Le «rivoluzioni» della destra, i «regolamenti» della sinistra

Mentre la destra pensava a come travolgere le regole e i confini di quel mondo che gli era stato consegnato dagli esiti della seconda guerra mondiale, la sinistra, non senza lodevoli e significative eccezioni, si prometteva di conservarlo

Mentre la destra pensava a come travolgere le regole e i confini di quel mondo che gli era stato consegnato dagli esiti della seconda guerra mondiale, la sinistra, non senza lodevoli e significative eccezioni, si prometteva di conservarlo, al massimo di fare opera di manutenzione, in qualche caso di troppo timida e fragile trasformazione. Una costruzione troppo debole per reggere l’offensiva avversaria

Quando si sente parlare di «morte della politica», senza altra specificazione, è difficile non preoccuparsi di venire trascinati in un equivoco di senso che potrebbe rivelarsi fatale. Certo l’asserzione ha il suo fascino e la sua potenza, come conviene a una sentenza espressa in modo aforistico, un apoftegma potremmo dire in linguaggio paludato. Questi a loro volta derivano dal fatto che con quell’espressione si colgono innegabili elementi di verità. Ma non tutti. E sappiamo bene cosa poi diventano le verità parziali.

Riparto allora da un esempio dall’attualità. Sergio Marchionne, nel suo endorsement a favore della «deforma» costituzionale, così si è espresso : «Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa nella direzione giusta e io sono a livello personale per il Sì, serve stabilità». A lui quindi non interessano i dettagli e neppure gli strumenti con cui affermare l’obiettivo che gli sta a cuore, ovvero quella stabilità del sistema politico che coincide con il rigor mortis della democrazia ma assicura libertà di manovra al mercato.

Si tratta di un obiettivo politico ambizioso, per il quale le classi dirigenti stanno lavorando da decenni, dal primo proclama della Mont Pelerin Society nell’immediato dopoguerra, passando poi attraverso i vari Gruppo Bilderberg, la Trilateral Commission, la Loggia P2, versione nostrana e un po’ maccaronica di quello stesso progetto fino al berlusconismo dal lungo corso e via dicendo.

Strada facendo quel disegno a-democratico e oligarchico si è fatto sempre più spavaldo. Ha avuto sempre meno bisogno di esprimersi all’interno di think tank, più o meno segreti o aperti a giornalisti embedded, e si è manifestato direttamente, attraverso la voce diretta degli attori economici dominanti e dei poteri finanziari. Così siamo giunti al famoso documento della JP Morgan del giugno 2013, vera matrice della «deforma» costituzionale portata avanti con intemerata energia dal governo Renzi.

Ma ciò non toglie che siamo di fronte a una potente e tenace costruzione politica, a un pensiero che si è fatto interprete degli spiriti animali del capitalismo nell’epoca della globalizzazione e del dominio della finanza.

Non si è trattato di semplice conservazione, ma di una rivoluzione restauratrice. Ovvero la categoria più alta della politica, cioè la rivoluzione, è stata curvata verso fini ad essa contrari. Di conseguenza il riformismo è diventato la foglia di fico di corpose controriforme.

Ben scavato, vecchia talpa! Ci tocca riconoscere.

Il neoliberismo non si è mai privato, anche nei suoi momenti di massimo fulgore e non solo nella crisi attuale, dell’aiuto determinante dello stato. Le logiche di mercato da sole non ce l’avrebbero fatta. La prova sta proprio nel fatto che per prevalere esse hanno bisogno di smontare Costituzioni, violentare leggi elettorali, strozzare canali democratici, cancellare spazi giuridici internazionali e crearne dei propri (come si tenta di fare con il Ttip, oggi per fortuna ad una battuta d’arresto).

