pieno – diventa qui nell’esistenza dello chô­meur realtà. Poi­ché, men­tre la vita è sem­pre e total­mente impe­gnata nel fatto di impe­gnarsi in qual­cosa, e il tempo è la forma ordi­nata delle sue occu­pa­zioni, la vita è ora improv­vi­sa­mente abban­do­nata a sé stessa e alla vuo­tezza del suo tempo che non avanza più ma resta fermo. Per­ché più la vita è disim­pe­gnata, più il suo tempo tra­scorre len­ta­mente. Ma non è con­cesso a que­sta vita senza par­ti­co­la­rità e occu­pa­zioni di badare a sé stessa, non le è nep­pure con­cessa la rifles­sione in senso più ampio, poi­ché la rifles­sione ha sem­pre altri motivi: è sco­perta di sé, coscienza, rimorso (Ago­stino), ricordo come remi­ni­scenza della vita piena e sua uni­fi­ca­zione bio­gra­fica (Goe­the), è sco­perta del mondo inte­riore come rinun­zia al mondo, abban­dono alle nuan­ces dell’interiorità pro­pria cono­sciuta come disor­dine (Proust), è auto­de­ter­mi­na­zione nell’ascolto dell’imperativo morale (Kant). Ma qui la vita è sola­mente riman­data a sé stessa da qual­cosa di altro da sé, da qual­cosa di estra­neo, e senza che lo abbia deciso. Non lo trova, non nel senso della auto­no­mia kan­tiana, non lo rim­piange. È lasciata dal mondo e dall’idea stessa di un’occupazione. Non essendo altro che un reli­quat, non ha nes­sun mondo inte­riore pieno, ma aveva gior­nate impe­gnate (per chi?). Non solo non è eser­ci­tata nella rifles­sione, ma, se anche intra­pren­desse que­sto per­corso, non avrebbe alcun oggetto, non tro­ve­rebbe niente per­ché non c’è niente da tro­vare. Que­sta vita infatti non era essa stessa niente e quindi doveva deci­dersi per un’occupazione in qual­cosa di altro. Occu­pa­zione in che cosa?

Se non con il sonno e il gioco, cioè con la morte del tempo e con l’inganno del tempo di vita tra­mite la sua sosti­tu­zione con quello arti­fi­ciale del gioco, come coloro che giro­va­gano senza una dire­zione. Pre­oc­cu­pan­dosi della vita (ci si pre­oc­cupa della cosid­detta vita nuda con il soste­gno di disoc­cu­pa­zione e il sus­si­dio), la si priva del diritto ele­men­tare, pre­u­mano, natu­rale, di pre­oc­cu­parsi di sé stessa. Le patate ven­gono sia rac­colte sia gua­da­gnate: sono poste davanti allo chô­meur come i leoni allo zoo.

Tra­du­zione di Micaela Latini

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