Bartolomeo Vanzetti, una storia di famiglia

Storia. Parla Giovanni Vanzetti, il nipote dell’anarchico giustiziato con Sacco nel 1927

Giovanni Vanzetti è il nipote di Bartolomeo, l’anarchico italiano condannato ingiustamente alla sedia elettrica nel carcere di Charlestown (Boston, USA), il 23 agosto 1927, insieme all’amico e compagno di lotte Nicola Sacco. Accusati di omicidio durante una rapina, i due lavoratori immigrati furono in realtà condannati perché anarchici ed italiani, in seguito ad un processo farsa condizionato dal pregiudizio razziale e dall’odio politico nei confronti dei sovversivi. Per decenni in Italia le vicissitudini di Nick e Bart sono rimaste ai margini della storiografia, se oggi si possono contare decine di libri, saggi, documentari, spettacoli teatrali e film sull’argomento, è merito soprattutto della famiglia Vanzetti che ha combattuto stoicamente per riabilitare i nomi di Bartolomeo e Nicola ed ha inoltre conservato per quasi un secolo una mole incredibile di documenti.
Quella che Giovanni racconta è soprattutto una storia familiare, contraddistinta dall’orgoglio e dalla forza di volontà del fratello (Ettore, padre di Giovanni ndr) e delle due sorelle di Bartolomeo, che hanno dedicato la loro vita alla memoria del caro “Tumlin”.

Quando ha ascoltato per la prima volta la storia di suo zio?

Ho iniziato a seguire la vicenda sul finire degli anni ’50, quando avevo circa 20 anni, prima ero troppo piccolo e gli adulti non mi coinvolgevano. In casa comunque se ne parlava pochissimo per rispetto della zia Luigina che, tornata dagli Stati Uniti senza essere riuscita a salvarlo, né tantomeno a riportarlo sulla retta via come voleva la famiglia, si ammalò a causa del trauma subìto e non volle più affrontare il discorso.

Secondo lo storico Botta, Sacco e Vanzetti erano due anarchici intraprendenti che durante il primo conflitto mondiale lasciarono gli Stati Uniti e si recarono in Messico, non per evitare la chiamata di leva, ma per preparare la rivoluzione in Italia, seguendo quello che era accaduto in Russia. Quanto è importante conoscere la loro vita e il loro impegno politico prima del processo?

Credo che quando Bartolomeo partì per raggiungere gli Stati Uniti non fosse ancora un anarchico, questa è una mia convinzione derivata dalla lettura degli atti e dalle storie che ho ascoltato. Era un ragazzo che cominciava a farsi domande, tanto è vero che negli ultimi tempi a Villafalletto (Cuneo) trascorreva le giornate con gli amici più intimi che erano tutti giolittiani. La nostra non era una famiglia ricca ma non era nemmeno povera al punto da mettere un ragazzo alla fame e obbligarlo ad andare via. Secondo me decise di partire a causa della grande sofferenza per la morte della madre, per la quale provava un affetto sviscerato. Partì per l’America pensando di cambiare vita ma trovò una situazione completamente diversa da quella che si raccontava. La realtà era molto dura. Cominciò a pensare, a leggere e un po’ alla volta si avvicinò agli ambienti anarchici nei primi anni ’10. Noi non credevamo che Bartolomeo fosse colpevole di omicidio e rapina, nel modo più assoluto.

Sicuramente era un anarchico, ma a mio avviso lo era perché non c’era un sindacalismo e una sinistra reale e gli unici che si opponevano alle scelte padronali, dei proprietari che sfruttavano la gente all’inverosimile, erano gli anarchici. Comunemente ricordiamo gli anarchici come quelli che mettevano le bombe e ammazzavano i re ma bisogna anche ricordare che ogni gruppo lavorava autonomamente.

Il compito di custodire la memoria storica di famiglia lo ha ereditato da sua zia Vincenzina?