Senza rinunciare a colpi di stato, a dittature, a populismi rivoluzionari manipolati dall’alto nelle zone del mondo di maggiore frizione, tutto ciò viene fatto – almeno nei paesi a capitalismo maturo – prevalentemente con le armi della politica, solidamente fondata su una disgregazione del fronte sociale avverso, attraverso le modificazioni dell’organizzazione del lavoro e conseguentemente della società. Una politica da cui è stata espunta qualunque forma di dialettica, che quindi si pone l’obiettivo della distruzione della democrazia nella teoria e nella prassi.

Naturalmente questa politica subisce anche i suoi rovesci. Si scontra contro resistenze e resilienze. Non c’è un deserto pacificato. La stabilità si trasforma spesso in cronica instabilità, a tutti i livelli. Gli status e i confini delle e fra le cose si confondono o spariscono. Persino quelli tra la guerra e la pace. Metaforicamente si può dire che il mondo viva oggi in uno stato «quantico».

È a sinistra che invece si può parlare di morte della politica. Il che ha permesso alle destre, nelle loro variegate versioni, di affondare i propri colpi in un ventre molle.

Questo è accaduto per una sorta di rovesciamento delle parti. Mentre la destra pensava a come travolgere le regole e i confini di quel mondo che gli era stato consegnato dagli esiti della seconda guerra mondiale, la sinistra, non senza lodevoli e significative eccezioni, si prometteva di conservarlo, al massimo di fare opera di manutenzione, in qualche caso di troppo timida e fragile trasformazione.

Una costruzione troppo debole per reggere l’offensiva avversaria. Per di più minata dal frantumarsi di un modello di riferimento con la crisi autodistruttiva del cd. socialismo reale e contemporaneamente da una letale separazione della cultura dalla politica che ha costituito una versione capovolta di quel «tradimento dei chierici» di cui scriveva Julien Benda alla fine degli anni venti.

Se per cultura si intende ciò che una generazione storica trasmette all’altra come risultato della sua autoproduzione umana e che la seconda modifica e prosegue secondo le nuove condizioni, si avverte un vero e proprio iato attorno alla fine degli anni settanta. I nodi sono venuti al pettine alla fine dei «trenta anni gloriosi», che colsero la sinistra nella sua parte preponderante priva di strumenti analitici per comprendere il significato di quel periodo.

In Italia qualcosa si avvertì – si ricordino i convegni dell’istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano e europeo – ma troppo poco e non furono le analisi e le tesi migliori a prevalere. Non parliamo poi dell’incapacità di leggere la crisi attuale, sia nel suo sopraggiungere che nel suo svilupparsi.

Ora non si tratta di stringere i bulloni sulle vecchie viti. C’è un «a capo» da cui dobbiamo ricominciare. Ed è l’analisi concreta della situazione concreta a livello mondiale. L’elenco fatto da Burgio sarà parziale, ma è già prezioso. Il capitalismo galleggia – che altro è la stagnazione secolare di cui si parla? – sul fallimento del suo modello di società. Se sprofonda, in assenza di alternativa, trascina tutti con sé. Non possiamo quindi accontentarci di una «terza via» fra il pessimismo di un Robert J. Gordon, di cui ha parlato PierLuigi Ciocca, e la ripetitiva fiducia nelle «magnifiche e progressive sorti» dell’innovazione di un Alec Ross, consigliere della Clinton. Né possiamo farci imbrigliare da polemiche un po’ nominalistiche a proposito del carattere postcapitalistico (Paul Mason) o precapitalistico (Evgenji Morozov) di alcune esperienze produttive autonome e dal basso.

L’alternativa non può essere cercata solo nel campo della politica e una certa sperimentazione di nuovi rapporti sociali e produttivi va iniziata da subito. La politica ci è appunto indispensabile per legare nuove esperienze pratiche alla delineazione di una idea modello produttivo e di società.

Quando era ufficiale, Tolstoj ammonì un graduato che fustigava un sottoposto che non teneva la fila: «Non si vergogna a trattare così un suo simile? Non conosce il Vangelo?» E l’altro: «E lei, non ha letto i regolamenti militari?». Ma di «regolamenti» a sinistra si muore.

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