Statuto dei lavoratori. Quando eravamo extraparlamentari

Statuto dei lavoratori. Il timore era di smarrire la centralità che le lotte avevano assunto nel controllo sull’organizzazione della produzione

Non era per caso che nel ’68-69 ci definissimo «sinistra extraparlamentare»: lo eravamo proprio, sia pure alcuni non molto a lungo – il Manifesto-Pdup – altri al di là del buonsenso.

È un fatto che anche noi quando in Parlamento venne approvato lo Statuto dei lavoratori, il 20 maggio 1970, quasi ignorammo l’evento; e del resto, come si sa, anche il Pci, sia pure per ragioni diverse dalle nostre, prese le distanze dalla nuova legge; e si astenne.

Nel cinquantesimo anniversario di quello che ora consideriamo, e a ragione , un evento storico, qualcuno ha messo in rete un articolo che Quaderni Piacentini, una delle riviste più serie dell’epoca, aveva allora dedicato all’argomento, condannando senza mezzi termini la nuova legge come una truffa ai danni dei lavoratori. In capo all’articolo l’anonima mano ha scritto: «Oggi stringiamo i denti per difendere ciò che ne è rimasto».

Oggi è in effetti difficile capire come l’intera nuova sinistra abbia potuto esprimere un simile giudizio negativo sullo Statuto dei lavoratori.

Fu un errore – su questo non credo ci sia più nessuno che abbia dubbi – non considerare quella legge una importante conquista. Che peraltro accoglieva una richiesta avanzata da Giuseppe Di Vittorio già al congresso della Cgil del 1952. E che introduceva la Costituzione nel recinto della fabbrica, fino ad allora spazio extraterritoriale chiuso all’interferenza di un imperio che non fosse quello dettato dal padrone.

Per capire come sia potuto accadere bisogna riandare a quel tempo e al dibattito che l’accompagnò. Quel giudizio così drasticamente negativo, e il disinteresse con cui la legge fu accolta, aveva alla base un’ipotesi non del tutto destituita di fondamento, che animò infatti, allora, una vasta riflessione, che affrontava, ben oltre lo Statuto dei lavoratori, il tema generale del ruolo delle riforme.

Noi tutti, e con noi una parte dello stesso sindacato, consideravamo i rapporti di forza conquistati dagli operai nelle fabbriche ben più favorevoli di quelli esistenti a livello politico e temevamo che la linea del Pci, che puntava sulle riforme, fosse un modo per ridurre la radicalità dello scontro, spostando il confitto sull’infido e incontrollabile terreno della mediazione parlamentare.

Il timore, insomma, era di smarrire la centralità che con le lotte era stata data al controllo sulla organizzazione della produzione, sul cuore del sistema.

Tanto è vero che quando ci si accorse che non si poteva migliorare la condizione operaia senza prendere in considerazione quanto la determinava anche fuori dallo stabilimento – l’abitazione, la scuola, la salute – le lotte in merito vennero affidate dal movimento non ai lavori parlamentari ma ai Consigli di Zona, la trasposizione sul territorio dei propri autonomi organismi di potere, i Consigli di fabbrica, forse la più importante conquista strappata nell’autunno caldo del ’69.

Potere Operaio, e parte di Lotta Continua, spinsero il rifiuto del terreno istituzionale fino a teorizzare la possibilità di mettere in ginocchio attraverso la lotta di fabbrica il potere capitalista. E ritennero che le riforme avrebbero addirittura rafforzato il capitalismo, in quanto avrebbero razionalizzato il sistema.

Noi, come qualche altro gruppo, ci muovemmo in modo diverso, cercando di consolidare il potere costruito in fabbrica e di garantirne l’autonomia, sì da poterlo proiettare sul terreno politico.

Fu questa la linea che assunse anche la parte migliore del sindacato, a partire dalla unitaria Federazione dei lavoratori metalmeccanici (Flm); e questo garantì la lunga durata del ’68 italiano, che non aveva, né poteva avere, un obiettivo rivoluzionario, un sovvertimento che avrebbe presupposto ben altro processo storico.

L’ipotesi rivoluzionaria fu, con la sua consueta causticità, ridicolizzata dal leader sindacale della Fim-Cisl Pierre Carniti in un’intervista al Manifesto: «Non esiste in astratto una distinzione fra riforme necessarie e riforme che aiutano il sistema – disse -. Il padrone non si siede al tavolo per concordare la sua estinzione. L’esito si misura dunque dal potere che l’operaio conquista, dal mutamento dei rapporti di forza».

Rileggendo il Manifesto rivista – il quotidiano uscì il 28 aprile del 1971, un anno e mezzo dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori – si trova puntualmente, tuttavia, e sin dall’inizio – anche quando persiste la diffidenza per lo spostamento dell’epicentro della lotta operaia sul viscido terreno parlamentare – il richiamo alla necessità, a un certo punto, di trovare uno sbocco politico, e cioè un momento di mediazione che consolidasse il potere conquistato in fabbrica che avrebbe altrimenti rischiato di non tenere.

Quello sbocco non lo trovammo, per tante ragioni che ci sono a tutti note. È un fatto che è proprio attorno allo Statuto dei lavoratori che si sono andati in questi decenni misurando i rapporti di forza nel nostro paese. Contro questa legge sono stati scagliati un referendum dopo l’altro nella speranza di debellarlo; e poi, più pesantemente, i decreti di Berlusconi, di Monti, di Renzi, con il suo jobs act.

Ci si sono messi pure i radicali che, denunciando di «abuso» quella che chiamarono «Trimurti» (le tre confederazioni sindacali) cercarono con un referendum di rendere quasi impossibile il loro autofinanziamento.

Ma lo Statuto è anche diventato la legge più tenacemente da decenni difesa dai lavoratori e che ha visto prodursi in suo favore la manifestazione di protesta, forse la più grande della storia sindacale italiana: quando all’appello dell’allora segretario della Cgil Sergio Cofferati risposero tre milioni di lavoratori.

La linea di quasi tutta la nuova sinistra mutò con gli anni, tanto è vero che nel 1976 ,con la lista comune denominata Democrazia Proletaria, si presentarono alle elezioni politiche oltre al Pdup, anche Lotta Continua, Avanguardia operaia, il Movimento socialista dei lavoratori.

Nonostante tutti i suoi limiti quella esperienza aiutò a capire quanto la forza accumulata dalla classe operaia con le lotte innescate con l’autunno caldo del 1969 poteva pesare, e abbia in effetti pesato, per strappare riforme essenziali: il sistema sanitario nazionale, le pensioni, i diritti civili.E quanto importante sia stato riuscire ad arrivare alle mediazioni che le hanno rese possibili.

Già sul numero del giugno ’69 del Manifesto rivista, del resto, Lucio Magri aveva sottolineato l’ urgenza di trovare uno sbocco politico a una radicalizzazione delle lotte che altrimenti non avrebbe potuto stabilizzarsi. È quello che da allora abbiamo cercato di fare.

Adesso tutto è più difficile, ma sarebbe già molto che di quella straordinaria esperienza degli anni ’70, pur carica di errori ma anche di scoperte, conservassimo la capacità di tener al centro la questione del lavoro. Ormai diversissimo da quello di allora, ma pur sempre lavoro.

* Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

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