Lucia Topo­lan­sky, vita da pasionaria

Uruguay. Intervista all’ex tupamara, oggi senatrice, moglie di Pepe Mujica

“I tempi cam­biano, ma gli ideali, gli obiet­tivi e l’impegno restano gli stessi”. Ha ancora un sor­riso da bam­bina, Lucia Topo­lan­sky. Sena­trice del Frente Amplio Movi­miento de par­ti­ci­pa­cion popu­lar, com­pa­gna di vita e di lotta dell’ex pre­si­dente Pepe Mujica, è stata Pre­si­dente del Senato uru­gua­yano fino a marzo del 2015. Classe 1944, pro­viene da una fami­glia bene­stante di ori­gine polacca. Nel 1967, insieme alla sorella è entrata nel gruppo guer­ri­gliero Movi­miento de Libe­ra­ción Nacional-Tupamaros. Nel 1970 viene arre­stata, tor­tu­rata e con­dan­nata al car­cere duro, da cui uscirà nel 1985 quando viene appro­vata un’amnistia. Dal 1973 all’85 l’Uruguay è stato nella morsa di una feroce dit­ta­tura mili­tare che ha fatto parte del Piano Con­dor, il piano di ster­mi­nio a guida Cia con cui le dit­ta­ture lati­noa­me­ri­cane di allora eli­mi­na­vano gli oppositori.

Dalla guer­ri­glia al governo. Cosa avete tra­sfe­rito di quell’esperienza nell’Uruguay di oggi?
Ci sono con­qui­ste, per­corsi e ideali che ven­gono da lon­tano e con­ti­nuano a essere validi come la lotta con­tro lo sfrut­ta­mento dell’uomo sull’uomo per cui abbiamo com­bat­tuto e com­bat­tiamo oggi. C’è il tema della terra, per cui ci siamo bat­tuti allora e su cui siamo andati avanti in Uru­guay da quando il Frente Amplio sta al governo. Abbiamo messo in atto una forma sui gene­ris di distri­bu­zione della terra ria­dat­tando un vec­chio orga­ni­smo, l’Istituto nazio­nale di colo­niz­za­zione: 30 o 40 fami­glie che non avreb­bero potuto com­pe­tere nel mer­cato capi­ta­li­sta — che con­ti­nua a esi­stere in Uru­guay — pos­sono farlo met­ten­dosi insieme in un sistema in cui la pro­prietà della terra è dello stato, ma l’usufrutto a vita è dei lavo­ra­tori. Non si tratta di coo­pe­ra­tive, ma lo spi­rito è lo stesso. E poi abbiamo svi­lup­pato l’autogestione. In que­sto momento vi sono 26 imprese nelle mani dei lavo­ra­tori in cui non si estrae il plu­sva­lore, ma tutto viene con­di­viso e rein­ve­stito nella pro­du­zione dagli stessi ope­rai. Vi sono imprese che pro­du­cono vetro e che hanno aperto altri punti in Vene­zuela, in Boli­via, tra un po’ a Cuba: una mul­ti­na­zio­nale pro­le­ta­ria del vetro, dico per scher­zare. Pro­du­ciamo lam­pade, tes­suti… Sono imprese recu­pe­rate dopo la fuga dei padroni, altre sono state messe su per­ché gli ope­rai non ave­vano lavoro e se ne sono inven­tati uno. Adesso sta nascendo la prima com­pa­gnia aerea com­ple­ta­mente auto­ge­stita dai lavo­ra­tori, che ini­zial­mente fun­zio­nerà solo in Ame­rica latina. Si chiama Alas Uru­guay. Abbiamo coo­pe­ra­tive auto­ge­stite nel set­tore dell’edilizia per le case popo­lari. Un’esperienza che abbiamo espor­tato in Venezuela.