In realtà non ho mai studiato molto le carte e i documenti, ho letto però parecchi libri e le lettere di Bartolomeo. Ne ho parlato poi con mia zia Vincenzina che ha seguito la vicenda molto approfonditamente e ha dedicato gli ultimi 40 anni della sua vita al Comitato Sacco e Vanzetti. Ero affezionato a lei come ad una madre. Nel 1977, quando arrivò il proclama di Dukakis che riabilitò i nomi dei due condannati (primo caso nella storia degli Stati Uniti ndr), le telefonarono dagli Stati Uniti il giorno prima, dicendole di non darne ancora notizia ma lei ci chiamò a Torino per dirci che ora poteva morire tranquilla perché lo scopo della sua vita l’aveva ottenuto. Quando si tratta di partecipare a qualche evento vado sempre, quest’anno ne hanno organizzato uno anche a Villafalletto dove per decenni non si è mai parlato di questa storia. La mentalità contadina è chiusa e tutto rimaneva isolato. Quando furono dedicate le scuole medie a Bartolomeo Vanzetti, grazie alla tenacia della presideOlivero, all’inaugurazione hanno partecipato il parroco, il maresciallo dei carabinieri e due rappresentanti della giunta comunale solo perché dovevano esserci; oltre ai ragazzi, ai professori della scuola e ad alcuni miei amici non c’era nessun altro. Da circa 10 anni anche lì stanno cambiando le cose.

Credo che la sua famiglia abbia avuto un’intuizione sorprendente nel conservare centinaia di documenti e la fitta corrispondenza di Bartolomeo con i suoi cari.

È vero, mia zia Vincenzina, che era quella che assomigliava di più come carattere e come intelligenza a Bartolomeo, ha tenuto sempre tutto archiviato. Durante il fascismo naturalmente subimmo molte perquisizioni, non dai fascisti del paese che ci hanno sempre rispettato, ma da parte di quelli di Torino e di Cuneo che arrivavano all’improvviso. Mio padre e le mie zie catalogarono e nascosero una parte dei documenti all’interno di un muro davanti al sottoscala, un’altra parte invece la nascosero all’interno di un baule rivestito esternamente in rame, che poi seppellirono sotto il pollaio (ride ndr). Rimase lì per anni e le carte si conservarono perfettamente. Più recentemente, quando giornalisti e ricercatori andavano a casa di mia zia per visionare le lettere ed i documenti, lei glieli mostrava senza problemi. Tutto quello che la mia famiglia è riuscita a salvare lo abbiamo donato al Museo della Resistenza di Cuneo.

Le è piaciuto il film di Montaldo con Volonté?

Molto, anche se c’è della finzione. Se in Italia si parla di questa storia è anche grazie al film di Montaldo, perché ha raggiunto milioni di persone. Nel 1991 hanno invitato la mia famiglia a Roma per assistere alla prima di uno spettacolo teatrale su Sacco e Vanzetti. Un lavoro molto fedele. Tutti i testi erano presi dai verbali, tranne la frase iniziale del secondo atto in cui si affermava che la Chiesa cattolica e il Governo italiano erano intervenuti per la liberazione, cosa non vera perché non intervennero nel modo più assoluto. Ci fu solo un intervento pro forma. Ci hanno chiesto se volevamo un compenso per i diritti ma noi eravamo già soddisfatti così. Gli unici soldi che Vincenzina prese nel corso della sua vita furono 100mila lire di rimborso spese per i diritti del libro “Non piangete la mia morte”, che poi lei donò in un momento successivo alla vedova di Pinelli.

Crede che Sacco e Vanzetti abbiano giovato al movimento anarchico più da martiri che da vivi?

Per quanto riguarda gli anarchici non saprei onestamente. Se andiamo però a leggere le lettere e le arringhe di Bartolomeo al processo, sono convinto che la loro storia abbia giovato alle lotte della classe operaia. Questo è il mio parere, anche perché ho vissuto sulla mia pelle gli anni delle grandi conquiste operaie in Italia. Nel ’69 e nel ’72 a Torino, dove lavoravo come impiegato tecnico di un’azienda metalmeccanica, abbiamo fatto 208 ore di sciopero in un anno, che voleva dire un mese e mezzo di lavoro, con la polizia che ci caricava duramente.

Qual è il pensiero di Bartolomeo che l’ha colpita di più?

Mi hanno colpito indiscutibilmente l’onestà e la generosità verso i poveri che avevano meno di lui. Qualche mese prima che lo arrestassero, andò a comprarsi delle scarpe nuove dopo un anno, perché ne aveva davvero necessità. Uscito dal negozio incontrò sotto la pioggia un povero cristo, padre di famiglia, con le scarpe bucate, Bartolomeo si tolse le scarpe e gliele diede. Una persona del genere non avrebbe mai ammazzato altri lavoratori per rubargli dei soldi. Questa è una mia conclusione.

FONTE: Fabrizio Rostelli,  IL MANIFESTO

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