Sinistra. «Ho aderito all’invito di Sel perché credo che un nuovo partito sia necessario e possibile. E perché non credo che un partito da solo possa bastare»
Nei giorni scorsi qualche quotidiano ha dato la sorprendente notizia che «la Castellina torna in politica». Io, per la verità, pensavo di non esserne mai uscita, ma non sono stata sorpresa dell’annuncio: è ormai corrente l’idea che la politica sia cosa solo dei partiti e dei deputati, non dei cittadini. Perciò non fanno politica movimenti e associazioni, né singolarmente, né in coalizione. E ovviamente neppure io che da 20 anni non ho più partito, e tanto meno mandato parlamentare, e sono “solo” partecipe di quel che si muove a sinistra nella società.
Se questa settimana vengo ufficialmente riammessa nella categoria dei «politici» è perché avrei accettato di dialogare con un partito, Sel; col quale ho peraltro dialogato sempre, sia pure in forme più casuali.
Trascorsa la Pasqua voglio dar conto delle ragioni che mi hanno indotto ad accettare il confronto più serrato e diretto che a me e a qualche altro compagno è stato offerto da Sel, per — come ha detto il suo coordinatore nazionale Nicola Fratoianni — «andare con Sel oltre Sel e dare così maggior forza alla nostra convinta volontà di apertura».
E’ ormai da tempo che siamo impegnati nella costruzione di un nuovo soggetto politico che colmi la voragine che si è aperta a sinistra. Sappiamo che i tentativi finora esperiti sono andati a finire male e siamo tutti convinti che non dobbiamo ripercorrere le stesse strade perché erano sbagliate: ritenere cioè che basti una sommatoria di sigle.
Gli arcobaleni sono belli da vedere ma finché i colori restano distinti e non si innestano l’uno nell’altro creando una cosa nuova non si tratta di un buon simbolo per rappresentare l’agognato soggetto. Non solo: non basta neppure che si mescolino i colori dati, occorre anche aggiungerne di nuovi e diversi, quelli che affiorano nella società e non sono ancora partiti ma nemmeno gruppi organizzati, e sono la maggioranza delle forze che occorre aggregare.
Io sono abbastanza ottimista perché penso che in questo ultimo anno abbiamo fatto qualche passo avanti nella direzione giusta come prova l’esperienza dell’Altra Europa che, con tutti i suoi limiti e persistenti non superate differenze di opinione su scelte non secondarie, sta tuttavia procedendo. Sono ottimista anche perché, a differenza del passato, i più consistenti fra i partiti veri e propri, Sel e Rifondazione comunista, hanno accettato di aprirsi al processo costituente. Senza sciogliersi — sarebbe una follia — ma offrendo la propria disponibilità ad impegnarsi in qualcosa che non può che essere un lungo processo: nel corso del quale superare positivamente le diversità, e, soprattutto, ritrovare una capacità di rappresentanza sociale che a tutti manca. Per questo ritengo che la nascita della coalizione messa in campo da Landini sia un decisivo contributo in questo senso: ridà voce a chi da tempo non ce l’ha, e avvia, anche, un modo nuovo di essere del sindacato. Servirà a tutti, partiti esistenti e futuri.
In questo contesto credo che Sel abbia compiuto i passi più coraggiosi: non solo perché, essendo l’organizzazione più consistente e dotata di un non piccolo drappello di parlamentari, è quella che avrebbe potuto esser più tentata dall’autosufficienza, ma perché ha dimostrato in quest’ultimo anno di voler procedere concretamente nel confronto con gli altri: ne sono la prova la bella esperienza di Human Factor e la partecipazione alle liste prima e poi ai comitati dell’Altra Europa. E ora con questa certo anomala proposta: l’apertura dei suoi organismi dirigenti alla partecipazione di non iscritti per rendere più solido, all’interno dello stesso partito, il ponte verso l’esterno. Per questo sono stata contenta che mi abbiano proposto di essere nel drappello che sperimenterà questo passaggio.
E’ evidente che ho accettato anche per due altre e consistenti ragioni: perché sebbene io non abbia mai aderito a Sel — perché tutt’ora critica su molte cose — sono certamente affine, per storia e memoria, alla formazione politico-culturale di questa organizzazione.
In secondo luogo perché non mi piace la demonizzazione dei partiti, anzi, dell’idea stessa di partito che è emersa in questo periodo, fino — come alcuni hanno proposto — a volerli escludere dal processo costituente in atto.
Guido Viale ha scritto il 1 aprile sul manifesto che i partiti sarebbero, tutti, ceto politico, mentre le organizzazioni che operano nella società civile sarebbero tutte illibate e naturalmente unitarie. Sento nella sua ipotesi di esclusione di ogni forma partitica l’eco dell’idea negriana della «moltitudine», come somma di tante proteste che nella loro immediatezza finirebbe per rovesciare il sistema di potere dominante e di per sé dar vita ad una alternativa. In una società sempre più complessa come quella in cui viviamo è difficile trovare in natura un corpo sociale omogeneo e compatto, perno dell’alternativa, come fu nel secolo scorso il movimento operaio.
