Il vertice Merkel-Hollande-Renzi aveva l’ambizione di rappresentare, di «mettere – letteralmente – in scena», una nuova governance tripolare, pronta a guidare l’Unione europea
Il vertice Merkel-Hollande-Renzi aveva l’ambizione di rappresentare, di «mettere – letteralmente – in scena», una nuova governance tripolare, pronta a guidare l’Unione europea fuori dal pantano in cui è affondata dopo il referendum sulla Brexit.
Disonesta illusione, perché il summit a bordo di una nave da guerra nelle acque di Ventotene, col suo maldestro tentativo di appropriazione simbolica della irriducibile sfida politica ancora oggi lanciata dal Manifesto di Rossi, Spinelli, Colorni e Hirschmann, elude il carattere di vera e propria «crisi costituzionale» in cui il processo d’integrazione europeo è precipitato. E finge d’ignorare come l’esito della consultazione nel Regno Unito non sia stata che l’ultimo anello di un «concatenamento di crisi», in una reazione a catena innescatasi con quella del debito sovrano e della moneta unica, alimentata dalle politiche austeritarie e suggellata da quella «dei rifugiati» e del controllo delle frontiere, esterne e interne allo spazio Schengen.
In una progressione temporale scandita dalla «gestione esecutiva delle emergenze», affidata alla combinazione tra volontà dei singoli governi nazionali e delle strutture tecnocratiche sovrastatali, come dispositivo permanente d’indirizzo e comando politico. È del resto questo il contesto che ha nutrito, negli ultimi anni, la diffusione e la crescita dei populismi sovranisti, delle destre nazionaliste e razziste.
Ma in campo non vi è solo questa aggressiva revanche. Né solo i tentativi di auto-rilegittimazione su portaelicotteri di un «grande centro» che vede i suoi spazi, anche di consenso elettorale, continuamente ridursi. Tra le altre cose, lo testimonia la vivacità della ricerca e del dibattito che si è riversata in due importanti momenti di confronto, negli scorsi mesi di giugno e luglio, non a caso ospitati nella sede della Rosa-Luxemburg-Stiftung di Berlino, cioè nella capitale dell’«Europa tedesca», per iniziativa della stessa Fondazione e poi della rete continentale di Transform!
Un convegno dal titolo ironicamente ambivalente Europe: what’s left? (vale tanto per «Europa, che cosa ne resta?» e per «Europa, che cos’è sinistra?») e un seminario sullo State of affairs in Europe – cui hanno complessivamente partecipato oltre duecento tra attiviste e attivisti, ricercatori e studiosi critici, dalle eterogenee provenienze nazionali e di movimenti sociali e di strutture sindacali, organizzazioni non governative, partiti politici e reti di ricerca militante – hanno prodotto una discussione non ipocrita, ma ben consapevole delle difficoltà, che talvolta appaiono come insormontabili ostacoli, in cui si trova a muoversi un punto di vista orientato alla trasformazione sociale.
Di questa riflessione sono specchio fedele le «Ventidue Tesi», coraggiosamente offerte dallo stesso gruppo di organizzatori della Fondazione Rosa-Luxemburg. In questo testo riconoscono come l’Europa rappresenti oggi, soprattutto, «un comune problema, non ultimo per la sinistra». A partire dalla «dannata realtà dell’Europa-realmente-esistente» di cui molti stanno facendo diretta esperienza. Sono note le ragioni per cui la parola «Europa» è diventata sinonimo di impoverimento di massa e di riduzione dei diritti sociali e degli spazi democratici. Ma, attenzione, «milioni di persone guardano all’Europa con speranza».
Sono le persone e i migranti che ogni giorno provano a scavalcare i suoi confini militarizzati: guardando al nostro continente come a un luogo che può «offrire loro protezione da guerra e persecuzioni, garantiscono che la questione di un altro futuro per l’Europa rimanga aperta». E altrettante persone attive nell’accoglienza stanno, nei fatti, prendendo posizione contro «la società post-democratica dell’individualismo competitivo». Così come chi lotta ogni giorno per il diritto alla casa, alla salute e all’istruzione, chi difende l’ambiente e i diritti sociali e del lavoro. Questa Europa è oggi messa in secondo piano dall’apparente «polarizzazione tra il blocco di potere autoritario dominante e il crescente populismo di destra». Il punto è proprio allora come rendere visibile e politicamente efficace questo «terzo polo» in Europa.
