Il tempo dei Giusti che non si arresero

L’esempio dell’ebreo polacco sopravvissuto alla Shoah è una terapia capace di dare un senso al nostro presente
L’esempio dell’ebreo polacco sopravvissuto alla Shoah è una terapia capace di dare un senso al nostro presente

Non importa se il nome di Moshe Bejski non vi dice niente: è comunque in suo onore che gran parte del mondo domani celebrerà la Giornata dei Giusti.
Forse non tutti risponderanno all’appello dei Comitati sparsi nei vari continenti, ma certo lo farà chi è animato da un ideale preciso: testimoniare che un’alternativa al male e alla violenza è possibile, senza ricorrere a denunce e condanne, affidandosi esclusivamente alla «forza del bene».
Moshe Bejski, dunque, è l’eroe assai poco chiacchierato di questa storia. Ebreo polacco sfuggito fortunosamente alle persecuzioni naziste dopo l’invasione del 1939, aiutato dal mitico Schindler a rifugiarsi prima in Cecoslovacchia, poi in Italia e infine in Palestina, testimone chiave del processo ad Adolf Eichmann, in seguito giudice della Corte costituzionale israeliana nonché presidente della Commissione dei Giusti, ideale promotore delle celebrazioni di domani. Un uomo che durante la sua esistenza ha sperimentato quasi tutto il male possibile del Novecento; eppure poco noto al pubblico «digitale», che come si sa è concentrato per definizione sul presente. Ma un contributo importante alla sua riscoperta viene ora da un saggio che gli ha dedicato il giornalista, saggista e storico Gabriele Nissim, edito dal Corriere della Sera:Il tribunale del bene – La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il Giardino dei giusti . Titolo impegnativo, quasi paradossale, dal momento che di solito l’idea del giudizio viene considerata inseparabile da quella della colpa.
Ma lo choc più forte, per il lettore, viene dal rovesciamento della prospettiva che vi è contenuta. Nissim, già amico personale e in seguito continuatore italiano dell’opera di Bejski, qui non si limita ad esporre le ragioni della giustizia e della memoria, non è soltanto un avvocato delle vittime ebraiche, né si confonde con i tanti pubblici ministeri che ripercorrono periodicamente gli orrori della Shoah; è piuttosto l’ interprete, un po’ missionario, di una originale «religione del bene», che si contrappone frontalmente alla retorica del male, scaduta a manierismo nelle mani di artisti e filosofi abituati a cavalcare il pessimismo, o a percorrere strade già battute.
Quando propone come ricetta terapeutica «il gusto del bene», quando ripete con Bejski che «non bisogna cercare eroi ma persone normali» capaci «di trasmettere l’idea di un bene possibile», Gabriele Nissim sfida apertamente il senso comune dominante che divide il mondo in buoni e cattivi, facendo dell’appartenenza politica un elemento decisivo di valutazione, e limitando forzatamente all’Olocausto il male assoluto totalitario che i giusti dovrebbero contestare, e i democratici combattere.
Il tribunale del bene si pone in tutt’altra dimensione, che Nissim da tempo ha fatto propria. Non solo la Shoah, ma anche il genocidio comunista consumato nei lager, quello nazionalista turco ai danni degli armeni, e l’altro dimenticato del Ruanda, e tutti gli altri spesso relegati nelle note a piede di pagina dei libri di storia, sono per lui manifestazioni dello stesso male, cui la risposta dei Giusti è la sola pienamente umana. Ecco perché, non si stanca di ripetere, Giusti possono essere cristiani e non credenti, ebrei e musulmani o appartenenti a qualsiasi altro credo, e addirittura persone originariamente complici del nazionalsocialismo e del bolscevismo, che abbiano trovato però nel corso della loro esistenza la forza di «interrompere la catena del male».
Così nelle pagine de Il tribunale del bene vengono elencati quattro tipi di Giusti, riconoscibili da segni precisi e oggettivi: chi presta soccorso a una vita in pericolo e chi denuncia un genocidio; chi non accetta la delazione e la menzogna difendendo la pluralità umana; chi conserva la propria dignità non accettando di farsi corrompere dalle situazioni estreme; chi difende la memoria di un genocidio di fronte ai negazionisti. Il filtro per il riconoscimento dei Giusti è a maglie larghe, insomma, al punto da infastidire i più arcigni difensori della Memoria e della sua presunta purezza; ma esso permette invece a Nissim di accostare la Giornata dei Giusti, almeno nello spirito, a quella americana del Ringraziamento, dove si celebrano i Padri Pellegrini del 1600 perché si impegnarono a costruire una società giusta e tollerante. Nell’una e nell’altra cerimonia c’è molta gioia per avere conservato la dignità e non avere tradito la propria natura umana, infatti, mentre il cupo officio del lutto resta sullo sfondo.
L’autore non si limita a riproporre questa interpretazione del Bene, ma vi aggiunge un suo originale contributo: là dove il maestro Bejski faceva della categoria universale dei Giusti una «élite dell’umanità» pur sempre legata alla sola Shoah, lui accomuna il concetto a tutte le altre forme di violenza sistematica e genocidio. Non per negare la specificità dell’Olocausto ebraico, naturalmente, ma convinto di conferirgli più forza accostandolo alle altre forme di sterminio, potenzialmente anche future.
Per tutti questi motivi la lunga battaglia «di minoranza» combattuta dall’esule polacco Moshe Bejski, senza paura di scontrarsi con gli ortodossi anche su punti fondamentali (basti pensare che si dichiarò contrario alla condanna a morte di Eichmann) è centrale nel libro, proprio come lo è lo sforzo perseverante di Nissim, infine coronato dal successo, per far riconoscere ufficialmente dal Parlamento europeo le celebrazioni del 6 marzo (anniversario della scomparsa di Moshe Bejski).
L’essere Giusti, insomma, a giudizio dell’autore è una categoria tanto universale da potersi attagliare addirittura — come nel caso limite dell’antisemita polacca Sofia Kossak, che di fronte allo sterminio fondò un movimento di aiuto agli ebrei — a personaggi schierati innegabilmente in campo avverso.
Ma perché stupirsi? Gabriele Nissim sostiene — sempre sulle orme di Bejski — che la memoria del bene agisce di per sé come una terapia: regala ad ognuno il piacere di attribuire senso alla propria vita, e consente di alleviare, se pure di poco, i mali del mondo. E inoltre, funziona come uno stimolo costante nella esistenza quotidiana, anche in quella di chi non può vantare alcuna speciale vocazione all’eroismo. Se l’«ambiguità», insomma, è parte della vita, più che sognare la purezza del Bene conviene cercarla nel fondo della propria natura umana.

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