Il capitalismo avanzato non unifica ma disarticola il corpo sociale in figure contrapposte e rende sempre più difficile l’affermarsi di una coscienza alternativa, anche perché questa è sempre meno semplice soddisfazione di bisogni immediati ma richiede, per soddisfarli, un progetto di trasformazione del modo stesso di produrre, di consumare, e dunque degli stessi bisogni e valori. La mediazione politica e culturale è dunque sempre più, e non meno, necessaria; e va operata ad un livello sempre più alto.
La degenerazione oligarchica dei partiti nasce dal fatto che da tempo gli stessi partiti di massa non son stati in grado di rappresentare questa soggettività organizzata, questo — direbbe Gramsci — «intellettuale collettivo», in grado di compiere una simile mediazione. E questo è accaduto perché a partire da un certo momento lo stesso Pci non è stato più capace (o non ha più voluto) spezzare la separazione tra economico/sociale e politico.
Per questo non mi piace la polemica anti-partito che non si accompagna a una critica anche molto più drastica dei partiti esistenti, ma che anziché generica deve diventare circostanziata e deve accompagnarsi ad una riflessione seria su quanto ha nella nostra storia portato a questa separazione.
Un disastro — su questo credo siamo tutti d’accordo — che non può certo esser superato grazie a piccole avanguardie minoritarie, come fu in qualche modo l’illusione di una parte della nuova sinistra postsessantottesca.
Un nuovo partito come lo vogliamo non può affermarsi senza che vi sia un grande movimento di massa, sociale e al tempo stesso politico, nel senso di arrivare ad esercitare, da subito — e ricorrendo anche a forme di democrazia diretta ma organizzata — una funzione di concreta assunzione di responsabilità di gestione di pezzi della società, andando quindi al di là di una mera azione rivendicativa. Non dunque la semplice, immediata espressione della società civile, ma, per l’appunto, di una democrazia organizzata.
Per questo oggi ancor più che nel passato contrapporre polemicamente il livello sociale a quello politico non mi pare abbia senso, e per questo penso anche, però, che non basti l’accumulo della protesta.
Occorre, credo, recuperare fino in fondo il senso della politica, e superare l’idea della democrazia come semplice somma di garanzie e diritti individuali, per riconquistare quello spazio deliberativo che solo può venire se esistono soggetti collettivi dotati di un progetto di trasformazione e capaci di collegare società e istituzioni. Se si supera l’idea che la democrazia sia garantita da una maggioranza estratta da «un elenco di votanti».
Questa frase l’ha citata Zagrebelsky nella relazione tenuta nella bellissima seduta che alla Camera dei Deputati ha celebrato i cento anni di Ingrao.
Così come quella di Leonardo Paggi, le due relazioni hanno sottolineato con forza come la nostra Costituzione verrebbe stravolta se i soggetti fossero semplici individui elettori e non, come era stato previsto, rappresentanti di un progetto collettivo come erano i partiti politici di massa.
«Nel nostro tempo — scriveva Ingrao 30 anni fa — l’individuo, per essere individuo, e persino per contare come elettore, ha dovuto costituirsi in associazione, ed è attraverso questo associarsi che ha potuto affermare la sua individualità politica». La crisi attuale della democrazia, in Italia ma anche altrove, ha la sua radice principale proprio nel venir meno della dimensione collettiva della politica. Il crollo della credibilità dei partiti è l’effetto diretto della scomparsa della militanza, del coinvolgimento, che ha a sua volta determinato l’estremo impoverimento della democrazia..
«Il voto non basta», scriveva Ingrao. E neppure la sola lotta rivendicativa. Occorre una soggettività politica che è sempre collettiva ed ha la sua insostituibile forma organizzata nei partiti.
E’ certo vero che i partiti necessari non potranno essere uguali a quelli che furono anche i migliori, bando alle nostalgie. E però la riabilitazione della politica e l’impegno a pensare e a costruirne di nuovi e adeguati è altrettanto importante di quello che anima chi pensa di dover ripensare le forme del sindacato e dei movimenti.
O cercheremo di muoverci tutti su tutti i livelli, senza contrapporre l’uno all’altro, senza reciprocamente demonizzarsi, o non credo che ce la faremo. La riflessione cui i 100 anni di Pietro Ingrao ci hanno sollecitato può aiutarci.
Ecco perché mi interessa discutere in forme più ravvicinate con Sel, così come continuare a farlo con L’altra Europa e tutti i soggetti interessati a questo processo costituente, compresi quelli che oggi patiscono la deriva renziana del loro partito, il Pd.
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