Non partiamo da zero: al di là delle loro particolarità locali e nazionali, «i conflitti sociali stanno sempre più sincronizzandosi e producendo situazioni condivise», che risultano intrecciate in un rapporto causa-effetto con gli sviluppi del contesto politico continentale. Ci sono ormai diverse questioni comuni che assumono un respiro immediatamente transnazionale. Esempio macroscopico ne sono i contenuti di lotta alla normalizzazione del regime di austerity e di precarizzazione sociale, espressi con forza dalle mobilitazioni della lunga primavera francese contro la Loi Travail.
Ma, pur di fronte a questo dato di fatto – osserva Mario Candeias, direttore dell’Istituto per l’analisi critica della società della Rosa-Luxemburg – a livello europeo la sinistra intesa in senso più ampio, movimenti, partiti, sindacati, è frammentata: «La convergenza di prospettive e di lotte è limitata dalla forte eterogeneità delle situazioni e dalla disomogeneità delle posizioni politiche». Non si vede alcuna scorciatoia per la costruzione di una comune organizzazione europea.
E ancor più: la sinistra si presenta oggi profondamente divisa per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti dell’Europa e dell’Unione. I punti di vista ideologicamente più forzati, cioè l’insistenza per un’accelerazione ulteriore del processo d’integrazione e la Lexit, come uscita «a sinistra» dalla Ue e ritorno agli stati nazionali, risultano entrambi idealistici: il primo in quanto irrealistico in tempi di disintegrazione dell’Unione, il secondo perché fatalmente subalterno alla posizione delle destre sovraniste.
Per Walter Baier – che dirige la rete Transform! Europe – bisogna aver ben presente come i nazionalisti delle destre radicali, che non mettono affatto in discussione la dottrina unica del libero mercato, rappresentino il vero «piano B delle classi dominanti». Lo scenario di un «collasso dell’Unione», con gli stati nazionali capitalistici che resterebbero al loro posto, vedrebbe un «ritorno alla prima metà del Novecento», in un contesto globale pericolosamente segnato dal ritorno delle guerre di potenza. Se è dunque chiaro che l’Ue non può continuare così, il tema all’ordine del giorno è come rifondarla: «La domanda non dev’essere più o meno integrazione, ma quale tipo di integrazione». Per questo – conclude Baier – oggi è più che mai necessaria una rottura sostanziale con l’impostazione autoritaria neoliberale che l’ha fin qui guidata.
Che cosa si potrebbe fare, allora? Per Candeias, al di là che ciascuno di noi preferisca un «piano A o B, o qualsiasi altra cosa», dovrebbe essere senso comune la necessità di «un piano C» per consolidare una più forte base sociale, per sviluppare le strutture di solidarietà di un’economia mutualistica, per organizzare i quartieri e le città ribelli, per creare le nostre istituzioni.
Diventare molti di più è indispensabile per realizzare qualsiasi alternativa desideriamo. E fare delle cose «è precondizione fondamentale per costruire il potere necessario a perseguire i nostri obiettivi».
Anche se ciascuno di noi è stato ed è coinvolto nella costruzione di concetti e strategie assai elaborati, questi interesseranno a pochi se si riveleranno irrealizzabili. In una situazione come l’attuale, caratterizzata da urgenze impellenti, «dobbiamo dare la priorità alla difesa di quei diritti basilari sotto attacco, come il diritto di sciopero, alla casa, all’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, a un reddito decente per tutti, rifugiati compresi». Ed è su questa base che si tratta di combattere e costruire connessioni multilivello e su scala transnazionale.
Numerose iniziative hanno posto in questi mesi al centro il tema della costruzione di movimento per la «democrazia in Europa», da DiEM25 alle diverse varianti del PlanB, da AlterSummit a Blockupy, fino alla crescita di un «nuovo municipalismo». Come evitare i limiti e la tendenza a competere di ciascuna di esse?
Qui, secondo il direttore della Rosa-Luxemburg, si potrebbe assumere una «prospettiva connettiva», capace di nutrire un «populismo di sinistra» concentrato sulla fine di tagli e privatizzazioni, e sul sostegno agli investimenti per la creazione di «infrastrutture sociali a livello europeo».
E questi temi dovrebbero essere al centro della rivendicazione del diritto a decidere su questioni centrali per la vita di tutti, i nostri «referendum». Così potremmo rendere «visibile il terzo polo: concentrandoci su cose molto semplici in questo momento e indicando con chiarezza i nostri nemici nelle caste nazionali ed europee al potere e, allo stesso tempo, nel populismo di destra. Il resto rischia di essere cattiva ideologia», non perché sbagliata o poco importante, ma perché priva d’impatto sulla realtà.
La ripresa a settembre di mobilitazioni, lotte sociali e iniziative politiche, in ogni paese dell’Unione, s’incarica ora di verificare se questo spazio per la «costruzione della soggettività politica dei molti» in Europa possa essere effettivamente praticato o meno.
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