Lei ha avuto ed ha inca­ri­chi impor­tanti. Anche que­sta è un’eredità del suo pas­sato? Qual è la con­di­zione delle donne in Uru­guay?
Nel movi­mento Tupa­maro c’è sem­pre stata ugua­glianza tra uomini e donne, e certo que­sto ci ha dato una mar­cia in più. Quando si agi­sce nella clan­de­sti­nità ci sono altre regole del gioco, conta il valore. Quando è finita la dit­ta­tura era­vamo rodate da anni di resi­stenza in car­cere. Non abbiamo mai dovuto lot­tare per avere un posto nell’organizzazione poli­tica. E siamo sem­pre state con­tra­rie alle quote. Quando abbiamo rico­min­ciato nella lega­lità, il nostro prin­ci­pale com­pa­gno, Raul Sen­dic avrebbe voluto for­mare una dire­zione com­po­sta da 4 uomini e 4 donne, ma abbiamo rifiu­tato. Anche oggi, nes­suno ci potrà mai dire che abbiamo otte­nuto risul­tati per le quote, ma se ci sono com­pa­gne che si sen­tono più sicure così oggi, non le bia­simo. Io, in quanto sena­trice più votata mi sono tro­vata a eser­ci­tare il ruolo di sup­plenza del pre­si­dente, diverse volte, una cosa nuova in Uru­guay. L’Uruguay ha d’altronde una sto­ria par­ti­co­lare, ha dato il voto alle donne all’inizio del secolo, c’è stato il divor­zio e gover­nanti molto avan­zati che hanno fatto stu­diare le donne vin­cendo i pre­giu­dizi e isti­tuendo una uni­ver­sità fem­mi­nile. Con la dit­ta­tura c’è stato un ritorno indie­tro, ma oggi per esem­pio siamo il par­tito che in par­la­mento ha più donne, che hanno avuto respon­sa­bi­lità nei tre governi del Frente Amplio. La società sta cam­biando molto, in Ame­rica latina, cam­bia la fami­glia. Vi sono tre pre­si­denti donna, in Cile, in Bra­sile e in Argen­tina. Ma non si deve guar­dare al con­ti­nente con occhi occi­den­tali. Quando vedo che una donna guida una gru o un camion sono con­tenta. In que­sto momento ne abbiamo molte nell’edilizia, nella medi­cina, nella magi­stra­tura. Tra un po’ saranno gli uomini a chie­dere le quote. Abbiamo avan­zato molto anche sul piano delle diver­sità ses­suali. L’identità non è un destino. Ma le que­stioni non vanno intese in modo set­to­riale. Se sei un gay povero vieni discri­mi­nato, se sei ricco no. Quel che conta è la lotta di classe.

L’America latina sta di nuovo scom­met­tendo sul socia­li­smo, ma l’attacco delle destre è forte. C’è il rischio di un ritorno indie­tro?
L’America latina sta vivendo un momento molto spe­ciale. Fun­zio­niamo sem­pre per ondate comuni: prima le dit­ta­ture, poi il neo­li­be­ri­smo, ora que­sta ondata nuova che non dob­biamo lasciar pas­sare. Ma serve un con­te­nuto teo­rico, ne par­liamo spesso tra noi, altri­menti cor­riamo il rischio che tutto diventi effi­mero. Non basta dire socia­li­smo, biso­gna capire come non ripe­tere la scon­fitta che abbiamo subito nel Nove­cento. Biso­gna con­so­li­dare i pro­getti. Che Lula abbia tolto dalla povertà 41 milioni di bra­si­liani è un passo verso il socia­li­smo, che l’Uruguay abbia ridotto le disu­gua­glianze e che in Boli­via vi sia un pre­si­dente Aymara e un paese solido è un passo avanti verso il socia­li­smo. Però non c’è un arco di trionfo in cui rifugiarsi

E da voi, non c’è il rischio di un arre­tra­mento? Tabaré Vaz­quez è più mode­rato di Mujica.
Non credo. Il Frente Amplio è un agglo­me­rato com­plesso, che ha molte iden­tità defi­nite al suo interno, par­titi e movi­menti come il nostro. La con­vin­zione che senza l’unità non saremmo mai andati oltre i pro­clami è però qual­cosa per noi con­so­li­dato da quarant’anni. Abbiamo anche in que­sto caso una espe­rienza che data dal ’64–65, quando si costi­tuì il Con­gresso del popolo. Riu­niva sin­da­ca­li­sti, poli­tici, stu­denti e orga­niz­za­zioni sociali, e la Cen­trale unica dei lavo­ra­tori per un pro­getto di paese diverso. Oggi, quel che ci uni­sce sono tre punti pre­cisi: un pro­gramma, uno sta­tuto e un impe­gno etico che tutti siamo tenuti a rispet­tare. Norme di con­dotta a cui dob­biamo atte­nerci, pos­siamo dero­gare ed agire come com­po­nente solo per que­stioni di prin­ci­pio, che sono rare. E poi c’è il par­la­mento in cui il nostro movi­mento è la forza prin­ci­pale. I cam­bia­menti avviati sono deter­mi­nanti. I mili­tari di oggi non hanno più niente a che vedere con il pas­sato, quelli coin­volti con la dit­ta­tura o sono in car­cere o sono fuori dal comando. I ver­tici sono civili, abbiamo avviato una riforma e una nuova scuola di poli­zia. E stiamo por­tando avanti la bat­ta­glia per la memo­ria. La destra quando ci vede in par­la­mento storce sem­pre il naso, ma i gio­vani stanno con noi.

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