Il racconto. Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornati evidenti iniquità, privilegi, ingiustizie. Ma il giovane proletariato è disgregato e inconsapevole
Il cielo sopra Milano è azzurro questa mattina, terso come poche volte capita in pianura. Cammino per il quartiere Isola mentre lo sberluccicante grattacielo dell’Unicredit mi ricorda senza possibilità di dubbio quanto sia cambiata la mia città in questi anni. Milano è diventata più bella. La contemporaneità si è fatta materia, si respira un’atmosfera internazionale, i vuoti sono stati riempiti, ciò che era infranto è stato sostituito, hanno perfino piantato qualche albero, a magra consolazione di un’aria sempre irrespirabile. Apprezzo questi cambiamenti ma non sono un ingenuo.
Continuo a camminare lungo la strada che porta verso il centro del quartiere, i faccioni sorridenti dei candidati alle elezioni stonano con tutta questa innovazione, sono inopportuni, un retaggio quasi offensivo. Fra poco ci saranno le elezioni. I cinque anni di Giuliano Pisapia hanno fatto bene alla città, il sindaco ha governato con praticità e buon senso; certo poteva fare meglio, ci sono stati diversi contrasti interni, alcuni assessori sono stati poco coraggiosi, altri hanno avallato con le loro scelte il mancato ricambio generazionale ma la sua giunta è stata la prima che ho sentito un poco appartenermi.
Sono cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, a Milano il berlusconismo – come il craxismo prima di lui – è stata una cosa seria, ha permeato fino in fondo la struttura sociale e culturale della città, l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza: garrula, ottimista e tragicamente incompetente. Noi i fascisti non li abbiamo mai avuti, nelle nostre periferie non c’è mai stata una militanza di destra identitaria, la nostra destra aveva un volto persino peggiore: era fluida, senza appartenenze, ignorante, qualunquista, legata a doppio filo a quella idea illusoria di benessere alla portata di tutti che fu alla base della stagione politica berlusconiana. E poi c’erano i leghisti ma in città non hanno mai contato nulla, bisogna andare nella Lombardia profonda per tastare con mano la loro influenza, per vedere quelle facce rubizze senza vergogna, orgogliose di non rappresentare niente se non il ben noto provincialismo reazionario. Poi ci sono i ciellini, e sebbene la loro presenza sul territorio sia impalpabile, l’innata prepotenza si sente fin troppo bene nei consigli di amministrazione degli ospedali e delle partecipate statali.
Sono stati fatti molti errori e credo che se ne faranno altri. La politica nazionale del partito democratico ha fatto sentire la sua influenza ed è mancata la forza di opporsi a una strategia di normalizzazione che ponesse fine all’esperimento Milano. Il risultato è che si fronteggiano due candidati molto simili: pallidi, intercambiabili, nel senso che entrambi potrebbero benissimo stare dall’altra parte, comunque deludenti, espressione di una borghesia in chiara crisi identitaria, costretta a campare di rendite e patrimoni novecenteschi.
Chiunque vinca noi abbiamo già perso, ed è evidente passeggiando in queste strade. Sono in piazza Minniti, alla mia sinistra comincia via della Pergola. Al posto della celebre casa occupata hanno costruito delle villette con i terrazzini stile finta vecchia Milano. Più avanti c’era Garigliano, lì francamente non so nemmeno cosa abbiano fatto, forse degli uffici. Come al vecchio Leoncavallo, a pochi chilometri da qua, del quale non rimane nemmeno una traccia estetica della sua esistenza. Ma non voglio essere nostalgico, non rimpiango la mia giovinezza e tantomeno la militanza perduta, non voglio ripetere gli errori della generazione precedente, i vecchi non sono mai meglio dei giovani, sono solo più stanchi.
L’avventura politica dei centri sociali è finita da più di quindici anni, quelle che dovevano essere le nuove parole d’ordine sono state copia incollate da formule ripetute a memoria, a loro volta già eredità faticosa e castrante. E non sarà l’ennesimo partitino all’1,5 % a colmare questo vuoto, impegnati come sono a difendere rendite di posizione personali.
Sono quarant’anni che in Italia manca un’elaborazione politica originale, perlomeno una traccia di avanguardia culturale che guardi al futuro eliminando anche solo per un momento la distinzione fra realtà e sogno. E noi abbiamo bisogno di sogni almeno quanto abbiamo bisogno di conflitto. Basta guardarsi intorno per capire quanto a Milano il conflitto sia stato espulso da ogni ambito sociale, da ogni ambiente di lavoro, da ogni confronto intellettuale. Eppure ci sarebbe spazio per nuove forme di lotta.
Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornate a essere molto evidenti le differenze sociali, le iniquità economiche, i privilegi spudorati, i torti e l’ingiustizia che stanno alla base di ogni esigenza di rivolta. Ma chi subisce è troppo abituato a farlo. Il nuovo giovane proletariato urbano è tramortito, disgregato e inconsapevole, basta lasciargli l’accesso a un livello minimo di consumo per disinnescare alla base ogni forma di ribellione. E dall’altra parte – che per quanto mi riguarda è sempre la parte del nemico – in alcune frange residuali della media borghesia intellettuale, persiste una sorta di postura ideologica, innocua e spesso caricaturale, molto attenta a ciò che erano un tempo le battaglie del partito radicale – ovvero le questioni di genere, i diritti civili, un vago ambientalismo – ma fatalmente distratta su ogni questioni riguardante la contrapposizione di classe. Questa contraddizione, che è tutta politica e non c’entra nulla con il costume, ha rappresentato il vero equivoco della sinistra italiana del secondo dopoguerra. Guardando per l’ennesima volta il disperare di questa gente, come faccio ad appassionarmi alla prossima tornata elettorale?
Ci vediamo fra vent’anni, quando non avremo la pensione. Allora si che tornerà il conflitto. Ma sarà devastante.
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