Era allievo di Einaudi. Che non seppe vedere cosa stava accadendo
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Un economista ad Auschwitz I silenzi uccisero Renzo Fubini

 
 
 Era allievo di Einaudi. Che non seppe vedere cosa stava accadendo
 
 
 Era allievo di Einaudi. Che non seppe vedere cosa stava accadendo
«L a polizia italiana di Aosta arrestò Renzo Fubini il 7 febbraio 1944 in un convento di Ivrea. Lo attirarono all’esterno dicendo che avevano un messaggio da parte della moglie, e lo presero. Avevano ricevuto una lettera non firmata: all’epoca le delazioni venivano rimunerate 5 mila lire, più o meno 250 euro di oggi, ma pare che questa sia rimasta anonima». 
Le pagine che Federico Fubini dedica alla storia di Renzo, fratello di suo nonno, hanno l’asciuttezza e la forza di un grande libro. Il titolo, La via di fuga (Mondadori), indica il tentativo vano dell’economista ebreo, allievo di Luigi Einaudi, borsista alla Rockefeller Foundation di New York nel pieno della Grande depressione, di sottrarsi alla persecuzione razziale e allo sterminio nazista. Ma indica anche il possibile rimedio a una crisi — quella di oggi, come quella degli anni Trenta — che non è soltanto economica ma è anche politica, culturale, morale. 
Il Fubini giornalista, che indaga sulla compravendita di voti in Calabria (terra dove affonda le radici un altro ramo della sua famiglia) e sull’avvento di Alba Dorata nell’ora più nera del collasso greco, si identifica in parte con la ricerca dell’antenato economista, cui somiglia in modo impressionante, come dimostra il confronto tra la foto del protagonista in copertina e quella dell’autore. 
Ovviamente il libro restituisce la terribile singolarità della tragedia degli ebrei italiani nel secolo scorso. Ma emergono anche elementi di raffronto tra il modo in cui l’Italia reagisce alla crisi del ’29 e alla svolta isolazionista e bellicista del fascismo, e il modo altrettanto inadeguato in cui oggi il nostro Paese, il nostro apparato produttivo e le istituzioni europee stanno reagendo a una crisi che minaccia di produrre devastazioni sociali e politiche quasi altrettanto gravi. L’autore cita un allievo di Renzo all’università di Trieste, l’economista Albert Hirschman, secondo cui ci sono tre modi di reagire alle crisi: exit , defezione; voice , protesta; loyalty , lealtà al sistema in declino. E in effetti la perseveranza con cui le Merkel e gli Schäuble insistono nella loro visione ortodossa del monetarismo e del rigore può ricordare l’ottusità con cui il presidente americano Hoover rifiutò sino all’ultimo la possibilità di un piano di investimenti pubblici per far ripartire l’economia. Ma, sostiene l’autore, i fatti dell’Italia nella tempesta delle leggi razziali e della guerra e la vicenda dell’Europa di oggi mostrano che esiste una quarta reazione possibile: il rifiuto della realtà. 
Quasi con dolore Federico Fubini annovera anche Luigi Einaudi tra gli studiosi — e gli italiani — che rifiutarono di vedere la realtà. Come studioso, il maestro di Renzo Fubini restò ancorato alla visione classica di Von Hayek, mentre l’allievo era affascinato dalle teorie «interventiste» di Keynes, che contribuirono a trascinare l’America rooseveltiana fuori dalla grande crisi. Come italiano, Einaudi non presagì la tempesta imminente. E non si impegnò per far avere a Renzo un posto all’estero, che l’avrebbe tenuto lontano dal dramma delle leggi razziali e poi dell’occupazione tedesca. 
«Dopo aver portato via Renzo, la squadra di poliziotti andò all’appartamento in una frazione poco lontano dove si nascondevano (sua moglie) Marisetta con la figlia Bice, la madre Rosetta Segre e la nonna Bella Allegra Treves. Lei rifiutò di farsi prendere. Disse che non potevano portarla via, perché la legge italiana vietava di arrestare le madri durante l’allattamento. Il caposquadra decise di tornare in caserma a prendere istruzioni, si allontanò e dette il tempo a Marisetta di sparire con Bice, la madre e la nonna mentre Renzo era già in prigione». 
Fubini restituisce bene i limiti della cultura economica e imprenditoriale di un Paese «chiuso, gretto, ignorante» come l’Italia fascista, spazzando via insopportabili luoghi comuni e rivalutazioni postume consolatorie ma prive di basi storiche. E addita la continuità delle istituzioni economiche del regime anche nella nuova Italia democratica: «Si è traghettato nella Repubblica il corporativismo, è proseguita l’intrusione della politica nell’azionariato delle imprese e delle banche, e anche l’amministrazione pubblica sarebbe rimasta in democrazia più votata al controllo e al confondere e occultare le responsabilità dei singoli burocrati che all’efficienza o al servizio dei cittadini». Oggi i nodi vengono al pettine, i ritardi dello Stato si sono accumulati, lo scambio tacito tra bassi salari e bassa produttività (anche nell’impresa privata) ha dato i suoi frutti avvelenati: e di fronte alla crisi del sistema e al declino del Paese molti italiani si rifugiano, come i loro nonni, nel rifiuto della realtà. Siamo ancora in tempo a cercare «la via di fuga» che in un contesto lontano e non paragonabile sfuggì a Renzo Fubini. Ma adesso come allora fingere di non stare vivendo un tornante della storia, che richiede risposte straordinarie, può portarci alla rovina. E il riscatto è possibile, ma resta tutto da costruire. 
«Il convoglio arrivò ad Auschwitz il 23 maggio 1944 e Renzo Fubini fu immatricolato con il numero A-5410. Qualcuno dichiarò di averlo visto all’ospedale di Birkenau a metà settembre. Secondo un documento del ministero della Pubblica Istruzione del 1950, invece, in un campo satellite di Auschwitz già il 30 luglio sarebbe “deceduto per esaurimento”». Molti anni dopo, Marisetta, la moglie di Renzo, racconterà a sua figlia Bice di aver chiesto a un superstite della Shoah «di dichiarare in un ufficio pubblico di aver assistito al decesso di Renzo. Bice non è sicura, ma probabilmente quel testimone fu Primo Levi». 

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