Quando andavamo davanti alla fabbrica

Sinistra. Quando, negli anni ’60 e ’70, in periferia a Roma, si respirava un clima di legittimazione della politica. Adesso sembra un sogno non la realtà vissuta da noi studenti che venivamo riconosciuti e accolti dagli operai

Finalmente è emerso il problema del fossato che divide l’elettore delle periferie popolari da quello del centro del ceto medio.

Il problema è la perdita dell’elettore che vive in periferia da parte delle forze politiche, un tempo sue legittime voci. In periferie abitano disoccupati e precari, italiani e immigrati. Gli italiani sopravvivono perché le loro mogli, sorelle, donne vanno al centro a fare “i servizi”. I non italiani sono prontissimi a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario. Sono “crumiri” involontari, odiati dai disoccupati che sentono la loro concorrenza come una prepotenza da cui nessuno li difende. E anzi: dalla Caritas sino alla gran maggioranza dei mass media, il lavoratore immigrato viene legittimamente considerato come una risorsa economica, demografica, culturale, ecc.

Il disoccupato italiano (e l’edile romano) vive una solitudine sociale e politica senza luoghi e esseri umani cui rivolgersi. Nelle sedi del sindacato e nelle sezioni dei partiti non mette più piede perché non è interessato ai diritti degli omosessuali e all’utero in affitto, le questioni su cui solitamente lì si discute. Le “sue” questioni riguardano i suoi bisogni, il lavoro, la casa, i trasporti.

All’origine del declino delle forze politiche vi è la transizione – culturale prima che politica – dai bisogni delle periferie popolari ai diritti del ceto medio progressista.

Quando e perché vi è stata la transizione potrebbe essere oggetto di una disamina tra i lettori del manifesto.

Il mio contributo è una testimonianza su come era lo stato delle cose prima della transizione, ormai tantissimo tempo fa. Negli anni sessanta/settanta del Novecento andavamo “a fare politica” nei cantieri edili e nelle borgate, eravamo tutti studenti, tutti con la ferma intenzione di dare la carica giusta al sindacato e al partito. Fare politica con gli edili significava dare battaglia perché si attivassero con la Camera del Lavoro (di Angelo Fredda) per avere il delegato di base nel cantiere.

Fare politica dinanzi alla Fatme e alla Fiorentini, le due fabbriche più importanti, significava più tessere per la Cgil, sempre discriminata, e mettere il naso nelle sezioni del Pci dove erano iscritti gli operai perché mandassero via i vecchi funzionari e eleggessero un segretario operaio.

Quando tutto ciò finì: quelle fabbriche chiusero e nei cantieri edili i ‘capoccetta’ non ci fecero più mettere piede, abbiamo avuto molto tempo per prenderci in giro su quel nostro “fare politica”. Una cosa però allora era chiara: il nostro operaismo si scontrava con l’altro, quello ufficiale proprio nelle periferie che frequentavamo.

Dove si respirava un clima culturale di legittimazione della politica che adesso sembra un sogno, non una realtà vissuta. Quando a Tiburtino terzo ci vedevano scendere dal bus, mettevano sul giradischi Bandiera Rossa, e non Bella Ciao.

Eravamo andati a trovarli sin lì, a chiacchierare del sindacato, del partito, e ci festeggiavano inconsapevoli oppure indifferenti del fatto che per il sindacato e per il partito di Roma, quei quattro studenti erano presenze non gradite.

La mia testimonianza consiste nella certificazione diretta che in periferia edili e operai, partito e sindacato stavano da una parte e dall’altra c’era il potere con la P maiuscola, la polizia che menava alle manifestazioni, la democrazia cristiana che si faceva viva solo al momento del voto, e c’erano i padroni che non volevano il sindacato e discriminavano i comunisti. Nessuno dubitava che le parti erano due e anche le forze politiche, l’una contro l’altra. Una rappresentava i bisogni del lavoro, l’altra gli interessi di chi comprava il lavoro. E intendeva comprarlo al minor prezzo possibile e alle migliori condizioni di utilizzo. Lo scontro tra le due rappresentanze sociali era nell’aria che si respirava.

E sul suo esito, vale a dire sulla fine dello scontro che bisognerebbe fare chiarezza. Sinora si sono assunte per oggettive le motivazioni di chi ha vinto lo scontro. E cioè il progresso tecnologico ha emarginato l’operaio di mestiere, la globalizzazione ha da un lato inondato il mercato di beni di largo consumo a prezzi concorrenziali e dall’altro ha fatto arrivare da luoghi lontani lavoratori oggettivamente crumiri.

E dunque lo scontro era impari e non lo si è affrontato.

Si è invece passati dai bisogni ai diritti. Dopo tutto i diritti sono universali e di conseguenza riguardano anche gli uomini del lavoro.

La centralità dei diritti rispetto ai bisogni è stata la scelta che ha messo le periferie popolari contro le forze politiche che sino allora le avevano tradizionalmente rappresentate. Si tratta di una scelta culturale e sociale che ha cambiato il paese.

E’ un cambiamento di cui vorrei dare ancora una volta una testimonianza diretta.

Pochi anni fa mi trovavo in un paesino toscano dove prima il Pci (e poi le sigle che diversamente lo hanno denominato) prendeva alle elezioni la maggioranza dei voti. C’era la festa dell’Unità e gli organizzatori avevano promesso di proiettare un film.

I presenti erano quasi tutti mezzadri, operai agricoli con mogli e figli. Arrivarono due ragazzi con il proiettore e la pizza del film. Silenzio e sullo schermo invece di Novecento di Bertolucci o di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, appaiono i titoli de L’attimo fuggente, la storia di un liceo privato conservatore americano e di un giovane professore progressista.

Dopo un po’ mi voltai per osservare la reazione dei mezzadri: era stata più drastica che mai, se ne erano andati via. Spariti come i voti delle periferie popolari.

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